Mariana Mazzucato e Michael Jacobs, “Rompere con l’ortodossia capitalistica”
di SINISTRA RETE (Alessandro Visalli)
In attesa di leggere e commentare il libro degli autori “Ripensare il capitalismo”, da poco uscito per Laterza in italiano, può essere interessante leggere un articolo uscito su Dissent .
L’autore di “Lo stato innovatore” ed il suo coautore spendono come d’uso la prima parte per illustrare i fallimenti del capitalismo contemporaneo e la sua elevata disfunzionalità. Nella seconda correttamente gli autori dichiarano che le carenze del capitalismo non sono affatto temporanee, ma strutturali.
Sulla base della loro impostazione chiaramente riformista (gli autori sono parte degli organi consultivi del Labour di Corbyn) le linee di ripensamento del capitalismo, per salvarlo in qualche modo, sono tre:
– Il mercato, e i suoi attori, non possono essere pensati come delle entità astratte. Una sorta di ambiente, uno spazio neutro che preesiste agli attori (imprese, investitori e famiglie) che vi “entrano” per condurre scambi e prodursi in comportamenti conformi. Si tratta di un punto molto profondo, tutte le politiche blairiane sono state vendute come “conformi al mercato”, nel tacito presupposto che questo fosse l’ambiente esterno alla cui normatività occorresse solo adeguarsi.
Come dicono gli autori “i mercati sono meglio compresi come risultati delle interazioni tra attori e istituzioni economiche” e queste senza distinguere se private o pubbliche: l’interazione determina lo spazio. In qualche modo questa mossa, la cui profondità sembra sfuggire anche agli autori, retrocede dietro la mossa fondativa della stessa razionalità occidentale, richiamando una circolarità che era stata sacrificata da Newton (compiendo una rivoluzione che Smith cerca di tradurre nell’economia politica) in favore del suo costrutto teorico-matematico dello “spazio assoluto”.
Ne avevamo ricostruito la logica nello studio sulla logica cartografica, come scrive Koyrè “nell’abolizione del mondo dei ‘pressappoco’, il mondo delle qualità e delle percezioni sensibili, il mondo della sopravvalutazione dell’esperienza quotidiana, e nella sostituzione ad esso dell’universo (archimedeo) in cui dominano la precisione, la misurazione esatta, la determinazione rigorosa”. Ci torniamo.
Per gli autori, restando nel campo disciplinare dell’economia, i risultati del mercato, al contrario, “dipendono dalla natura degli attori (ad esempio, dalle diverse strutture di governo societario delle imprese); dalle loro motivazioni; dalle leggi, i regolamenti ed i contesti culturali che li costringono; e dalla specificità delle operazioni che vi si svolgono”. Come affermano: “I mercati sono incorporati in queste strutture istituzionali più ampie e le relative condizioni sociali, legali e culturali.
Nel mondo moderno, come l’economista Karl Polanyi una volta ha sottolineato, il concetto di un ‘libero’ mercato è un costrutto della teoria economica, non un’osservazione empirica. Infatti, ha osservato che il mercato capitalistico nazionale è stato effettivamente costretto all’esistenza attraverso politiche pubbliche, non c’era nulla di ‘naturale’ o universale in esso”.
Per ritornare sulla suggestione della concettualizzazione dello spazio nella fisica, la cui influenza sull’intera cultura illuminista -in tutte le sue manifestazioni, inclusa la nascita dell’economia come sapere indipendente- è stata enorme, bisogna tenere presente che la concezione tradizionale (formalizzata in Aristotele) vedeva lo spazio come un ente legato alle qualità dei corpi osservabili (e quindi ai “Luoghi”, che ai corpi sono legati) e in certo modo inesistente in-sé (è una concezione che egemonizza la fisica medioevale).
Da questa posizione si è arrivati nel corso del cinquecento e seicento, attraverso un lungo processo di astrazione e razionalizzazione, alle interpretazioni dello Spazio come contenitore uguale in ogni direzione e dotato di esistenza in-sé, tale da poter esistere, per assurdo, anche se non vi fosse contenuto nulla. Un sistema perciò geometricamente trascrivibile in un sistema di coordinate cartesiane che lo rappresentino, servendosi del linguaggio formalizzato della matematica.
La rivoluzione compiuta nel seicento consiste, in effetti, nella possibilità (che aveva visto già Galilei) di studiare le “leggi” di un fenomeno anche senza darne una spiegazione. È sufficiente assumere che le forze che vai a studiare agiscano secondo leggi matematiche, per poi cercare queste leggi ed applicarle alle forze reali.
Newton compirà proprio questa operazione per un principio cardine della nuova fisica, la gravità. Secondo le sue stesse parole: “In generale assumo qui la parola attrazione per significare una qualsiasi tendenza dei corpi ad accostarsi l’uno all’altro; ….. in quanto in questo trattato esamino, come ho spiegato nelle definizioni, non le specie delle forze e le qualità fisiche, ma le quantità e le proporzioni matematiche. In matematica vanno investigati quelle quantità e quei rapporti delle forze che discendono dalle qualsiasi condizioni poste” [Jsaac Newton, Philosophiae naturalis principia mathematica, 1729, p.339].
La “filosofia naturale” di Newton, in altre parole, non esclude affatto enti inspiegati, e nemmeno inspiegabili come il suo “Spazio Assoluto”, ma rinuncia solo alla discussione sulla loro natura. “Le tratta – essendo una filosofia naturale matematica – come cause matematiche o forze, cioè come concetti o relazioni matematiche” [Alexandre Koyrè, Dal mondo chiuso all’universo infinito, pag. 163]. Si può, infatti, leggere nei Principi. . . “dò qui uno stesso significato alle attrazioni e alle impulsioni accelleratrici e motrici. E adopero indifferentemente i termini attrazione, impulso o tendenza qualsiasi verso un centro, poiché considero tali forze non fisicamente ma matematicamente”.
La cosa principale alla quale pensano gli autori è comunque la modifica negli assetti proprietari e nella governance delle imprese che si è affermata a partire dagli anni ottanta (in particolare avviandosi negli USA), ovvero la dottrina della massimizzazione del valore per i soli azionisti che è strettamente connessa con la finanziarizzazione delle imprese e le modifiche nella remunerazione dei dirigenti apicali. L’idea che questa dottrina (rivolta a segnalare come pertinente solo il valore in borsa dei titoli, cui viene connessa la remunerazione diretta ed indiretta dei Consigli di Amministrazione) portasse un miglioramento delle performance economiche è contraddetta dall’esperienza.
In realtà le imprese sono quasi sempre ed ovunque state organizzate come istituzioni responsabili verso una molto più ampia serie di soggetti interessati, e quindi sono orientate alla produzione a lungo termine e alla stabile e sostenibile redditività. Quando un’impresa è informata da questi principi e regole ha un comportamento diverso, investono di più in innovazione, i dirigenti sono pagati in modo meno ineguale, e le azioni sono detenute più a lungo. Non è difficile vedere il nesso tra questi diversi comportamenti. La cosa che gli autori sottolineano è che nel lungo periodo sviluppano una crescita più forte.
Questa considerazione illustra l’importanza per la politica pubblica di regolazione, di prestare attenzione al diritto societario, alla regolazione della proprietà delle aziende, alle strutture di incentivi.
Il secondo campo di attenzione porta a riconoscere che gli investimenti nell’innovazione tecnologica e organizzativa, sia pubblici sia privati, sono in realtà la forza trainante della crescita economica e dello sviluppo. Ma per investire bisogna avere pazienza, non aspettarsi ritorni a brevissimo termine; nessun investimento serio ha ritorni nel trimestre successivo.
È chiaro che questa osservazione porta l’attenzione sul ruolo delle banche pubbliche nel guidare la finanza verso obiettivi di lungo periodo, evitando anche in questo campo decisivo atteggiamenti rivolti solo a prendere i soldi e scappare. Tanta parte della crisi del 2008 è stata determinata da questo atteggiamento predatorio. Investimenti pubblici strategici, orientati alle mission, possono fare molto di più che “livellare il campo di gioco”, possono “inclinarlo” verso obiettivi di interesse pubblico (come la protezione dell’ambiente).
– In terzo luogo, bisogna “riconoscere che la creazione di valore economico è un processo collettivo”, nessuno crea ricchezza per conto proprio. In pratica nessuno opera senza i servizi pubblici fondamentali che sono forniti dallo Stato come le scuole, i servizi sociali e sanitari, abitativi, la sicurezza, i sistemi di trasporto, l’energia, l’acqua ed i rifiuti. Si potrebbe aggiungere la fiducia, la cooperazione, la condivisione di culture, valori, significati. Tutti questi servizi, prodotti dallo Stato o creati nella società, grazie alla sua stessa esistenza, sono tutti cruciali per consentire la produttività delle imprese private.
In altre parole, “il settore privato non ‘crea la ricchezza’, mentre i servizi pubblici finanziati dai contribuenti semplicemente la ‘consumano”. E lo Stato non si limita a ‘regolare’ l’attività privata, “piuttosto la produzione economica è co-prodotta dall’interazione degli attori pubblici e privati ed entrambi sono coorinariamente modellati dalle più ampie condizioni sociali ed ambientali.
Per avere un’economia di successo, quindi, ci vuole uno Stato attivamente impegnato nello sviluppo. E anche la tassazione, se orientata da uno Stato rivolto all’innovazione ed alla creazione delle precondizioni della creazione di ricchezza (come una società ben funzionante e un’istruzione diffusa e di qualità), non è un peso per lo sviluppo. Può essere il contrario.
Ora, per gli autori, niente di meno della “natura collettiva della produzione capitalistica” (un prelievo, in certo senso, da una ‘cassa comune’ costituita da condizioni materiali sociali, infrastrutture, general intellect) rende “la stessa distribuzione del reddito e della ricchezza” variabile importante e pertinente per la crescita. In altre parole, se le condizioni per ottenere una crescita del valore non ci sono, non possono essere suscitate dalla singola impresa.
Quel che si ottiene al più è una “estrazione di affitti”, non creazione di nuovo valore. Questo atteggiamento parassitario della cultura del nuovo capitalismo, i cui effetti tragici sono ben illustrati nella prima parte dell’articolo, si manifesta nell’incapacità di rinnovare i beni pubblici che utilizza. Appunto come un parassita deve trovare un organismo vivo per poterne trarre le risorse, non è in grado esso stesso di produrre la vita.
Il mercato funzionante è quindi il risultato di questo vivente sistema totale, non uno spazio astratto e vuoto.
Dunque ha ragione anche Piketty nel sottolineare come la distribuzione delle risorse sia una variabile fondamentale anche ai fini della crescita.
Il meccanismo che al termine di un articolo ricco di spunti gli autori evidenziano è che l’aumento di salari costringe i datori di lavoro ad investire per migliorare la produttività. C’è dunque una circolarità positiva, che porta verso un’economia ad alti salari e con mercati interni forti; tutto il contrario di quella che, alla ricerca di profitti crescenti e presi da una forte miopia, l’attuale economia ha prodotto. Economia che come effetto di composizione produce un sistema mondo altamente squilibrato, inefficiente e fragile. Nel quale troppi paesi, dal debole mercato interno perché prigionieri della forza politica delle industrie di esportazione e della finanza (che è una di esse), spingono per la cattura con qualsiasi mezzo della domanda di altri.
Avvieremo presto una serie di letture della letteratura strategica per esplorare la connessione tra questa economia esteroflessa e i complessi scenari di rischio che si aprono nel mondo, a causa delle fragilità interconnesse e dell’equilibrio del terrore finanziario che Keynes intendeva evitare con il suo progetto a Bretton Woods (purtroppo rigettato dall’egemone statunitense che preferì uno schema meno efficace e di breve durata, ma che fino a che ha avuto gambe ha comunque protetto il mondo).
La conclusione degli autori è più limitata: la politica pubblica ha un ruolo importante nella regolazione dei mercati del lavoro e nell’affermazione di cruciali sistemi fiscali progressivi. Il fallimento di questi anni, con l’ossessione per indicatori rozzi come la crescita aggregata del PIL, che nascondono più di quel che mostrano, non è inevitabile. Ma è l’effetto di una “ortodossia economica obsoleta”, superando la quale si potrà accedere ad “un sistema economico più innovativo, sostenibile e inclusivo”.
Ma per averlo sarà necessario produrre dei “cambiamenti fondamentali nella comprensione di come funziona il capitalismo, e del modo in cui le politiche pubbliche possono contribuire a creare un futuro economico diverso”.
Un cambiamento nella comprensione molto profondo.
Commenti recenti