Europa, 60 mal portati
di CARLO CLERICETTI
C’è chi con l’età diventa più saggio e tollerante, e chi invece sempre più acido, rigido e pretenzioso, rischiando di divenire inviso anche a chi gli voleva bene. Se l’Europa fosse una persona ricadrebbe in questo secondo caso. L’immagine di popoli che si legavano sempre più tra loro in nome della pace e di una maggiore prosperità e aiutavano chi era più indietro a migliorare la sua condizione man mano è diventata quella in cui alla solidarietà si è sostituita la competizione, alla pari dignità l’egemonia di qualcuno su tutti gli altri, all’aiuto a chi è in difficoltà l’imposizione di penitenze, secondo torti e ragioni stabiliti dalla logica del più forte.
Le radici di una costruzione disastrosa
Non ci si può stupire che questo sia accaduto. Questa trasformazione risponde esattamente all’evoluzione ideologico-culturale che negli ultimi quarant’anni ha investito quasi tutto il mondo. Prima degli anni ’80 anche i liberali (per lo meno, la maggior parte di loro) avevano una visione per cui una più equa distribuzione della ricchezza era opportuna per il buon funzionamento della società e lo Stato non era visto solo come una macchina inefficiente e dissipatrice di risorse che il settore privato avrebbe impiegato meglio. Non dimentichiamo che William Beveridge, il barone britannico considerato il fondatore del moderno welfare, era appunto un liberale, come lo era John Maynard Keynes.
A partire dagli anni ’80 del secolo scorso l’altra visione, quella di una società competitiva al massimo, con un settore pubblico da ridurre ai minimi termini e con una ricchezza da redistribuire il meno possibile perché la userebbe meglio chi è capace di accumularla (facendo poi “gocciolare” questo maggior benessere verso gli strati sociali inferiori: la teoria cosiddetta del trickle-down), ha preso il sopravvento e rapidamente la completa egemonia, conquistando anche quasi tutti gli esponenti di formazioni politiche socialdemocratiche. E’ in questa temperie che è nata l’Europa che c’è ora, quella del Trattato di Maastricht, elaborato a fine anni ’80 e firmato nel febbraio ’92, e del Trattato di Lisbona, firmato nel 2007 dopo che un tentativo di Costituzione europea era stato bocciato dai referendum in Francia e Olanda. Per fortuna, visto che era basato appunto su quei principi, trasferiti peraltro pari pari nel Trattato “riparatore”.
La Costituzione stravolta
Principi molto diversi da quelli su cui è basata la nostra Costituzione, che infatti un famoso report di una delle maggiori banche d’affari mondiali ci invitava a cambiare. La nostra Carta fondamentale mette al primo posto il lavoro, non certo il controllo dell’inflazione, e “riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto” (art. 4). Anche il Trattato sull’Unione europea afferma che si punta alla “piena occupazione”, ma poi i meccanismi di controllo dei conti pubblici, invece, si basano su teorie che parlano di un tasso di disoccupazione “naturale”, riducendo il quale si produce inflazione, il cui controllo è invece il principale obiettivo sancito nei Trattati – e ripetuto nello statuto della Bce – insieme alla tutela della concorrenza. Da noi si assegna alla Repubblica il compito di “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana”. Nel Trattato sull’Unione questo concetto è molto più sfumato, anche se si dice che “combatte l’esclusione sociale e le discriminazioni e promuove la giustizia e la protezione sociali, la parità tra donne e uomini, la solidarietà tra le generazioni e la tutela dei diritti del minore”. Sul fatto comunque che i trattati che hanno dato forma all’attuale Europa confliggano con la nostra Costituzione sono stati scritti libri (ai quali rimandiamo: per esempio “La Costituzione nella palude” di Luciano Barra Caracciolo” e “Costituzione italiana contro trattati europei. Il conflitto inevitabile” di Vladimiro Giacchè, entrambi editi da Imprimatur). Anche l’inserimento nella Carta del pareggio di bilancio approvato dal nostro Parlamento (con un eccesso di zelo, visto che non c’era nessun obbligo di farlo) è stato un errore, perché questa norma può entrare in conflitto con i primi articoli, quelli che ne stabiliscono lo spirito.
La nostra adesione a “questa” Europa implica dunque una riforma costituzionale ben più radicale di quella che è stata recentemente bocciata con un referendum da più del 60% degli italiani. Cosa che non potrebbe accadere, per esempio, per la Germania, la cui Costituzione prevede che non si possano firmare trattati in contrasto con la Costituzione stessa, e la cui Corte è stata più volte chiamata a giudicare su problemi riguardanti le scelte europee.
“Ce lo chiede l’Europa”
Chi dunque invoca “più Europa” per superare le attuali difficoltà, dovrebbe anche spiegare “quale” Europa e come sarebbe possibile trasformarla, visto che per cambiare sostanzialmente i trattati servirebbe più o meno un miracolo: anche se i rapporti di forza fossero più favorevoli di quelli oggi ipotizzabili, le modifiche dovrebbero essere approvate da tutti i 27 membri. Sarebbe più facile veder volare un asino. Ma in realtà una parte importante della nostra classe dirigente non vorrebbe cambiare proprio niente, in base a un ragionamento ben riassunto da un paio di frasi di Mario Monti apparse sul Sole24Ore: “Per l’Italia, andare verso l’economia sociale di mercato voleva dire andare verso la disciplina e verso l’Europa. Quel modello di stampo tedesco stava diventando la costituzione economica europea”. E’ l’antico criterio del “vincolo esterno”. Siccome l’Italia non si sa governare, bisogna creare le condizioni perché la strada da seguire sia obbligata.
Ora, sono molti i governi italiani che hanno fatto di tutto per dar ragione a questa impostazione, da Berlusconi a Renzi solo per citare gli ultimi. Ma concluderne che è meglio che l’Italia sia governata da altri significa ignorare quale sia – da che esiste il mondo – la sorte delle colonie: il loro destino è sempre stato quello di essere gestite a vantaggio di chi le controllava. La probabile replica può essere che questo è un caso diverso, di una “unione tra pari”: tesi davvero ardua da sostenere, visti gli innumerevoli episodi della storia recente in cui i nostri interessi non sono stati presi in alcuna considerazione.
Ma l’Italia – si dice ancora – è troppo piccola per affrontare le sfide del mondo globalizzato. A parte che nel 2016 (dati Fmi) risultavamo l’ottava economia mondiale (la Russia, per dire, era dodicesima), l’obiezione sarebbe valida se dalla nostra partecipazione alla Ue ci derivassero vantaggi tali da compensare la perdita della possibilità di attuare politiche economiche diverse da quella imposta dai meccanismi europei, basata sulla svalutazione del lavoro e su limiti stretti all’intervento pubblico. Ma se la bilancia pesa dalla parte degli svantaggi – come mostra la storia degli ultimi otto anni – quale sarebbe la razionalità di questa situazione? Se l’Unione conta nel mondo, ma noi non contiamo nell’Unione, ci siamo solo scelti un padrone effettivo al posto di uno ipotetico (il mondo globalizzato). Il problema è che buona parte della nostra classe dirigente, quella che ha gestito il potere negli ultimi anni, è sostanzialmente d’accordo con quel “padrone”.
Nazionalismo contro europeismo?
La constatazione di questi fatti basta per essere accusati di anti-europeismo e di nazionalismo. Ma qui non si parla di un problema identitario, che per il nazionalismo è un ingrediente indispensabile: si parla di preservare il funzionamento della democrazia. I sistemi di rappresentanza sono organizzati a livello nazionale, i politici per essere eletti hanno bisogno del voto dei “loro” cittadini (anche gli europarlamentari). Agiranno quindi in modo da fare prima di ogni altra cosa gli interessi del loro paese, cioè dei cittadini che dovranno votarli, e i paesi più forti tuteleranno i loro interessi anche a scapito degli altri. Non è un caso se la Germania appare oggi, tra i membri dell’Unione, quello politicamente più stabile, dove il peso dei partiti cosiddetti “anti-sistema” rimane modesto.
Chiedere quindi che il potere effettivo non sia delegato a organismi tecnocratici, ma rimanga dove è più concreta la possibilità di controllo da parte dei cittadini, non ha nulla a che fare con il nazionalismo e molto invece con la democrazia. Non significa dunque tornare alle “piccole patrie” e non è in contraddizione con una ulteriore – ma diversa – evoluzione del processo unitario europeo.
E allora, uscire?
E dunque, Italexit, come il Regno Unito? Non è facile. Una decisione unilaterale di questo genere ci esporrebbe a una probabile crisi finanziaria. Diverso sarebbe se l’uscita fosse concordata e avessimo l’appoggio della Bce, ma al momento questa ipotesi sembra avere probabilità analoghe a quelle di una riforma profonda dell’Unione, cioè quasi nulle.
E dunque, non si può far niente? Qualche cosa si potrebbe fare. Non certo il referendum sull’euro che vorrebbero i 5Stelle: al suo solo annuncio – anzi, già se ci fosse una vittoria elettorale dei 5S, a meno che non dichiarino di rinunciare a questa idea balzana – si scatenerebbe una fuga di capitali come se fossimo già usciti: sarebbe un modo per ottenere il massimo danno a fronte del nulla. Ma altre strade ci sono.
In politica, quella interna come quella internazionale, è raro che esista solo un’alternativa: nel nostro caso, o dentro o fuori. Si potrebbe per esempio sfruttare il concetto di “Europa a più velocità” per applicarlo in modo diverso – anzi opposto – a quello per cui è stato pensato. Nelle intenzioni di Angela Merkel significa fare ulteriori passi nell’integrazione con chi ci sta (o con chi può essere “convinto” a starci). Non stupisce che la cancelliera tedesca voglia procedere sulla strada di questa Europa ad immagine della Germania. Ma noi invece dovremmo svincolarci, prima di tutto dalle assurde regolette di bilancio.
Abbiamo da tempo contestato i criteri usati dalla Commissione per valutare i nostri conti pubblici, ma siccome quei criteri – sotto la finta di tecnicismi – sono politici, nessuno ci sta a sentire. Lì dovremmo ingaggiare una battaglia vera, usando tutti i mezzi che le procedure ci permettono: per esempio bloccando qualsiasi decisione che richieda l’unanimità finché non ci danno retta. Ma senza aspettare che ci diano il permesso: abbiamo già perso troppo tempo. La mossa minimale sarebbe quella di fare nel frattempo il nostro bilancio applicando la metodologia Ocse per avere spazi ben più ampi dei decimali di “flessibilità” che di malavoglia ci vengono concessi. In realtà ci vorrebbe una contestazione più radicale di queste metodologie arbitrarie, ma se si vuole evitare uno scontro troppo aspro quello può essere un primo compromesso. Con un po’ più di audacia, poi, si potrebbe infischiarsene del tutto delle regole, e fare un deficit sufficiente a far ripartire davvero l’economia, scrollandosi da quell’anemico 1%. Ci vorrebbe un deficit primario (cioè al netto degli interessi) di un paio di punti di Pil per almeno due o tre anni. Non si tratta di far crescita a debito: il bilancio deve essere usato in funzione anti-congiunturale. Si è visto che i privati non investono, nemmeno con i cospicui sgravi fiscali che hanno ricevuto, nemmeno con i tassi ai minimi storici: non investono perché la ripresa non c’è o è troppo debole, e solo un flusso adeguato di investimenti pubblici può farla ripartire.
Non basta avere risorse
Non basta, però, avere più risorse: poi bisogna usarle bene. Ci vuole un governo che quei soldi non li butti dalla finestra, come ha fatto Renzi negli ultimi tre anni. E questo forse è persino più difficile che vincere la battaglia a Bruxelles. Se le priorità di chi governa continueranno ad essere la riduzione del costo di un lavoro sempre più flessibile, i soldi distribuiti a questa o quella categoria, la riduzione delle tasse (a parole: di fatto finora si sono solo redistribuiti i pesi, a vantaggio soprattutto delle imprese – o spesso degli imprenditori – e di gruppi che si presumeva che ne sarebbero stati riconoscenti al momento del voto); se si continuasse su questa strada, aumentare il deficit farebbe solo danno.
L’Europa così com’è e l’euro sono di certo grossi problemi, ma ancora più grosso è il problema di una classe dirigente che si è dimostrata e si dimostra inadeguata, non sa farsi ascoltare in Europa e fa male in politica interna. Pensare che queste persone si potrebbero trovare a gestire un’uscita dall’euro, in seguito a qualche shock che resta tutt’altro che improbabile, fa venire qualche brivido. Si può e si deve continuare a cercare di individuare le strade migliori da prendere, ma la questione di fondo è: poi chi è che guida?
fonte: http://clericetti.blogautore.repubblica.it/2017/03/29/europa-60-mal-portati/
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