Quali spendaccioni? Il debito pubblico paga il divorzio “Con gli interessi”
di SENSO COMUNE
«Negli anni ’80 la finanza pubblica era fuori controllo… La classe politica si comprava il consenso elettorale con la spesa pubblica… L’Italia ha vissuto al di sopra delle proprie possibilità… Il debito pubblico esplose per pagare il prezzo insostenibile dei servizi sociali».
Chi non ha mai sentito in TV, o letto sui giornali, affermazioni simili? Sono decenni che le subiamo da parte delle nostre élite politico-economiche, dal seguito di finti “tecnici” e da tutta la grancassa mediatica di contorno, ogni qualvolta che si accenna alla possibilità di investire ulteriori risorse pubbliche per la sanità, per la scuola, per i trasporti o per il generale sviluppo economico del Paese.
È ora di ristabilire la verità dei fatti. Il debito pubblico (in % rispetto al PIL) esplose negli anni ’80 quando, in seguito al “Divorzio” tra Banca d’Italia e [Ministero del] Tesoro nel 1981, quest’ultimo fu costretto a emettere Titoli di Stato ai tassi di interesse decisi dai mercati finanziari. Il risultato fu che questi volarono alle stelle e in un decennio contribuirono a far raddoppiare il rapporto debito/PIL.
Se negli anni ’60 e ’70 la spesa per interessi rispetto al PIL valeva poco più del 2%, negli anni ’80 essa salì all’8% per attestarsi al 10% negli anni ’90, gli anni dell’austerità per il popolo italiano e della prosperità per i fortunati detentori del nostro debito pubblico. Ricordiamo poi che dal 1991 l’Italia registra un surplus primario di bilancio (spende meno di quanto incassa, interessi esclusi), che mantiene ancora oggi, facendo pure meglio della “virtuosa” Germania.
Allo stesso tempo, nei primi anni ’90 quasi un quarto del bilancio dello Stato veniva dedicato alla spesa per interessi sul debito! Per anni le nostre tasse hanno contribuito a remunerare i ricchi creditori nazionali ed esteri con maggiori risorse rispetto a quelle dedicate alla sanità pubblica! Ancora oggi, un decimo delle uscite totali è dedicato al pagamento degli interessi, e nonostante l’abbassamento del tasso medio di indebitamento, siamo costretti a sborsare tra i 70 e gli 80 miliardi di euro all’anno. Quante scuole potremmo ricostruire, quanti ospedali potremmo rifinanziare, quanti treni potremmo non dover tagliare, quanti ricercatori, professori, infermieri potremmo assumere, quanti disoccupati potremmo aiutare, se solo potessimo dimezzare quella spesa annuale? Le risorse ci sarebbero, 30 o 40 miliardi di euro sono cifre spaventose.
Le classi dirigenti di quegli anni ci imposero questo oneroso vincolo e i loro successori lo continuano a difendere. Così facendo, l’Italia ha pagato più di altri Paesi la determinazione a voler aderire all’integrazione monetaria europea. Lo scopo era di “affamare la bestia” dello Stato, e i risultati catastrofici si sono visti, dal punto di vista economico e sociale.
Per rilanciare lo sviluppo della nostra Repubblica è necessario cambiare paradigma economico dentro le istituzioni che lo governano. Dobbiamo ristabilire un rapporto efficiente, sostenibile e democratico tra Istituto di emissione e Tesoro. Bisogna mettere fine all’arroganza e alla ideologica faziosità dei Mario Monti di turno. Il popolo italiano si è inutilmente sacrificato sull’altare delle finte ideologie spacciate per “tecnicismi” e sull’unione monetaria europea, con tutti i dogmi e le falsità a essa connessi.
È giunta l’ora di ribaltare l’oggetto del sacrificio.
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