Nulla è irreversibile, la Francia lo dimostra
di L’INTELLETTUALE DISSIDENTE (Mauro Indelicato)
L’eredità delle elezioni in Francia consiste in una rappresentazione diversa delle società del vecchio continente, in cui il processo di ‘moderna’ globalizzazione non può più essere avvertito come irreversibile dato di fatto della storia
C’è un elemento che, più di ogni altra cosa, rende il dibattito politico e sociale sulla globalizzazione e sui suoi effetti tutt’altro che sereno: è la convinzione, espressa dai più importanti esponenti dei favorevoli a questo processo (i quali spesso coincidono con alcuni dei più noti commentatori interni ai media tradizionali), che la globalizzazione sia fenomeno non solo positivo ma ‘inevitabile’ e ‘fisiologico’, quasi un vero e proprio automatismo della storiatanto da etichettare, coloro che vi si oppongono, come una sorta di male assoluto e di inguaribili ‘nostalgici’ oppositori del presunto progresso e delle tanto vituperata modernità.
Le elezioni francesi, da questo punto di vista, risultano emblematiche: si presenta il candidato, poi risultato vincitore, Emanuel Macron come un ragazzo dal volto raggiante, dinamico, positivo, un uomo che sa vincere e che non si stanca mai di battersi per la sua visione di un’Europa ‘nuova’ e di un mondo ‘aperto’ e, per l’appunto, ‘moderno’; di contro, Marine Le Pen è etichettata come la candidata di una Francia ‘chiusa’ ed ‘antica’, che non sa e non vuol guardare avanti. Si potrebbe discutere in eterno poi sul significato di ‘moderno’ ed ‘aperto’, significato che sembra voler dir tutto per celare il fatto che (scavando in fondo) non vi è alcun contenuto politico adeguato al suo interno, ma il problema qui è un altro: ad un’idea e ad un programma politico, nelle elezioni d’oltralpe appena trascorse (così come, negli ultimi anni, anche in altre occasioni), si dà una precisa connotazione positiva a livello storico in primo luogo, mentre ad un’altra vengono attribuiti concetti e termini di chiara connotazione negativa. In parole povere, nei media tradizionali molto più che all’interno dell’opinione pubblica (la quale, specialmente in provincia, ha oramai vita intellettuale autonoma da tv e giornali), il confronto è tra un angelo ed un demone, tra il bene ed il male che, nella trasposizione terminologica e mediatica attuale, diventano rispettivamente ‘aperto’ e ‘chiuso’, ‘moderno’ ed ‘antico’, ‘storia che avanza’ e ‘reazione pericolosa a momento di crisi’.
Il tutto per arrivare, per l’appunto, all’assunto secondo cui la globalizzazione è un fatto, è un processo automatico che non si può e non si deve arrestare, pena ‘passi indietro’ che poco o nulla hanno di moderno e che vengono rappresentati come pericolosi. Ma è soprattutto sotto questo aspetto che emerge una grande ed importante contraddizione in chi sostiene tale tesi: se fior di giornalisti, opinionisti, commentatori e quant’altro devono trovare una giustificazione tanto alla candidatura di Macron, quanto alle idee che esso rappresenta, allora forse questo processo di globalizzazione tanto automatico non è. Se così fosse, tra il giorno del primo turno e quello del ballottaggio, tutti coloro che hanno sostenuto il neo presidente francese potevano godersi il primo sole di primavera, stare a casa con la famiglia o guardare le partite del campionato; ed invece, i loro toni allarmistici, pari a quelli già avvertiti nel 2015 in occasione del referendum greco e, più di recente, nelle campagne elettorali per la Brexit e per le presidenziali USA, fanno intuire come in realtà la globalizzazione non è un dato di fatto ineluttabile. Per essere tale, a prescindere da chi vince un’elezione od un confronto, si deve considerare un determinato elemento storico come ‘punto di non ritorno’ e dato assodato in seno ad una società; la rincorsa alla demonizzazione della controparte, sembra dire il contrario: ad essere difesa, dai sostenitori francesi ed europei di Macron, non è il processo ‘dovuto’ ed ‘inarrestabile’ della storia, ma una banale ideologia al momento maggioritaria nel vecchio continente.
Le elezioni francesi, lasciano questo come eredità: la globalizzazione, la presunta modernità rappresentata dai presunti valori dell’Unione Europea e dell’economia di mercato, non sono affatto ‘punti di non ritorno’ o ‘processi irreversibili’, sono bensì prodotti di un’ideologia la quale, come tale, non sarà mai automatismo della storia ma soggetta essa stessa al giudizio della storia. Affermare il contrario è atto di disonestà intellettuale ed equivarrebbe, per chi si è speso a favore di Macron nell’ultimo mese, a contraddire gli stessi motivi per i quali si è fatto di tutto per sostenere le idee propagandate dal nuovo inquilino dell’Eliseo.
Poi, per carità, è legittimo per tutti difendere questa o quella ideologia, questa o quella visione del mondo; ma guai a presentare, come vien fatto da decenni e come in tanti si sono affannati a fare in questa campagna elettorale francese, una parte per il tutto: quell’Europa, ad esempio, fatta di ragazzi sganciati dalla propria realtà territoriale, in cui la possibilità di viaggiare senza limiti da una parte all’altra del continente rappresenta la massima conquista ed il principale diritto da difendere , non rappresenta tutta la realtà; esiste anche, all’interno della più giovane generazione studentesca, chi si oppone ad una siffatta visione del mondo e c’è chi si preoccupa più delle sorti malandate del proprio territorio piuttosto che della ricerca frenetica di bandi erasmus. La ‘modernità’ presentata in questo momento storico, altro non è che l’appropriazione indebita di un connotato positivo da parte di una determinata categoria di pensiero, che difende una semplice ideologia: moderno non è colui che realmente è diverso dal passato, moderno oggi è soltanto chi accetta o si adegua all’ideologia attualmente maggioritaria e, dunque, chi vi si oppone è, seguendo questo filone ideologico, ‘chiuso’ od ‘antico’.
C’è una Francia, tra gli operai e tra i più giovani delle periferie e della provincia, che ha detto no all’attuale mondo globalizzato: essa non ha sbarrato le strade alla storia, ha solo rivendicato la propria autonomia di pensiero ed ha espresso una considerazione negativa sull’ideologia dominante. Il liberalismo è ideologia, così come lo è il comunismo, così come lo sono tante altre forme diverse di visioni del mondo sviluppatesi negli ultimi due secoli e che, nella storia, hanno vissuto stagioni importanti: il ‘900, come ultimo atto, ha erroneamente presentato al nuovo millennio un mondo senza ideologie e con ‘valori universali’ che sono però corrispondenti solo con la visione uscita vincente dal crollo del muro di Berlino; nulla si è dimostrato più falso. Non esistono valori universali o comunque, essi non possono essere rappresentati da una sola linea di pensiero; le ideologie esistono ancora, quella a cui appartengono le leadership del vecchio continente è per adesso la principale, ma non l’unica: il 35% dei consensi non basta a far arrivare un candidato alla presidenza, ma basta a dover far ammettere finalmente che esiste ed è considerabile ‘di massa’ un’altra visione del mondo, non necessariamente ‘retrograda’ e non necessariamente ‘chiusa’. E’ un’altra visione, per l’appunto, che porta avanti tematiche ed argomentazioni alternative al pensiero dominante e questo basta per far crollare (con la stessa velocità con cui nel novembre 1989 è caduto il muro di Berlino) la malsana convinzione che ciò che oggi viene considerato ‘moderno’ sia irreversibile. Anche il liberalismo, anche la stessa UE verranno (e già, in molti paesi, lo sono) messi in discussione e non è detto, visti i disastri attuali socio – economici specie nel sud Europa, che non usciranno piuttosto malconci (alla lunga) dal giudizio della storia.
Fonte: http://www.lintellettualedissidente.it/esteri-3/nulla-e-irreversibile-la-francia-lo-dimostra/
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