E vota in Francia e vota in Italia. Nessuna risposta (e nemmeno le domande).
di ORIZZONTE 48
1. Oggi si vota in in 1004 città per un totale di 9.172.026 elettori (teorici). Un gran bel sondaggione pubblico un po’ meno orientabile di quelli “privati”. Ovviamente, nei comuni più che mai, l’esito del voto non potrà mai cambiare il quadro del patto di stabilità interno e le politiche che i sindaci e le giunte sono obbligati ad attuare (qui, pp. 9-10).
Ed oggi si vota anche in Francia per le legislative, dove si prevede un trionfo di Macron e una già anticipata sonora sconfitta del Front National, indebolito dalle divisioni interne.
Ma anche in Francia, poiché la vittoria di Macron è una vittoria della predeterminazione €uropea dell’intero indirizzo politico, l’esito del voto non farà alcuna differenza sulla militaresca attuazione del “Piano di Macron”.
Le forze sociali che, contro i loro stessi interessi, si affidano a Macron perché gli pare qualcosa di nuovo, sono le più malleabili da parte dei media perché prive di qualunque coscienza sociale (grazie all’incessante lavorio dei media, in un giro euristico che, in €uropa, pare impossibile interrompere…per ora).
2. Abbiamo più volte detto che gli USA costituiscono il paese che anticipa al suo interno le tendenze politiche che, successivamente, si estenderanno al resto dell’Occidente (cfr; per una formulazione estesa di questo fenomeno di induzione e retroazione tra USA ed €uropa, e per le sue implicazioni, qui, par.V-VIII).
Ripetiamo, per l’ennesima volta: una globalizzazione istituzionale non è altro che una gigantesca Ghost Institution, cioè una costituzione materiale transnazionale che svuota quelle formali, sovrane, dei singoli Stati, senza che i rispettivi popoli sovrani se ne accorgano.
Di fatto, le regole del diritto internazionale privatizzato impongono, a nostra insaputa, una democrazia idraulica governata dall’ordine internazionale dei mercati, e dunque, il voto o va come “deve” andare o questo “ordine dei mercati” scatena uno “stato di eccezione” tale da ripristinare il proprio stretto controllo istituzionale.
3. Per l’Italia, in particolare, c’è un’idea ossessiva di base che proviene dagli ambienti USA “che contano”, e che viene accolta acriticamente e fanaticamente dai vari tecnocrati €uropeisti, tedeschi, francesi o, in modo ancor più rigido, italiani:
“l’Italia continua ad essere vista come un paese socialistoide-anarcoide gravato da un marchio irreversibile di pelandroneria dei suoi lavoratori e di “levantinismo”, corrotto e sprecone, della sua classe politica, (al più macchiavellica, volendo l’analista USA nobilitare il luogocomune utilizzato); un marchio appena mitigato dal riconoscimento della creatività dei suoi imprenditori, accettabile però se predicata come settoriale e, possibilmente, delocalizzatrice da un lato, e aperta agli IDE, cioè all’acquisizione estera, dall’altro.
Alan Friedman e Luttwak, probabilmente i più ascoltati commentatori ufficiali delle cose italiane, esprimono questa visione, immutata da decenni, avendo spazi mediatico-televisivi praticamente illimitati e, specialmente, incontrastati (più il primo dei due, in verità), allo scopo di radicare il frame dell’autorazzismo (nei nostri pedissequi commentatori autoctoni): questa etichettatura ossessiva agisce efficacemente come un “mantra”, accuratamente svincolato dai dati economici relativi persino alla struttura dell’offerta italiana ed al suo effettivo mercato del lavoro, ammettendo piccolissime varianti”.
4. Essendo questo quadro immutabile, almeno nel panorama delle “risorse culturali” italiane, la cosa beffarda è che “le riforme” che gli USA e l’€uropa vogliono ossessivamente imporre all’Italia, non solo quest’ultima le ha già introdotte in grandissima parte, ma lo ha fatto molto più di quanto non sia accaduto negli stessi Stati Uniti!
Ma questi ultimi, in verità, sono partiti avvantaggiati; non mi riferisco all’esorbitante privilegio del dollaro, sorretto da portaerei e sommergibili con testate nucleari multiple.
Mi riferisco alla loro Costituzione federalista, che ha da sempre consentito loro di riformare a piacimento il mercato del lavoro e di ridurre il welfare al concetto di beneficenza sedativa delle possibili “sollevazioni” delle masse impoverite, tipico della tradizione anglosassone: una sedazione neppure ben riuscita, come evidenziano fin troppi fatti di cronaca.
5. Ed è perciò con un certo interesse che mi sono imbattuto in un articolo a firma di Anne-Marie Slaughter (cognome non troppo rassicurante dato l’argomento…), sul FT di venerdì 9 giugno (pag.9).
L’autrice è “presidenta” (dovesse mai offendersi) della “New America“, un think tank che inevitabilmente vuol fronteggiare le “nuove sfide” (inclusa quella “global gender”), e si occupa, molto, di limitare il debito pubblico attraverso la riduzione del deficit pubblico, anche se vuole tanta istruzione per tutti, ma in modo da facilitare l’inserimento dei gggiovani nel mondo del lavoro.
La Slaughter, dopo un inizio entusiasta su Macron, come uomo nuovo fuori dall’establishment partitico (!) e portatore di nuove politiche (!!!), arriva però a un passaggio interessante:
“Sento tuttavia frequenti lamentele sui partiti Repubblicano e Democratico e sull’incapacità degli USA di governarsi in un modo che rifletta il sentire dell’elettorato. Il desiderio di un’alternativa politica effettiva è palpabile, avendosi il 57% degli americani che, in un sondaggio Gallup di settembre, ha risposto che fosse necessario un “terzo” partito.
Il 42% degli americani si sono identificati, nelle ultime elezioni di Novembre, come politicamente indipendenti, con una percentuale sostanzialmente maggiore dei circa 30%, rispettivi, che si identificano coi due maggiori partiti.”
5.1. Viene poi citato un politologo, Lee Drutman, che ritiene inimmaginabile l’auspicata (dalla Slaughter) coalizione centrista:
“La ragione…è che l’elettorato americano è suddiviso in sei fazioni con riguardo a specifiche questioni e alla complessiva filosofia politica: labour/left (Sanders/Warren democratici); progressisti (democratici clintoniani); Whigs (repubblicani tradizionali); libertari; populisti nazionali (repubblicani di Trump); e conservatori (Paul Ryan/Ted Cruz, repubblicani).”
La Slaughter, data anche la natura ideologica del think tank che presiede, – dato che poche cose sono precisamente connotate dal punto di vista ideologico quanto la tecnocrazia globale e implicitamente mercatista-, non si accorge di un effetto che, a rigor di logica, risulta quasi comico: e cioè che, tranne che per la prima “fazione” (labour/left), le restanti elencate da Drutman rappresentano varie forme di neo-liberismo, più o meno orientate ad attribuire allo Stato americano un ruolo di mero guardiano notturno ovvero, nel caso opposto (clintoniani e repubblicani tradizionali) di attivo propagatore di regole e istituzioni intese a condizionare e sottomettere le altre aree del mondo.
5.2. Tuttavia, – ed è questo il punto interessante (forse motivato dal diretto interesse a promuovere un “terzo partito”…) -, la Slaughter ne fa poi discendere una serie di quesiti quasi stupefacenti:
“Nessun partito ha le risposte alle grandi domande che pone l’elettorato.
Cosa accadrà dell’occupazione?
Come potranno sopravvivere gli invecchiati baby boomers al collasso del tradizionale sistema pensionistico?
Come potrà sopravvivere il sistema di benefici USA, fondato sulla contribuzione a carico dei dipendenti, alle schiere velocemente in aumento dei lavoratori part-time e “autonomi” (free-lance)?
Come potranno sopravvivere le famiglie al collasso delle retribuzioni della middle class?”
6. La risposta della Slaughter si aggira sull’esigenza del superamento del bipartitismo attraverso svariate possibili riforme “costituzionali”, di tipo elettorale, nei singoli Stati, che consentirebbero di superare la scelta limitata dei rappresentanti eleggibili nelle varie circoscrizioni, oggi monopolizzata dai due principali partiti. Conscia della estrema complicatezza di tali sistemi e dei quesiti referendari che ne deriverebbero, finisce per auspicare che sia
“prima creato un terzo partito e poi siano convinti gli elettori che sia possibile mettere da parte gli altri partiti” (divenuti incapaci di dare risposte).
7. Ma rimane di fondo che quei quesiti, riportati sul Financial Times, indicano che anche nei think tank “che accettano la sfida delle nuove tecnologie e del global gender” (per capirsi), si comprende che l’epoca in cui si possa solo parlare di “riforme” e di misure supply side è al tramonto.
La cosa curiosa è che questo “sentiment” da oltreoceano è praticamente ignorato in €uropa, dove le riforme continuano ad essere propugnate con l’urgenza e la convinzione fanatica del mantra di una setta votata al suicidio collettivo.
La distruzione del welfare, cioè salario indiretto (assistenza e istruzione pubbliche, sanità pubblica universale) e salario differito (sistema previdenziale pubblico, non privatizzato e, quindi, “collassabile” con le crisi finanziarie periodiche e non riversabile a carico dei soli decrescenti salari dei lavoratori precarizzati), in €uropa non è ancora del tutto compiuta.
8. Ma mentre negli USA ci si rende sempre di più conto che l’aver portato a compimento questa opera pone l’intero sistema politico-sociale sull’orlo del precipizio, in €uropa si va convintamente nella direzione opposta, cercando anzi di accelerare.
Certo non sarà Trump a dare agli americani “quelle” risposte; ma almeno le domande se le pongono. E, in vista delle presidenziali del 2020, Reich pare sempre più aver azzeccato la sua previsione: v. qui, p.6. Nelle elezioni francesi e, nella inutilità pratica delle elezioni comunali in Italia, invece neppure questo.
Ma, prima o poi, neanche tanto tardi, ci saranno delle sorprese…inevitabili.
Fonte:http://orizzonte48.blogspot.it
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