Dialettica e speranza. Sulla poesia di Franco Fortini
di LE PAROLE E LE COSE (Francesco Diaco)
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Premessa politica introduttiva.
Franco Fortini fu avversario dei partiti popolari ma, nonostante tutto, non pochi dei suoi insegnamenti possono esserci oggi ancora molto utili.
Il seguente articolo mette in evidenza soprattutto la categoria di tempo hegeliana così come veniva interpretata da Ernst Bloch, la quale struttura molta della produzione poetica di Fortini. Nella fattispecie, la poesia diviene scrigno di elementi dirompenti contro lo status quo, disegno di progetti emancipatori futuri ma già inscritti nell’aura del presente.
Questa concezione del conflitto è estremamente congeniale anche al sovranismo, il quale infatti diffida della ‘speranza’ come attesa illusoria di un’epoca ancora da venire, e che vuole sostituire a questa l’azione concreta costruita nel momento attuale.
Era questo tipo di utopia che nutriva lo stesso Fortini.
Ovvero, che il desiderio di cambiamento, incarnandosi nel hinc et nunc (il qui e l’ora) della scrittura letteraria, diveniva immediatamente rivoluzionario in contrapposizione ad un soggetto passivo che tende invece a delegare i suoi progetti ad un tempo ideale proiettato nel futuro.
Se ci pensiamo, la Costituzione è proprio questo: la realizzazione storica di un’utopia di emancipazione che tuttavia è stata disapplicata ma che fa parte tutt’ora del nostro presente.
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[Dialettica e speranza di Francesco Diaco è la prima analisi sistematica della poesia di Fortini, dalla raccolta d’esordio, Foglio di via, all’ultimo libro, Composita solvantur. È uscito in queste settimane da Quodlibet. Ne presentiamo alcune pagine].
Quando ci si avvicina a Fortini per la prima volta, accade spesso di far riferimento a un ritratto che (magari per necessità didattiche) risulta monolitico e semplificato. Fortini, allora, appare come un amante del Super-Ego e della tradizione, come un personaggio «a dominanti narcisistiche, sadoanali, represse e repressive, patriarcali e piccolo-borghesi»[1].
Se si approfondisce la conoscenza del corpus fortiniano, però, ci si rende conto che nelle sue pagine è sempre possibile riscontrare la presenza di due poli, di due istanze opposte eppure intrecciate. In altre parole, l’immagine stilizzata che si era intravista prima della lettura, pur essendo sostanzialmente corretta, rischia di smorzare la forza che scaturisce dall’incontro/scontro di elementi antinomici ma reciprocamente necessari […].
La concezione fortiniana del tempo[2] risulta estremamente complessa proprio a causa della compresenza di due côtés, frutto di una formazione poliedrica, nutrita da letture numerose e molto diverse fra loro. La prima componente è costituita dal momento morale e (per ricollegarsi al titolo di questo paragrafo) dall’impazienza. Nonostante quest’area sia, a sua volta, molto sfrangiata al proprio interno, è possibile ricondurre i vari spunti, eterogenei per origine e natura, a due macro-famiglie: la tragedia e l’utopia. Secondo Lucien Goldmann – che influenzò notevolmente Fortini a questo proposito – la mens tragica è radicalmente antistorica, in quanto contempla solo due dimensioni temporali: il presente e l’eternità[3].
Similmente, György Lukács sostiene che, nella tragedia, l’essenza rifugge la caoticità del mondo, ritirandosi piuttosto in una sfera astratta e immobile, la cui rigida purezza brilla accanto a un abisso incommensurabile[4]. Tale prospettiva è costitutivamente individualistica: l’eroe tragico sconta una tremenda solitudine, dato che la sua «anima, autocostituitasi nel segno del destino, può avere fratelli celesti, ma nessun compagno di viaggio»[5]. La totalità intensiva della vita, la pienezza fulminea, trovano il proprio luogo in un dovere ferreo e disperato, in una prescrizione che non ammette deroghe.
«La coscienza dell’uomo tragico non conosce né gradi né passaggi progressivi tra il nulla ed il tutto»[6]: di conseguenza, ogni compromesso è bandito in nome «di una verità e di una giustizia assolute», che non hanno nulla a che fare con quelle «relative dell’esistenza umana»[7]. Secondo il principio kantiano dell’etica dell’intenzione, l’uomo è tenuto a seguire le leggi astraendo dalle categorie spazio‑temporali, cioè dalla contingenza, giudicata casuale e di secondaria importanza[8].
La logica della tragedia non prevede un’evoluzione, ma solo delle prove in cui confermare o tradire la propria fedeltà a valori immutabili[9]; l’imperativo categorico invita ad agire «come se l’atto che tu stai ora per compiere sia unico, senza alcun legame con il tempo reale […] in cui ogni istante è un trait‑d’union tra il passato e l’avvenire»[10]. Ci troviamo, insomma, nell’ambito del volontarismo: Fortini stesso dichiara di avanzare «una proposta assolutamente romantica […] di “dover essere”»[11], la cui ambizione è quella, tipica dei «santi», di «vivere coerentemente»[12], cioè di testimoniare la congruenza tra pensiero e azione. È evidente la matrice prettamente protestante ed esistenzialista di questa sensibilità fortiniana: il soggetto, scagliato nel mondo, avverte che «la scelta è rischio e scommessa.
Quando è compiuta è irrimediabile»[13]. La libertà umana, infatti si fonda su una serie di decisioni, tanto esaltanti quanto angosciose. Determinante, in questo senso, è la lettura di Kierkegaard[14]. Il filosofo danese, infatti, elogia lo stadio religioso proprio come superamento dello stallo etico. Se la tragedia si regge sulla contraddizione come scacco, Kierkegaard, al contrario, utilizza la «disperazione in funzione ironica», nel senso che è la stessa assenza di una soluzione a «confermare il salto nella fede»[15]. Allo stesso modo, il comunismo fortiniano assume talvolta le sembianze di un pari pascaliano[16], di una possibilità non dimostrabile che esige una conversione totale, una metanoia irreversibile.
Questo primato accordato a una trascendenza tanto cogente quanto inverificabile (credo ut intelligam) ci spinge inevitabilmente nel dominio dell’utopia[17].
L’immagine di un’alterità totale, di un avvenire completamente trasformato, funge da impietoso metro di paragone per giudicare l’oggi. Secondo Bloch, le categorie di futuro e Novum impediscono «che ci si accontenti del cattivo presente»[18], che si ceda all’accettazione passiva del mondo della ripetizione e della fatalità[19]. La riscoperta dell’utopismo ottocentesco (Fourier, Saint‑Simon, il Marx dei Manoscritti) ha, quindi, come scopo la valorizzazione dell’insaziabile “principio speranza” insito nel socialismo[20]. Il sogno, il desiderium, il «non-ancora-divenuto»[21] indicano che nel mondo è nascosto un enorme giacimento di potenzialità in attesa di realizzarsi: «ciò verso cui gli uomini tendono in maniera radicale non è stato ancora conseguito da nessuna parte ma nemmeno definitivamente seppellito»[22]. Mentre la filosofia occidentale finisce spesso per bloccarsi nell’anamnesi, cioè nell’apologia dell’esistente, il finalismo escatologico dichiara che la patria non è ancora stata raggiunta e che «l’essenza del mondo è essa stessa al fronte»[23].
All’altro estremo abbiamo il côté propriamente storico-politico di Fortini: «Se vogliamo trovare una critica delle posizioni tragiche che le comprenda veramente […] e le integri in un insieme superiore, bisogna che ci rivolgiamo ai lavori dei grandi pensatori dialettici, Hegel, Marx e Lukács»[24]. La compresenza orizzontale dell’et‑et spezza l’atemporalità verticale dell’aut‑aut: il vero marxista è sempre consapevole «che tutto porta in sé il suo contrario»[25]. Come insegna Goethe, è del tutto assurdo postulare un’inconciliabilità metafisica, «una opposizione non ricomponibile»[26], almeno per chi conosca la «categoria della mediazione; che non è quella del compromesso»[27]. La dialettica hegeliana, allora, diventa sinonimo della capacità di gestire la contraddizione come vettore di metamorfosi, come spinta che innesca un movimento. Il Reale, infatti, «non è né Identità […] né Negatività», bensì «Totalità (la quale è Divenire, Werden)»[28]. Ciò significa che la categoria fondamentale sarà quella dell’Aufhebung, cioè la «soppressione‑dialettica» dell’«Immediato»[29].
In quest’ottica, la datità della condizione umana è frutto di «volgari potenze, di violenze che potremmo arrestare»[30]; i veri «nomi del destino» sono «l’economia e la politica»[31]. Si spalanca, così, uno spazio enorme, in cui dispiegare l’immane potenza del negativo, cioè dell’azione, della lotta e del lavoro[32]. L’uomo esiste solo in quanto trasforma il proprio mondo naturale e sociale, parallelamente mutando se stesso: questa è la lezione congiunta della Fenomenologia[33] e del Faust. Contro la «tentazione di posture nobilissime», Fortini invita alla «formulazione di giudizi politici ossia di proposte per scelte anche quotidiane; dunque ironia, nessuna fretta, pazienza»[34].
Inoltre, il moto dialettico può essere associato alla nozione lukácsiana di prospettiva, se lo si intende come tensione tra un donde e un dove, come unità di un cambiamento lento e graduale, dotato di un senso e una direzione. Occorre, però, rammentare la dose di dolore e fatica che questo tipo di saggezza riesce ad assorbire: «la storia non adempie mai i desideri» e «“non questo volevo” è la parola che accompagna ogni vittoria»[35]. Le scelte del singolo, poi, vengono giudicate in base a una weberiana etica della responsabilità, valutando la posizione occupata nel campo di forze esistente.
In altre parole, si ricorre a un criterio antivirtuista e utilitarista; a contare non è il proposito individuale, ma gli effetti, positivi o negativi, che vengono a prodursi in un contesto dato: «il significato obiettivo di ogni azione […] sfugge al suo autore e dipende da fattori che gli sono […] esterni»[36]. È chiaro che siamo di fronte a «un sostanziale rifiuto dell’eroismo […] e quindi della tragicità»: nell’universo dell’epica, o semmai del Trauerspiel, «il limite del cedimento non è stabilito una volta per tutte»[37] e sono plausibili palinodie e ritrattazioni. «Il “fai quel che devi, avvenga quel che può”» funziona, al massimo, come autoregolamentazione personale ma, a livello pubblico, «dev’essere sostituito dal “comunista”: “fai quel che puoi perché avvenga quel che è bene che avvenga”»[38].
Il realismo politico, il calcolo dell’efficacia e delle probabilità di successo, la flessibilità negli accordi e nelle alleanze stemperano «l’incanto della scelta morale»[39]. Visto che «indignarsi è consolarsi»[40], occorre sempre partire da una precisa valutazione delle circostanze e fondare la speranza su un’analisi razionale della contingenza (intelligo ut credam). Insomma, «il tempo e il luogo sono questi, sono ora […], e il mondo non ti darà nulla se non gli dai qualcosa (Goethe)»[41]. Detto diversamente, il marxismo è una fede in un futuro «che noi dobbiamo costruire con la nostra attività […]; la trascendenza […] non è più soprannaturale né sopra-storica, ma sopra-individuale, nulla di più ma anche nulla di meno»[42]. Il militante comunista, perciò, non è solo di fronte al «silenzio eterno degli spazi infiniti»[43] ma è inserito in un gruppo e in un cerimoniale, ha dei compagni con cui collabora e dialoga.
[…]
La forza e l’originalità del pensiero fortiniano stanno proprio nella compresenza di tali spinte antitetiche e nella loro continua correzione reciproca[44]. Ognuno dei due atteggiamenti costituisce un modo fondamentale di opposizione allo stato di cose esistente; ognuno di essi «implica una specifica concezione dei rapporti interumani e del tempo»[45] che è insieme fonte di errore e origine delle rivendicazioni più alte[46]. L’utopia, per esempio, può degenerare in uno stadio patologico, l’«evasionismo», che comporta «l’eclissi della prassi», la sottomissione della ragione ai sogni, o addirittura «la nostalgia per il paradiso perduto» e la regressione al «grembo materno»[47].
Come ammesso da Bloch, «la speranza che imbroglia è uno dei maggiori […] debilitatori del genere umano, quella […] autentica il suo più serio benefattore»[48]. Il pragmatismo della tattica, allora, ancorerà gli «appelli metafisici»[49] alla concretezza del qui-e-ora; viceversa, l’estremismo della strategia vieterà di compromettersi troppo con il potere, dissuaderà da ogni trasformismo cinico e opportunista[50].
Si potrebbe dire che Fortini sia un «quasi unico esempio di artista in cui si uniscano la dialettica del negativo secondo Adorno, quella della profezia secondo Benjamin e quella del concreto presente che porta il nome di Brecht»[51]. Fortini è insieme il poeta della vecchiaia e della giovinezza, della mediazione e dell’immediatezza[52], dell’avanguardia e dell’umanesimo socialista. Con Brecht e Mao, mira a «un modo di essere dove […] le distinzioni su cui si è formato il nostro Occidente vengano davvero soppresse, non nell’indistinto vitale o mistico, […] ma rese fluide in un movimento ininterrotto, in una pulsazione, in una metrica continua di pazienza e di impazienza»[53].
È la nostra stessa condizione, infatti, a essere ambivalente, «perché veramente viviamo nel tempo e fuori di esso, nell’ordine della realtà e in quello dei valori, nella dialettica a due e in quella a tre momenti»[54]. Piuttosto che obliterare queste contraddizioni, occorre saperle articolare con intelligenza, a partire dall’«incessante tensione e implicazione reciproca» tra «il momento politico e quello morale»[55], dalla loro «mobile colluttazione»[56] e dal «mai concludibile discorso»[57] che ne scaturisce. Da una parte, «la conversione dell’aroma morale in fetore insopportabile è certa se non rischia la prova […] dei fatti»[58]; dall’altra, «contro il realista hanno ragione la fede, la speranza e l’amore»[59].
Se il rapporto fra la verifica «“caso per caso” […] e la opportunità […] di ideali regolativi non dovrebbe permettere a nessuno eccessive facilità», è proprio «l’unione di una scelta ideologica-pratica che si voglia […] storicamente legittima e di una scelta morale, che si voglia intransigente e durevole», che «dà garanzia, non già di successo […] ma di autenticità»[60]. La soluzione prospettata coincide, dunque, col paradosso di un’ascesi che è, insieme, un impegno nell’oggi, «accompagnato dalla consapevolezza della sua parzialità»[61]. La salvezza si ottiene fide et operibus; «la formula cristiana “nel mondo ma non del mondo”»[62] indica proprio l’ideale di uno status intermedio «fra partecipazione e secessione»[63], l’auspicio di una «contestazione innervata di proposta»[64].
Note
[1] F. Fortini, Disobbedienze I. Gli anni dei movimenti. Scritti sul manifesto 1972‑1985, manifestolibri, Roma 1997, p. 91 (infra DIS-I).
[2] Cfr. F. Moliterni, Il vero che è passato. Poesia e tempo in Franco Fortini, «Per una Critica futura. Quaderni di critica letteraria», a cura di A. Inglese, 4, 2007, pp. 59-69.
[3] Cfr. L. Goldmann, Il dio nascosto. Studio sulla visione tragica nei «Pensieri» di Pascal e nel teatro di Racine, Laterza, Bari 1971, pp. 54 e 421. Cfr. anche F. Fortini, Lettere a Perlini, Archivio Franco Fortini, scatola XXVIII, cart. 32, c. 1, p. 4: «Unsere Heimat ist die Ewigkeit».
[4] Cfr. G. Lukács, Teoria del romanzo, SE, Milano 1999, p. 35.
[5] Id., Teoria del romanzo, cit., p. 38.
[6] Goldmann, Il dio nascosto, cit., p. 73.
[7] Ivi, p. 59.
[8] G. Lukács, L’anima e le forme, SE, Milano 2002, p. 258.
[9] In qualità di critico, Fortini sostiene che «in Tasso non c’è dialettica, non c’è soluzione in avanti. È una dinamica bloccata […]. Qui […] sta anche tutta la profondissima differenza […] fra Tasso e Shakespeare, genio dialettico per eccellenza» (F. Fortini, Dialoghi col Tasso, a cura di P.V. Mengaldo e D. Santarone, Bollati Boringhieri, Torino 1999, p. 149). Similmente, egli nota nei Promessi sposi un «andirivieni incessante, fra due verità simultanee e insuperabili. Perché Manzoni rifiuta la dialettica» (F. Fortini, Saggi ed epigrammi, a cura di L. Lenzini, Mondadori, Milano 2003, p. 1478; infra SE).
[10] Goldmann, Il dio nascosto, cit., p. 401.
[11] F. Fortini, L’ospite ingrato. Primo e secondo, Marietti, Casale Monferrato 1985, ora in SE 868 (infra OI).
[12] Ivi, p. 952.
[13] F. Fortini, Extrema ratio. Note per un buon uso delle rovine, Garzanti, Milano 1990, p. 95 (infra ER).
[14] Gli altri testi da cui Fortini trae ispirazione sono legati alla teologia e alla fede valdese, a una letteratura latamente esistenzialista e alle avanguardie storiche (in particolare all’esperienza italiana della «Voce»). I nomi potrebbero essere quelli di Kafka, Dostoevskij, Michelstaedter, Karl Barth, Jahier, Boine, Slataper, Papini, Rebora.
[15] S. Givone, Introduzione, in P. Szondi, Saggio sul tragico, Einaudi, Torino 1996, p. XIII.
[16] F. Fortini, Disobbedienze II. Gli anni della sconfitta. Scritti sul manifesto 1985‑1994, manifestolibri, Roma 1998, p. 169 (infra DIS‑II): «il conflitto è un “male” per un “bene” […] non garantito».
[17] Per quanto riguarda la bibliografia su utopia e socialismo, si rimanda almeno a K. Mannheim, Ideologia e utopia, Il mulino, Bologna 1957, Z. Bauman, Socialism. The Active Utopia, Allen & Unwin, London 1976, G. Crinella, Saggi sull’utopia. Individuo e progetto collettivo, Quattro venti, Urbino 1988, F. Jameson, Il desiderio chiamato Utopia, Feltrinelli, Milano 2007.
[18] E. Bloch, Il principio speranza, Garzanti, Milano 1994, vol. I, p. 5.
[19] Ivi, p. 9.
[20] Per Fortini, «la liberazione totale dell’uomo, la società senza classe, la morte dello Stato» sono «veri fini, non miti né leggende» (F. Fortini, Capoversi su Kafka, «Il Politecnico», 37, ottobre 1947, p. 18).
[21] Bloch, Il principio speranza, cit., p. 8.
[22] Ivi, p. 10.
[23] Ivi, p. 23.
[24] Goldmann, Il dio nascosto, cit., p. 44.
[25] OI 1065.
[26] E. Grumach, Unterhaltungen mit Goethe, in Szondi, Saggio sul tragico, cit., p. 33.
[27] DIS-I 181. È degno di nota che Giacomo Noventa, altro maestro di mediazione per Fortini, scrivesse: «Tasso mato, e Goethe grando | Coi più grandi de ’sto mondo, | Secondo i giorni a mi me par | Più bravo Goethe. || Secondo i giorni solamente» (G. Noventa, Versi e poesie, Mondadori, Milano 1975, p. 112).
[28] A. Kojève, La dialettica e l’idea della morte in Hegel, Einaudi, Torino 1948, p. 74. È interessante notare che, per Jameson, «sarà proprio il marchio della totalità a mancare per definizione nelle forme molteplici investite dalla pulsione utopica di Bloch» (Jameson, Il desiderio chiamato Utopia, cit., p. 23).
[29] Kojève, La dialettica, cit., p. 82.
[30] F. Fortini, I cani del Sinai, Einaudi, Torino 1979, ora in SE 452.
[31] Id., Profezie e realtà del nostro secolo. Testi e documenti per la storia di domani, Laterza, Bari 1965, p. VII.
[32] Kojève, La dialettica, cit., p. 109.
[33] Ivi, p. 98.
[34] DIS-I 186.
[35] OI 983.
[36] Goldmann, Il dio nascosto, cit., p. 450.
[37] F. Fortini, Questioni di frontiera. Scritti di politica e di letteratura 1965‑1977, Einaudi, Torino 1977, p. 32.
[38] DIS-I 216.
[39] Ibid.
[40] F. Fortini, Non solo oggi. Cinquantanove voci, a cura di P. Jachia, Editori Riuniti, Roma 1991, p. 105.
[41] Id., Un giorno o l’altro, a cura di M. Marrucci e V. Tinacci, Quodlibet, Macerata 2006, p. 405.
[42] Goldmann, Il dio nascosto, cit., p. 132.
[43] Ivi, p. 100.
[44] È illuminante, in tal senso, la presenza di due epigrafi all’inizio di Dieci inverni: «Qui ne la ressent pas profondément, cette haine du présent, n’a pas vraiment l’amour de l’avenir (Evariste Galois). || La pensée de l’avenir est une tentation fine et dangereuse de l’ennemy, contraire à l’Evangile, et capable de tout perdre… (Martin De Barcos)» (F. Fortini, Dieci inverni 1947‑1957. Contributi ad un discorso socialista, Feltrinelli, Milano 1957, p. 8). Va però precisato, con Adorno, che «la mediazione nelle coppie di concetti fra loro opposti non si attua nella forma della famosa aurea mediocritas […]. Se questa mediazione è possibile, lo è solo passando attraverso gli estremi» (Th.W. Adorno, Terminologia filosofica, Einaudi, Torino 2007, p. 240).
[45] Fortini, Questioni di frontiera, cit., p. 31.
[46] Cfr. ER 60.
[47] P. Ricœur, Tradizione o alternativa. Tre saggi su ideologia e utopia, Morcelliana, Brescia 1980, p. 56. Analoghe sono le seguenti considerazioni che Fortini svolge su Éluard: «il rivoluzionario della Resistenza vuole in verità solo la restaurazione, in un perpetuo avvenire, della propria e altrui giovinezza, della freschezza […] che crede di aver avuto e di poter riottenere per tutti […]. Il conflitto s’inflette: diventa conflitto fra il tempo amoroso-poetico della […] coppia e quello degli “altri”. Quindi eterno. Diventa circolare, si fa ritorno perpetuo» (F. Fortini, Nota per la ristampa del 1966, in P. Éluard, Poesie. Con l’aggiunta di alcuni scritti di poetica, Mondadori, Milano 1970, p. 36).
[48] Bloch, Il principio speranza, cit., p. 8. Sull’utopia come compensazione, cfr. R. Levitas, The Concept of Utopia, Peter Lang, Bern 2010, p. 208 («Compensation is a feature of abstract, ‘bad’ utopia for Bloch, of all utopia for Marx and Engels and of ideology for Mannheim»); sull’utopia come invito al cambiamento, cfr. Bauman, The Active Utopia, cit., pp. 10-16.
[49] P.V. Mengaldo, Dialettica e allegoria nella poesia di Fortini, «L’Indice dei libri del mese», 2, marzo 1985, p. 6.
[50] Cfr. OI 875: «Chi […] abbia […] sentito […] l’inaccettabilità del “mondo” ossia di quella parte di se stesso che insegue apparenze e desideri, […] costui dovrà essere sempre diviso fra la volontà di modificarlo, quel mondo, con l’azione […] e il rifiuto superbo e deluso, eroico o compensatorio […]. Il proletariato sarebbe così il No a questo “mondo” […]; e, nello stesso tempo, l’unica volontà capace di trasformarlo. Mentre l’arma più potente […] degli avversari di classe consiste nel concedergli trasformazioni parziali che ne attenuano il rifiuto totale. Ecco perché l’utopia, l’oltranza […] sono ineliminabili: perché, come dice Brecht, “i piccoli mutamenti” sono nemici dei “grandi mutamenti”». Solo per certi versi paragonabile alla dialettica tattica-strategia è la distinzione/collaborazione tra Fancy e Imagination utopiche teorizzata da Jameson (cfr. Jameson, Il desiderio chiamato Utopia, cit., pp. 17-26 e 285).
[51] DIS-I 215.
[52] Cfr. F. Fortini, Verifica dei poteri. Scritti di critica e di istituzioni letterarie, Einaudi, Torino 1989, ora in SE 128: «l’immediatezza, si sa, è non solo ciò che deve essere oltrepassato, ma ciò senza di cui non ci sarebbe nulla da oltrepassare».
[53] DIS-I 112.
[54] Ivi, p. 194.
[55] ER 79.
[56] DIS-II 131. Ancora una volta si tiene presente il modello brechtiano: «Brecht visse l’una e l’altra funzione: l’estensore di verità da far passare […], cioè lo scrivano cui i Ciompi in tumulto impongono di mettere in carta una loro verità; e la missione di chi dice a se stesso: “Sappi, lo fai per te, e fallo in modo esemplare”» (Fortini, Verifica dei poteri, cit., p. 144).
[57] DIS-I 90.
[58] DIS-II 55.
[59] Ivi, p. 131.
[60] Ivi, p. 953.
[61] ER 97.
[62] OI 946.
[63] DIS-II 21.
[64] D. Dalmas, La protesta di Fortini, Stylos, Aosta 2006, p. 127.
Fonte:http://www.leparoleelecose.it/?p=27807
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