Risiko – parte 1
di IL BLOG DI SABINO PACIOLLA (Giovanna Ognibeni)
Ebbene sì parlerò anch’io della guerra, o più esattamente sull’idea di guerra che abbiamo interiorizzato, ma le mie considerazioni vorrebbero situarsi sub specie aeternitatis, come diceva Spinoza. Sento di dover precisare, non ho letto Spinoza, ma ho trovato la citazione in un manuale di filosofia: comunque vale lo stesso e significa ‘fuori dalle contingenze, sentimenti, morale del momento, impressioni dell’animo’.
Perché affermare che la guerra è una tragedia ce lo fanno scrivere nei temi a partire dalla terza elementare, il che non significa certamente che non sia vero, ma è decisamente insufficiente.
Infatti è quel che può dire anche un nulla in completo blu che porta a spasso il suo sorriso compiaciuto per le Cancellerie d’Europa (e oltre), insieme all’alata constatazione che sparare sui civili è da criminali di guerra.
E Hiroshima, e Nagasaki? Sganciare due atomiche nell’agosto del ’45, a guerra finita, giusto per spicciare la formalità della resa nipponica, risparmiare un po’ e (forse) anche testare l’atomica? Circa 150.000 morti sul momento. E poi si può ricordare Dresda, i bombardamenti sull’Italia settentrionale e tutto quel che volete aggiungere.
E inoltre i bombardamenti sul Donbass con 20.000 morti, un governo che più a destra è difficile trovarlo ma in Ucraina non olet, come la pecunia di Vespasiano, ed allora lì non vale portare l’Enduring Freedom.
Bisognerebbe riflettere non sé stessi ma su sé stessi prima di parlare, anche perché quando non si è una potenza politica e militare sarebbe utile meditare sul destino di Cicerone, l’autore delle Filippiche contro Marco Antonio, sacrificato all’atto del loro triumvirato da Ottaviano senza un sospiro alla vendetta di Antonio.
Certamente ai due presidenti Bush sono state portate critiche, ma nessuno dei media mainstream si è permesso di chiamarli folli e criminali, e sì che i morti nei territori liberati sono stati negli anni centinaia di migliaia ma forse, come ha già notato qualcuno, erano meno telegenici.
Non è accettabile una morale selettiva, né si capisce francamente perché esportare la democrazia sia un’opzione praticabile e sostenibile dal punto di vista del diritto e dell’etica, e tutelare gli interessi nazionali, fondati o meno, sia bieco imperialismo.
È un mantra logoro, come quello di iniziare qualsiasi discorso su pandemia e dintorni dicendo che il vaccino era ed è indispensabile. E se non lo fosse e se fosse stato più utile puntare sulle cure? In entrambi i casi si dà per scontato ciò che invece deve essere dimostrato.
L’Ucraina, o meglio il suo governo, è filo-occidentale quindi buono, quindi portatore dei nostri (?) valori perciò ha ragione, è dalla parte giusta della storia, come ripetono petulanti coloro che evitano così di dover pensare e dover decidere da soli.
Quindi direi di lasciare impregiudicata la questione del giudizio storico e politico sull’operato di Putin e invece poniamo la forse ancor più urgente questione su come l’Occidente, come noi occidentali, consideriamo la guerra.
C’è una cesura, un ante e un post che segnano irrimediabilmente una rivoluzione copernicana nel nostro giudizio, ed è il secondo dopoguerra: quando uno non sa di che parlare di solito si rifugia nel dire che molteplici sono i fattori da considerare; e così faccio anch’io e affermo che la combinazione, anzi il combinato disposto, per usare l’elegante locuzione mutuata dal lussureggiante lessico giuridico, dello shock dell’atomica (nella storia passata non c’era mai stato nulla di simile, e basta osservare la proliferazione di film negli anni ‘50 sugli alieni e le minacce all’umanità per farsi un’idea del sentimento collettivo) con il miracolo economico, gli sviluppi tumultuosi in campo tecnologico e sanitario, l’introduzione del sistema del welfare abbiano fatto sì che il concetto stesso di guerra sparisse dal nostro orizzonte mentale e culturale.
La guerra per noi occidentali, e starei per dire in particolare per noi italiani che ci sentiamo di combattere per qualcosa solo al 5%, non è contemplata: è ripudiata come un residuo non più presentabile, come le pattine nel salotto buono.
Mia madre, sfollata in Friuli a sei anni durante la prima guerra mondiale, patì seriamente la fame, e nel novembre del ’43 appena partorito mio fratello, rimase col bambino a letto mentre le sirene annunciavano un altro attacco aereo su Bolzano.
Ci raccontava delle bombe di piccole dimensioni lanciate dagli alleati, che riempivano di bambini gli istituti di Don Gnocchi, senza enfasi e senza troppo pathos, non perché fosse insensibile ma perché in certe circostanze, la guerra appunto, era naturale.
Quanto noi siamo ormai così distanti dai puri dati esistenziali può essere agevolmente dimostrato sol che chiediate ai miei coetanei di raccontare della pandemia del ’57, l’asiatica, e ancor più di quella di Hong Kong del ‘68-’69: molti si ricordano vagamente che furono due brutte influenze perché così vennero presentate, con molte raccomandazioni di prudenza e nulla più.
I morti furono secondo alcune registrazioni tra i 2 e i 4 milioni nel mondo, in Italia circa 20.000. Nessun panico e nessun provvedimento draconiano, nessuna apocalisse da “Niente sarà più come prima”. D’altro canto in quegli anni d’estate faceva molto caldo e d’inverno molto freddo, e c’era anche nebbia in Valpadana.
Torniamo al punto: durante la prima guerra del golfo due aviatori italiani, Cocciolone e Bellini, vennero abbattuti e fatti prigionieri. Diventarono subito due eroi, con un nesso logico che ancor m’offende.
Sf…ortunati senz’altro, era il secondo giorno di combattimenti, magari bravi, ma perché eroi? Negli ultimi anni, sui giornali sono eroi i cani che salvano anziane padrone e bimbe dai boccoli d’oro, e tra le persone quelle non vergognosamente vili e menefreghiste, il che significa che non si sa più cosa sia un eroe, o che si suppone l’identità comune essere quella di un Maramaldo.
Le guerre sono il lavoro sporco che gli europei e gli italiani non vogliono più fare, abbiamo messo dei fiori nei nostri cannoni, vogliamo solo peace and love.
Poi, è vero, se pensiamo che un no-vax possa contagiarci, portiamo alla luce l’ariano che è in noi ed auguriamo la morte più atroce a quella feccia umana. Perché la pelle è la nostra.
Ma in generale ci piace l’arcobaleno, la manifestazione della pace senza se e senza ma, in cui ci consegniamo fidenti ai nostri nemici perché non li riteniamo tali, come tante Cappuccetto Rosso un po’ rintronate. Poi arriva l’orco cattivo e strilliamo indignati e non lo facciamo giocare a pallone. O spegniamo per un minuto le luci in città per fargli sapere tutta la nostra determinazione.
E tutti come bambini seguiamo il pifferaio che ci conduce al burrone più vicino. Non illudiamoci: noi uomini (e donne, ça va sans dire) siamo congenitamente pecore, e nutro il forte dubbio che le parabole e gli esempi di Gesù fossero spesso di argomento pastorale sol a causa del contesto socio-economico.
Dove vanno le altre andiamo anche noi, ed in questo non c’è nulla di male, perché abbiamo bisogno di compagnia. Il punto è solo quello di sapere chi sono i pastori che ci guidano.
Non vorrei passare per una senile cultrice delle virtù guerriere e del maschio eroismo, anzi al riguardo sono piuttosto mollacciona; tuttavia ritengo che un paradigma cui l’umanità si è conformata da quando esiste e che riflette lo schema generale che struttura il comportamento animale in natura (e non è legato all’alimentazione: andate a molestare un rinoceronte o un ippopotamo, entrambi erbivori, e poi sappiatemi dire) non possa essere messo in liquidazione così facilmente.
Farò alcuni esempi iniziando dal cinema: film di guerra, western, kolossal (nella versione del Gladiatore per esempio) attraggono ancora la gente che si identifica nel coraggio, nell’ardimento dei protagonisti; non ha quel coraggio ma desidererebbe averlo, desidererebbe avere qualcosa per cui lottare.
Se nel secondo dopoguerra critico, un film come Orizzonti di Gloria contestava duramente il militarismo, l’arroganza e la stupidità criminale dei comandanti, tuttavia la figura del colonnello, interpretato da Kirk Douglas, celebrava comunque il coraggio del singolo che si oppone all’ingiustizia.
In questi ultimi anni Dunkirk di Nolan e 1917 di Mendes sono stati capaci di riprendere i temi del dovere civile, della corresponsabilità, dell’amore alla propria gente, dell’eroismo, infine di creare un epos cui il cuore può corrispondere.
Anche in chi conosce il lato fangoso della guerra; mi è capitato di vedere in un documentario ragazzi congolesi, usciti da non molti anni dal drammatico e sanguinosissimo conflitto, attirati dalla locandina di uno spettacolare film di guerra!
L’uomo combatte per qualcosa di più grande della vita fisica, ed allora è capace di costruire la pace. Ma se non ha nessun motivo per combattere lo farà lo stesso, come le bande di ragazzini scatenati che ritualmente si scontrano nelle nostre strade.
Questo resta inspiegabile per chi li (ci) considera polli all’ingrasso: qualche anno fa, intervista di La 7 a ragazzini islamici, viene chiesto se sarebbero disposti a morire per Allah (domanda mal posta, avrebbe dovuto chiedere se veramente pensassero che Allah tragga gloria dalle teste mozzate).
Alla risposta affermativa, la giornalista manifesta tutto il suo stupore perché “l’obiettivo dei nostri ragazzi è il motorino”. Il sottinteso è che i nostri sono più progrediti. Certamente la giornalista avrebbe meritato l’invito di mio padre, maschio sciovinista, di andare a far la calza – per par condicio, se fosse stato un uomo, si sarebbe rammaricato per quelle ‘braccia rubate all’agricoltura’.
Eppure nei secoli passati erano esaltati i martiri, disposti al sacrificio della vita per la fede, nell’Ottocento i patrioti per l’Italia unita, e magari sull’altro fronte per i Borboni, nel secolo scorso i giovani e giovanissimi morti per la Resistenza.
Oggi all’alba del glorioso terzo millennio, i giovani vengono lodati dai maggiori quotidiani perché responsabili e maturi sostanzialmente perché, disciplinatissimi, hanno accettato tutte le imposizioni, dalla Dad alle vaccinazioni.
Che il giovane maturo e responsabile, e obbediente, sia un ossimoro vivente dovrebbe essere chiaro anche per un giornalista.
Che la maggior parte si sia vaccinata, non per proteggersi (anche un allocco sa che il loro rischio è ad oggi praticamente inesistente) o per proteggere il nonno (specie se il vecchio avaraccio dà mancette ridicole), ma per poter uscire a farsi un aperitivo, o in pizzeria con gli amici, beh: anche questo si dovrebbe sapere.
Del resto cosa attendersi da un popolo (o da popoli) totalmente ripiegato su sé stesso, vittima dell’uso compulsivo dei selfie, vale a dire individui cui importa solo far vedere sé stessi, ciò che mangiano, dove si trovano, con chi si trovano e mettere i loro stramaledettissimi like su tutto.
Da un popolo cui è destinata la pubblicità delle caramelle gommose che fanno parlare rampanti yuppies come dei bambini deficienti, di adulti altrettanto deficienti cui piace il rumore dell’involucro della merendina, o che amano schiacciare la medesima merendina e via bambocciando, insomma una folla di decerebrati.
E poi c’è un Elon Musk che sfida a pugni Putin, e con lui ci troviamo almeno nel Medioevo, con le sfide tra singoli cavalieri per decidere le battaglie. O con Tex Willer. E tiriamo un sospiro di sollievo.
FONTE: https://www.sabinopaciolla.com/risiko-parte-1/
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