Tecno-vita e tecno-morte
di PIER PAOLO DAL MONTE
Accade periodicamente che qualche fatto di cronaca scateni l’”opinione pubblica” in interminabili dibattiti su temi aporetici come quello sulle definizioni di “vita” e di “morte”, che sono sempre incrostate dalle morchie del concetto di “vita-degna-di-essere-vissuta”, concetto quanto mai insensato, sia dal punto di vista logico, che da quello pratico (in quanto si presterebbe ai peggiori arbitri dello Zeitgeist, come hanno dimostrato i campi di sterminio). Questo tipo di discussioni viene, in genere, condotto tramite quello strumento epistemico improprio che si definisce “opinione personale”, (e, infatti, in passato, la doxa era ben distinta dall’epistème) il che le rende piuttosto paradossali.
Vorremmo, pertanto, scrutare con un poco di attenzione questo tema, in un’epoca nella quale le possibilità tecniche, messe a disposizione della pratica medica, rendono i concetti di “vita” e di “morte” assai più indeterminati rispetto ad un passato abbastanza recente.
Per fare questo dobbiamo addentrarci un poco nella definizione di quella che è l’”arte medica”. Non usiamo a caso il termine “arte”, perché in questo caso vorremmo parlare della medicina intesa come pratica (ars/τέχνη) e non come scienza (ἐπιστήμη), in quanto i temi di carattere etico possono solo attenere alla pratica e non alla conoscenza.
Gli antichi distinguevano la “vita attiva” in due generi: un agire (πρᾶξις), che era regolato dalla “prudenza” (pro-videntia), e un “produrre” (ποίησις) che era governato dall’arte[1] (o “tecnica”).
Vi è tuttavia una fondamentale differenza tra la medicina e le altre arti (poietiche), poiché queste ultime sono dirette alla modificazione dell’ambiente naturale, per costruire quel “mondo umano” che, non solo rende più facile la sopravvivenza ma che costituisce la dimensione terrena degli uomini.
L’arte medica, viceversa, non può essere propriamente considerata appartenere alla categoria della poiesis, poiché non produce nulla di manifesto. Il suo intento e il suo scopo sono quelli di modificare una condizione in atto (quella di “malattia”) per “produrne” una diversa (quella di “salute”), ripristinare il “naturale” stato di salute corrotto o compromesso dalla malattia, e quindi, lo scopo dell’”opera” “è definito dalla natura” “ ( dato che il suo “oggetto” rimane comunque un “oggetto naturale”).
L’arte medica veniva, pertanto, definita secondo i canoni che erano applicati alle altre arti, ovvero la “retta norma per compiere le opere” (Recta ratio facibilia”)[2], ovvero la precisione e l’accuratezza nell’ imitare l’opera della natura e l’idoneità a servire lo scopo, cioè la soddisfazione del bisogno dell’individuo malato (causa prima e causa ultima), il ripristino della “salute”.
Da questo punto di vista, “Siccome il suo scopo è guarire, curare e alleviare le sofferenze, l’arte medica è stata sempre eticamente indiscutibile”[3], ovviamente se praticata in maniera appropriata, come si suole dire, in “scienza e coscienza” e con perizia, prudenza e diligenza. Per dirlo in altre parole: lo scopo dell’arte medica, in quanto tale, non può essere messo in discussione dal punto di vista etico, può esserlo semmai l’intento, l’azione e lo scopo di chi la pratica, ovvero del medico
Tuttavia, anche l’arte medica non è in grado di prescindere dal contesto nel quale si trova ad esistere, e quest’ultimo è costituito dall’Universo Tecnico[4] nel quale ci troviamo immersi. Quindi, anch’essa, come la maggior parte d quelle che erano definite tali, ha subito una profonda trasformazione dovuta alla Weltanschauung ed alla prassi dei tempi moderni.
Un tempo colui che praticava quest’arte era un soggetto che trattava l’individuo malato nella sua interezza, non singole parti del paziente o “frammenti di malattia”. Oggi, la proliferazione delle conoscenze e delle tecniche ha giocoforza condotto ad un’estrema specializzazione in ogni disciplina del sapere che, se da un lato ha aumentato l’efficacia dell’agire, dall’altro ha condotto allo smarrimento della “visione d’assieme”. La disciplina medica non è più considerata un’arte ma è, da un lato, una sorta di scienza spuria che, come ogni scienza è frammentata in una miriade di discipline sempre più specifiche e minuziose, ma i cui ambiti sono sempre più ristretti, e, dall’altro, (specialmente per ciò che riguarda le discipline chirurgiche o quelle con forti componenti operative) è caratterizzata sempre più come padronanza di tecniche sempre più complesse.
Pertanto, nessun “soggetto preposto alle cure”, tra le miriadi di essi che interagiscono con le singole parti del paziente o con le singole malattie, riesce più ad avere una visione d’assieme[5]. Lo scopo dell’arte medica diviene, quindi, aleatorio, anche perché il medico deve rispondere a due finalità assai diverse tra loro (e a volte in conflitto): l’interesse del paziente e quello dell’organizzazione sanitaria cui appartiene[6](e del sistema socioeconomico nel suo assieme) e, se non vi è uno scopo definito, diviene difficile identificare quale sia il retto agire. È necessario, quindi, riconoscere che i confini di quest’”arte” includono ormai scopi e bisogni diversi da quelli per i quali essa è sempre stata identificata (ovvero, visto che repetita juvant, il ripristino della condizione di salute dell’individuo malato), scopi che sono, piuttosto, definiti da istanze sociali o psico-sociali.
Inoltre, la continua evoluzione delle tecniche mediche e il divenire delle istanze sociali, pone “bisogni” sempre nuovi che spostano continuamente i confini e le finalità della pratica medica e suscitano sempre nuovi interrogativi etici.
I progressi scientifici e tecnologici in campo medico, pongono dunque problemi totalmente nuovi rispetto al passato; anzi, si può affermare che siano stati infranti i confini della visione del mondo che ha accompagnato l’uomo nel lungo corso della sua storia. Non è più chiaro quali possano o debbano essere i limiti dell’agire, specialmente per ciò che riguarda i confini della vita, vista la possibilità di estendere la sopravvivenza ben al di là di quello che era previsto dalla natura, e ben al di là da quello che era ritenuto compatibile con l’ imago hominis. Come scrisse Hans Jonas:
«La morte non appare più come una necessità insita nella natura, ma come una prestazione organica disfunzionale a cui si può porre rimedio» [7]
Se Jonas scriveva queste parole rilevandone il paradosso epistemologico (ma anche metodologico), un soggetto meno pensante, come William Haseltine (CEO of Human Genome Sciences, che ha avviato il cosiddetto “Progetto Genoma”), dichiarò testualmente ( senza l’ombra di ironia) che « La morte non è altro che una serie di malattie prevenibili da sconfiggere una ad una»[8]
La tecnica è riuscita a penetrare nel “mistero della vita”, catturandone i segreti (tecnici) e ottenendo così il potere di modificare le basi stesse della esistenza biologica. Così Hannah Arendt commentò ciò cui ci troviamo ad affrontare:
«Molti sforzi scientifici sono stati diretti in tempi recenti a cercare di rendere “artificiale anche la vita, a recidere l’ultimo legame per cui l’uomo rientra tra i figli della natura. […]Quest’uomo del futuro che gli scienziati pensano di produrre, sembra posseduto da una sorta di ribellione contro l’esistenza umana come gli è stata data,un dono gratuito proveniente da non so dove (parlando in termini profani), che desidera,scambiare, se possibile, con qualcosa che lui stesso abbia fatto. Non c’è motivo di dubitare della nostra capacità di effettuare uno scambio del genere, come non c’è ragione di dubitare del nostro poter attuale di distruggere tutta la vita organica sulla terra»”[9]
Si può dire che l’ agone cruciale per ciò che riguarda l’etica medica, sia quello della determinazione dei confini della vita e, in particolare dell’inizio e della fine dell’esistenza.
Willard Gaylin, psichiatra e fondatore dell’Hasting Centre, istituto di studi sulla bioetica, scrisse che:
«Non vi è più nulla di semplice, nella vita, neppure morire. Un tempo non vi era necessità per il medico di considerare il concetto di morte, il fatto di morire era sufficiente. La differenza tra la vita e la morte era un abisso infinito infranto in un momento infinitesimale. Vita e morte erano gli estremi evidenti opposti. Con l’avvento delle nuove tecniche in medicina quegli opposti hanno iniziato a convergere»[10].
Siccome i concetti di “vita” e “morte sono divenuti indefiniti e sfumati; non è quindi inutile porsi la domanda: che cos’è la vita?
Per il pensiero tradizionale la vita dell’uomo, prima ancora che essere un semplice dato biologico, possedeva una dimensione sia immanente che trascendente, carnale e spirituale: “Non di solo pane vivrà l’uomo”[11]. L’uomo era fatto di corpo, anima e spirito, e la vita dello spirito aveva assai più importanza che la vita della materia (o della carne), in tal modo i fini dell’uomo erano chiaramente determinati, come spiega Raimon Panikkar:
«La storia della spiritualità coincide con la storia stessa dell’uomo. In fondo è la dimensione reale e effettiva della storia umana, dato che la vera occupazione dell’uomo non è tanto fare guerre, nazioni e culture, quanto “fare” se stesso e portare a termine la sua salvezza assieme a quella parte del cosmo alla quale è legato […] L’uomo è un essere fatto a metà e la spiritualità indica l strade e i mezzi perché diventi reale»[12]
Per Aristotele il fine degli uomini era il “vivere bene “ e, per fare questo, doveva tendere verso ideali che fossero superiori al semplice vivere (o sopravvivere):
«Infatti non in quanto uomo egli vivrà in tal maniera, ma in quanto in lui v’e qualcosa di divino […]Non bisogna però seguire quelli che consigliano che, essendo uomini, si attenda a cose umane ed, essendo umani, a cose mortali bensì, per quanto possibile, bisogna farsi immortali e far di tutto per vivere secondo la parte più elevata che c’è in noi»[13]
L’età moderna, informata dalle concezioni cartesiane (o dallo Zeitgeist che le determinò) concepisce invece l’uomo come una sosrta di amalgama di due “composti”, res cogitans e res extensa, un’inesplicabile combinazione di “mente” e corpo, quasi indipendenti l’uno dall’altro Per Cartesio l’uomo non era nulla più che un automa, che si distingueva dagli altri animali solo perché provvisto di anima. Per la scienza meccanicistica, la vita era pura funzione meccanica: il cuore che per gli antichi era sede dell’anima, si trasformò nella “pompa” di Harvey. L’uomo non era altro che una macchina, complessa e delicata, che, come tale andava trattata (e curata).
Questo piccolo excursus sul concetto di vita, tuttavia, non ci aiuta affatto a chiarire una posizione epistemologica o etica riguardo ad esso. Ci rivolgeremo, pertanto, alla storia delle parole per cercare di diradare le nebbie nelle quali siamo ancora immersi e, nella fattispecie al pensiero greco, perché ad esso «dobbiamo la maggior parte dei nostri concetti etico-politici»[14]
La lingua greca esprime il concetto di “vita”, fondamentalmente con due termini. Il primo, ζωή (zoe) definiva la semplice condizione di vivere, l’essere in vita, la vita qua vivimus, ovvero mediante la quale viviamo, la vitalità che si manifesta negli esseri viventi. Il secondo, βίος (bios), che indicava la vita individuale, la vita quam vivimus, quella che viviamo come esseri singoli. Quest’individualità è data dalla sua connessione con la psychè o anima individuale, si può anzi dire che questa connessione sia ciò che distingue ciò che è propriamente “vita” dalla semplice sopravvivenza cellulare. E’ il legame con la Ψύχη (psyche) che dà vita al soma (che, in origine, significava semplicemente “cadavere”[15]), legame che, ancora prima che biologico è ontologico, visto che, per dirlo nei termini della moderna scienza, vi è la possibilità di sopravvivenza “corporea” (ovvero delle cellule che compongono il soma) anche dopo la perdita delle funzioni corticali e, pertanto, può essere dato il fatto paradossale che ci si possa trovare
«di fronte al fatto di decidere se ciò che abbiamo mantenuto vivo sia ancora un essere umano o, messo in altri termini, se l’essere umano che stiamo conservando sia da considerare vivo»[16]
Quarantanove anni fa, il 5 maggio 1968, venne elaborato famoso rapporto di Harvard circa la definizione di “morte cerebrale” che costituì il tentativo (pienamente riuscito, dal punto di vista giuridico) di tracciare i confini tra la vita e la morte in senso “scientifico”, visto che, il progresso medico gli aveva resi alquanto sfumati dal punto di vista cognitivo. Da un lato essa ha senz’altro potuto risolvere diversi problemi di ordine medico-legale[17] ma, dall’altro ha aperto molti interrogativi di ordine epistemologico.
A questo punto non ci sembra inutile scrutare un poco le posizioni della Chiesa Cattolica, visto che essa è ritenuta alquanto “conservatrice” per ciò che riguarda questo “delicato” tema.
Ebbene, la linea ufficiala della Chiesa sembra non dissentire fondamentalmente da quelle del Rapporto di Harvad. Ad esempio, nel 1957 Papa Pio XII, di fronte ai progressi delle moderne tecniche rianimatorie, aveva affermato qualcosa di simile:
«Se si giudica permanente una profonda perdita di coscienza, allora i mezzi straordinari per l’ulteriore mantenimento della sopravvivenza non sono obbligatori. Si possono sospendere e consentire al paziente di morire»[18]
Questa posizione è ribadita, nel 1980, dalla Congregazione per la Dottrina della Fede:
«Nell’imminenza di una morte inevitabile nonostante i mezzi usati, è lecito in coscienza prendere la decisione di rinunciare a trattamenti che procurerebbero soltanto un prolungamento precario e penoso della vita, senza tuttavia interrompere le cure normali dovute all’ammalato in simili casi.»[19],
In tempi più recenti, Giovanni Paolo II espresse, su questo tema le seguenti parole:
«Al riguardo, è opportuno ricordare che esiste una sola “morte della persona”, consistente nella totale dis-integrazione di quel complesso unitario ed integrato che la persona in se stessa è, come conseguenza della separazione del principio vitale, o anima, della persona dalla sua corporeità. La morte della persona, intesa in questo senso radicale, è un evento che non può essere direttamente individuato da nessuna tecnica scientifica o metodica empirica»[20]
A questo punto lo spinoso tema dei confini tra vita e morte potrebbe sembrare, se non definitivamente chiarito, almeno definito in maniera precisa: vi è una perdita di funzioni cerebrali che interrompe la connessione tra psyche e soma (o tra corpo e anima) e questo si può chiamare morte. Tuttavia vi sono alcuni punti che suscitano qualche perplessità.
Se il fine è, aristotelicamente, ciò che definisce l’azione, allora l’atto medico propriamente detto (così come l’abbiamo definito precedentemente), è identificato dall’avere come fine il ripristino dello stato di salute dell’individuo malato (il bene del paziente). Nel Rapporto della Commissione di Harvard sono enunciati i motivi che hanno portato alla necessità della definizione di “morte cerebrale” e, al primo punto, il suddetto fine sembra essere rispettato, almeno in apparenza:
“La necessità di una definizione si impone per due ragioni:
(1) il miglioramento delle misure di rianimazione e di prolungamento della vita ha prodotto un impegno sempre maggiore per salvare persone affette da lesioni disperatamente gravi. A volte questi sforzi hanno un successo soltanto parziale e quello che ci troviamo di fronte è un individuo il cui cuore continua a battere, pur in presenza di un cervello irrimediabilmente danneggiato. Il peso (burden) di questa situazione è enorme non solo per i pazienti, che soffrono di una perdita irreversibile dell’ intelletto,”
In questa motivazione vi sono, tuttavia, alcuni aspetti di ordine semantico ed epistemologico, piuttosto confusi: se la condizione di essere “privo di intelletto” diviene un criterio per considerare qualcuno non più in vita (in questo caso sarebbe più opportuno definirlo “qualcosa”, non “qualcuno”), come si può considerare, secondo logica, questa situazione un “peso per il paziente” se, se se il “soggetto paziente” non è più un “soggetto”?
Questa posizione è ancora più aporetica se si considera un altro possibile significato : «dato che questa situazione è un peso per il paziente, noi dichiariamo che esso non è più un paziente e quindi viene ad annullarsi la condizione di portare un peso». Un’altra aporia epistemologica riguarda il tipo di azione che si configura: perché se l’entità priva di intelletto non è più “qualcuno” ma “qualcosa”, ciò significa che non è più un paziente, ma solo un ammasso di cellule mantenute artificialmente vitali, e quindi non è più l’oggetto dell’agire medico. Pertanto questa parte della motivazione che tratta dell’essere decerebrato come se fosse un paziente per il bene del quale si agisce, ci sembra una patente contraddizione logica. Ed è un po’ sospetto il fatto che sia stata messa al primo posto.
Le motivazioni della seconda parte del punto 1 e del punto 2, sono, invece, assai chiare: “…ma anche per le loro famiglie, per gli ospedali e per tutti coloro che hanno bisogno di posti letto già occupati da pazienti in coma. (2) L’uso di criteri obsoleti per la definizione di morte cerebrale può ingenerare controversie nel reperimento degli organi per i trapianti”
In questa seconda parte non pretende di entrare in gioco alcuna decisione medica in senso proprio, perché il fine è dichiaratamente altro, ovvero l”alleviare il peso per i familiari, le necessità economiche, organizzative, “trapiantologiche”, e quindi l’”entità indefinita” che è “attaccata” agli strumenti rianimatori non è più un fine ma un qualcosa che è pronto per diventare un mezzo. L’indizio, se non la prova, che il fine fosse da ricercarsi altrove, scaturisce dalla cronologia dell’evento: il rapporto di Harvard fu pubblicato il 5 maggio 1968, appena sei mesi dopo l’esecuzione del primo trapianto di cuore
Abbiamo adottato l’esempio della definizione di “morte cerebrale” per mostrare come la riflessione etica sia costantemente in ritardo rispetto al meccanismo autopoietico del progresso tecnologico. Il rapporto di Harvard, che fu senza dubbio una dichiarazione etica, perché riguardava le norme dell’agire, non ha rappresentato altro che un prendere atto dello spostamento dei confini tra vita e morte causata dal progresso medico, la constatazione di ciò che era divenuto possibile grazie alla tecnica e che, pertanto, visto che era possibile, doveva essere fatto[21].
Siccome il progresso non è solo un irreversibile moto fattuale, ma anche il supremo giudizio di valore della modernità(assieme alle considerazioni di tipo economico), il compito dell’etica, oggi, sembra essere semplicemente quello di fornire una cornice teoretica per giustificare le applicazioni ch’esso rende possibili (che in realtà vengono giustificate per il semplice fatto di essere possibili).
Questo è anche il caso della dichiarazione di “morte cerebrale”, che non è disdicevole per ciò che riguarda la sua rilevanza o le sue necessità pratiche (è indubbio che queste vi fossero e vi siano), ma per ciò che comporta circa la reificazione dell’essere umano: se l’uomo è una macchina – ed è questa la posizione della scienza, anche quella medica- come tale va trattato, e quando non funziona più, può sempre essere utile per trarne “pezzi di ricambio”.
La critica al Rapporto di Harvard, non deve quindi vertere su criteri “scientifici” o, finanche, etici, perché non fa altro che applicare la logica del “male minore”, ma secondo criteri ontologici, come rilevò Hans Jonas con le celebri considerazioni alquanto provocatorie (dal punto di vista logico), che qui elencheremo:
«Il cervello è morto, abbiamo un organismo con tutto meno il cervello, mantenuto in stato di vita parziale e artificiale: che fare di lui ? (che resta pur sempre una paziente? […]
Se il paziente in coma, in forza delle varie definizioni è morto, allora non è più un paziente ma un cadavere con il quale è consentito intraprendere tutto quanto legge o uso o testamento o congiunti permettono di fare con un cadavere e verso cui spinge questo o quel particolare interesse[…]
Una volta sicuri di avere a che fare con un cadavere non vi sono motivi logici a sfavore, bensì forti motivi pragmatici a favore, per proseguire l’irrorazione sanguigna artificiale (vita simulata? E tenere a disposizione il corpo come banca di organi vivi, possibilmente anche come fabbrica o come fabbrica di ormoni o altre sostanze biochimiche, di cui ci sia bisogno. […]Allettante è anche l’idea di una banca del sangue che si autorigenera. […]Perché non intraprendere su questo compiacente soggetto-non-soggetto i più strabilianti esperimenti chirurgici?[…]perché non ricerche immunologiche o tossicologiche, sperimentazioni di droghe?”cellule o altro, perché non fare sperimentazioni tossicologiche, immunologiche, infettivo logiche, o di farmaci»”[22]
Sullo stesso tenore delle considerazioni di Jonas sono quelle del già citato Willard Gaylin, che scrisse un articolo dal suggestivo titolo “Harvesting the dead” (che si potrebbe significativamente tradurre con “Mietere il morto”), dove anch’egli fa una disamina delle possibilità testé elencate, il che ci mostra che Jonas non fu il solo a porsi il problema delle possibili implicazioni del concetto di “morte cerebrale”.
Mollaret e Goulon, neurofisiologi francesi, scrissero, nel 1959, che il concetto di coma depassè aveva implicazioni ben più importanti del semplice problema tecnico della rianimazione, ma implicava nientemeno, come scrive Agamben, che il problema di una nuova definizione di morte “fino a mettere in discussione le frontiere ultime della vita e, più in là ancora, fino alla determinazione di un diritto di fissare l’ora della morte legale”[23] , e quindi, “vita e morte non sono [più] propriamente concetti scientifici ma politici” perché la “nuda vita è per la prima volta integralmente controllata dall’uomo e dalla sua tecnologia”[24]
Ci sovvengono, a questo punto i versi di Rainer Maria Rilke
“Dà, signore, a ciascuno la sua morte!
La morte che fiorì da quella vita,
in cui ciascuno amò, pensò sofferse”[25]
All’uomo-macchina non è più concessa questa morte, non la riservatezza ch’egli meriterebbe nell’ultimo rito di passaggio della vita, egli ne è stato espropriato perché, in quanto non ancora definitivamente cadavere ( e quindi inutilizzabile), ma neppure vivo, visto che è stato dichiarato morto, è ridotto ad oggetto di utilità (seppure per una “nobile causa”).
Se, secondo Jonas i problemi causati dal progresso medico non possono trovare una risposta “con una definizione di morte, ma con una definizione dell’uomo e di che cos’è una vita umana”[26], crediamo che oggi sia difficile trovare quella risposta, visto che, nella modernità, l’unica teleologia rimasta è il mero perpetuarsi del processo del metabolismo sociale che conduce, in ultima analisi all’allucinazione di massa per la quale l’unico fine della vita diventa la riproduzione della vita dell’organismo sociale. Gli stessi esseri umani sono ormai identificati con la loro funzione e misurati secondo la loro utilità e il loro costo
.
Per ciò che riguarda la tecnica, temiamo che essa continuerà a scoperchiare progressivamente tutti i vasi di Pandora che sono rimasti, sin qui sigillati. Gli apprendisti stregoni che giocano con pipette e molecole, à la Haseltine, riusciranno a creare ogni sorta di inenarrabili mostruosità, così come sono riusciti a spargere geni artificiali (coi prodotti agricoli transgenici) in ogni angolo del globo, con effetti a lungo termine che sono al di là delle possibilità di previsione di chiunque (specialmente di coloro che passano le giornate tra pipette e provette), perché nessuno può prevedere gli effetti di qualcosa che non è mai apparso prima d’ora nel mondo.
Sicuramente arriveremo a fare tutto ciò che la tecnica ci consentirà di fare, e probabilmente l’ingegneria genetica “produrrà” esseri decerebrati allo scopo di avere sempre a disposizione organi da trapiantare, e corpi su cui sperimentare tecniche sempre nuove, per la gloria del progresso sempiterno, o, secondo le profezie di Huxley, verranno fabbricati tanti esseri delta e epsilon per servire l’efebica élite degli esseri alfa, che godrà degli illimitati agii di un’esistenza plastificata nell’“intrepido nuovo mondo”
Potremo quindi concludere con le parole di Heidegger, mai come oggi calzanti:
«Ciò che è veramente inquietante non è che il mondo si trasformi in un completo dominio della tecnica. Di gran lunga più inquietante è che l’uomo non è affatto preparato a questo radicale mutamento del Mondo. Di gran lunga più inquietante è non siamo capaci di raggiungere, attraverso un pensiero meditante, un confronto adeguato con ciò che sta realmente emergendo nella nostra epoca […]
Quale grande pericolo si starebbe allora avvicinando? Si troverebbero accoppiati l’acume intellettuale più efficace e produttivo, che è proprio dell’invenzione e della pianificazione calcolante, e la più totale indifferenza verso il pensiero, la totale assenza di pensiero.»[29]
[1] Ananda K Coomaraswamy: La filosofia dell’arte medioevale e orientale. In: Il grande brivido. Adelphi., Milano. 1987. P.48. Cfr Summa teologica I-II 3,3 ad 1; II-II, 179, 2 ad 1 e 3
[2] Summa Teologica:I-II 57, 3
[3] Hans Jonas, Tecnica, medicina ed etica. Einaudi, Torino, 1997. P.56
[4] Cfr., Jacques Ellul, Il sistema Tecnico, Jaca Book, Milano, 2009
[5] Tanto meno riesce ad averla quella desueta figura che prende il nome di medico di base che è diventato, più che altro, uno smistatore di esami clinici e prestazioni specialistiche, e comilatore di ricette per farmaci prescritti da altri
[6] Tralasciamo di parlare delle storture più recenti, come la “medicina difensiva”
[7] Hans Jonas, Il principio responsabilità, cit. P.25
[8] New York Times, August 29, 1999
[9] Hanna Arendt: Vita activa. Bompiani,Milano. 2003. Pp2-3
[10] Willard Gaylin: Harvesting the dead, in “Harpers”, 23 settembre 1974
[11] Matteo,4.4
[12] Raimon Panikkar: Il Dharma dell’induismo, cit. P.43
[13] Aristotele. Etica Nicomachea.1177
[14] Giorgio Agamben: Op.cit. P.75
[15] Giorgio Agamben, op.cit.P.76
[16] Willard Gaylin, art.cit.
[17] Quando la decisione se continuare o meno la repirazione artificiale era lasciataal giudizio del singolo curante, questo poteva comportare l’imputazione di omicidio.
[18] Papa Pio XIII: Allocutio ad participantes XI Congressum Societatis Italicae de anaesthesiologia, die 24 febr. 1957 Allocutio circa queestionem de “reanimatione”, die 24 nov. 1957
[19] Sacra Congregazione per la Dottrina della Fede,Dichiarazone sull’eutanasia, il 5 maggio 1980.”Jura et bona”
[20] Discorso di Papa Giovanni Paolo Ii al 18° Congresso Internazionale
della Società dei Trapianti. 29 Agosto 2000
[21] Si deve al fisico anglo-ungherese Dennis Gabor, Premio Nobel per la fisica nel 1971, la formulazione delle «leggi» informali che guidano lo sviluppo tecnologico. La prima di esse recita: «Bisogna fare tutto quello che è (tecnicamente) possibile fare», la seconda (che è un corollario della prima): «Ciò che può essere fatto, inevitabilmente sarà fatto».
[22] Hans Jonas, tecnica, Medicina ed Etica, . Einaudi, Torino, 1997, pp.177-178
[23] P. Mollaret and M. Goulon, Le coma dépassé, Rev. Neurol. Paris 101 (1959) (1), pp. 1–15. In G. Aganben, Homo sacer, Einudi, Torino 2005, p. 180
[24] G. Aganben. Op.cit. Pp 183, 184
[25] Rainer Maria Rilke. Il libro della povertà e della morte. Trad.Vincenzo Errante
[26] Hans Jonas. Op.cit. p177
[29] Martin Heideger. L’abbandono. Il Melangolo, Genova,2006. Pp. 36,40
Fonte: http://www.ilvelodimaya.org/2017/06/30/tecno-vita-e-tecno-morte/
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