Il campo di gioco, la sinistra, le nazioni
di ALESSANDRO GILIOLI
Quello che sta succedendo in Francia, come spesso accade, è interessante e metaforico della contemporaneità. Cioè ci aiuta a capirla, almeno un po’ (una roba lunghetta, chi ha fretta molli qui).
In Francia tra meno di un mese rischiano fortemente di essere esclusi dal ballottaggio entrambi i partiti che si sono alternati al potere in tutta la V Repubblica: socialisti e gollisti (repubblicani), insomma centrosinistra e centrodestra storici.
SI affronteranno invece, con ogni probabilità, la candidata del Fronte Nazionale, Marine Le Pen, e il candidato indipendente che ha creato un anno fa un movimento liberal-liberista, Emmanuel Macron, in passato banchiere per Rothschild.
L’asse politico, la geometria politica, non è quindi più quella che contrappone destra e sinistra, almeno in senso classico. Da una parte c’è infatti una candidata nazionalista, identitaria, chiusurista e anti-internazionalista; dall’altro un candidato liberista, mercatista, mondialista, filo-global.
Insomma, due destre: una nazionalista e una internazionalista. Anche se nei programmi di entrambi, e nei loro Dna, ci sono anche elementi che secondo lo schema tradizionale appartengono alla sinistra: per Le Pen, salari minimi più alti, ribasso delle tariffe di gas ed elettricità, aumento delle pensioni minime, diritto alla pensione dopo quarant’anni di lavoro o sessant’anni di età, lotta alla finanza speculativa; per Macron no a muri e razzismi, no alla chiusura delle frontiere, pari opportunità e valorizzazione dei talenti, visione aperta al mondo.
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La sinistra, come noto, nasce internazionalista. Nel secolo degli Stati nazionali al loro massimo, teorizza lo scontro non tra nazioni ma tra classi sociali. Classi traversali alle patrie.
Ciò nonostante, nel corso della seconda metà del secolo successivo tutte le conquiste della sinistra, e delle classi popolari che la sinistra allora rappresentava, sono avvenute attraverso gli stati nazionali. Cioè attraverso leggi di tutela dei ceti deboli e dei lavoratori che venivano approvate dagli Stati nazionali, e al loro interno implementate.
È così che sono nate, ad esempio, le socialdemocrazie scandinave.
Ma qualcosa di non così diverso è avvenuto altrove – dal Spd Germania al Labour inglese; e così è nato il welfare, così sono nate tutte le misure che hanno diminuito la forbice sociale in Europa. Anche in Italia, con lo Statuto dei Lavoratori e il Servizio sanitario nazionale pubblico e universale. E perfino prima del centrosinistra, con il piano casa Fanfani. Perché non serviva nemmeno sempre che le sinistre governassero: bastava la paura del comunismo, perché qualcosa venisse concesso.
A volte, non qualcosa ma molto: e così l’Europa è diventata l’area del mondo con il miglior welfare, con le le migliori misure sociali, con quella che veniva spesso chiamata “aristocrazia operaia”.
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Poi, a partire dagli anni ’80, a poco a poco sono finiti gli Stati nazionali, o almeno le economie nazionali. I capitali hanno cominciato a viaggiare da un paese all’altro. I mercati sono diventati globali. Le aziende hanno iniziato a delocalizzare. Se lo Stato voleva tassarne gli utili per redistribuire, quelle andavano altrove.
Quindi i mercati – quelli ormai globali – sono diventati sempre più indispensabili per ogni spesa pubblica, avendo gli Stati debiti con loro. Dunque, premiando o punendo gli Stati-debitori, i mercati hanno preso a indirizzarne le scelte politiche. Uno Stato fa qualcosa di sgradito ai mercati? Con tre clic su un computer, questi fanno andare in default lo Stato in questione.
Per farla breve: quello che un secolo fa era un ideale di sinistra e popolare – l’internazionalismo, l’internazionalizzazione – si è scoperto essere diventato uno strumento per togliere diritti, benessere e welfare alle classi popolari stesse. Nessuna politica sociale poteva più essere fatta dai singoli stati nazionali. I poteri si erano spostati altrove.
Insomma, l’internazionalismo è diventato “di destra”, in senso economico.
La reazione è stata quella che vediamo: il neonazionalismo. L’aspirazione dei ceti bassi e di quelli proletarizzati a tornare indietro: verso le frontiere, i muri, l’identità nazionale contro tutti gli altri, fuori. Una cosa che però è di destra di suo, da sempre: infatti si declina in Trump e Le Pen.
Si pensa – o ci si illude – che, rialzando muri, alla base della piramide sociale si possa riacquistare ciò che la globalizzazione dei mercati ha tolto.
Di qui la situazione attuale: ceti popolari che votano la destra nazionalista. Come negli Stati Uniti. Come in Francia.
Anche una parte della sinistra applica lo stesso ragionamento immediato, intuitivo: in quel campo di gioco lì – quello nazionale – vincevamo o almeno pareggiavamo, comunque qualcosa si otteneva; in questo campo di gioco qui – l’Europa, il mondo – si perde male. Meglio sarebbe quindi, secondo questa logica, tornare agli stati nazionali.
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In realtà, come noto, quella in corso non è la prima globalizzazione. Gli storici concordano nell’individuare un fenomeno simile a quello attuale nel periodo tra il 1870 e il 1913: quello successivo alla scoperta e alla diffusione del telegrafo, che era l’Internet dell’Ottocento. Fu anche periodo di enormi migrazioni, dato che insieme alle merci si spostavano le persone: tra il 1820 e il 1913, si calcola che oltre sessanta milioni di persone siamo emigrate nelle Americhe. Solo nei vent’anni tra il 1880 e l’inizio del XX secolo, circa il 6 per cento della popolazione europea ha fatto rotta oltreoceano.
Poi ci fu il primo grande rinculo: la crisi del ’29, la nascita dei fascismi, le due Guerre mondiali. Solo dopo, l’onda si invertì.
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Oggi siamo al secondo rinculo, alla seconda reazione. Non ingiustificata, come si è visto. Ma non eterna. Come ogni rinculo, ogni Concilio di Trento, ogni Congresso di Vienna.
Le tecnologie ci portano comunque dall’altra parte: verso un mondo sempre più interconnesso, sempre più piccolo, in cui siamo sempre più vicini gli uni agli altri.
E si sa che tra struttura (la tecnologia) e sovrastruttura (la politica) sul lungo prevale la prima.
Sì, è cambiato il campo di gioco. In quello vecchio si poteva pareggiare e qualche volta anche vincere. In quello nuovo finora si è perso e basta.
Ma non è illudendoci di poter tornare al campo di gioco vecchio che si tornerà a vincere: lì, oggi, prevalgono i nazionale-fascisti. E il campo vecchio è, comunque, il campo vecchio. Che non torna indietro, se non per breve illusione. Se non per breve rinculo.
Bisogna quindi, invece, attrezzarsi per giocare e vincere nel campo nuovo.
Più faticoso eh? Certo. Ma l’unica strada possibile, realistica, e di respiro meno breve rispetto all’immediato.
L’unico modo per uscire dalla tenaglia di oggi: quella tra nazionalisti e liberisti, tra Juncker e Trump, tra Rothschild e Le Pen.
Tra due destre, insomma.
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