Le professioni liberali all’epoca dei kapò
di ANONIMO (da goofynomics di ALBERTO BAGNAI)
Antefatto
Il 30/06/2017 16:17, John Smith Studio ha scritto:
Egregio professore,
Le allego una lettera che da molto tempo le volevo scrivere. Mi scuso per aver usato la sua mail universitaria, lo faccio perché non voglio inondare il Suo blog con un lungo sproloquio e perché così, se vuole, può cancellare l’allegato con un solo clik.
Con i più cordiali saluti
John Smith
Il 1 luglio 2017 alle 11.13 alberto.bagnai@unich.it ha scritto: Caro collega, i testi non sono lunghi o brevi: sono scritti male o bene. Il tuo è scritto molto bene, e questo ne aumenta l’impatto, perché trasmette direttamente il senso del patrimonio di civiltà che stiamo dilapidando. I bimbiminkia che trovano tutto su Internet (senza naturalmente chiedersi chi ce l’abbia messo) non sono in grado di articolare così il loro pensiero, neanche in quei rari casi in cui ne abbiano uno. Dobbiamo rassegnarci a riconoscere che chiedono quanto valgono (ed è naturalmente anche nostra responsabilità se valgono tanto poco, come la tua lettera bene illustra). La tua lettera solleva un tema molto importante, che promuove diversi ordini di riflessioni. Intendo pubblicarlo, e mi sembra di avere il tuo assenso, ovviamente rispettando il tuo anonimato, come sempre faccio, tranne esplicita richiesta del contrario. Nonostante certi temi siano noti a tutti, se nessuno si espone a parlarne un motivo ci sarà. Cordialmente. Alberto La lettera
Egregio Professore,
leggere su uno dei Suoi ultimi post un giudizio sulle lenzuolate di Bersani, mi ha spinto a riesumare una questo troppo lungo sfogo in merito alla crisi economica nel settore dei professionisti (e non solo) che intendevo inviarLe tempo fa ma poi avevo desistito.
Forse perché, nella Sua ultima opera, Lei assimila i professionisti ai lavoratori dipendenti ed ai piccoli imprenditori; che io sappia è l’unico a farlo e questo mi fa piacere e va a Suo merito.
Forse perché, avendo assiduamente seguito il Suo blog e letto i suoi libri, ho riscontrato un’onestà e libertà intellettuale, che non trovo altrove.
Provo anche simpatia per il Suo discostarsi dal mainstream accademico corrente. Sono associato di urbanistica al [PRESTIGIOSA ISTITUZIONE MENEGHINA], da tre anni pensionato, ed insieme ad una ristrettissima schiera di colleghi ho sempre sostenuto idee diverse dalla tendenza accademica “piddina” dominante (nonostante sia sempre stato di sinistra), so cosa voglia dire e quanto costi, anche se ex post abbiamo avuto la soddisfazione di aver avuto quasi sempre ragione.
Quindi, visto che del problema dei professionisti non parla nessuno, ma proprio nessuno, se non per descriverli come corporativi ed evasori, mi sono fatto l’idea che potrebbe leggere con qualche interesse questa mia lettera (un lettore di Proust -cui certo non mi paragono- non può farsi spaventare dalla lunghezza…).
Opero come professionista nel campo dell’urbanistica e dei trasporti (piani regolatori, piani di traffico, modelli di simulazione della mobilità, progettazione di reti stradali, metropolitane, ferrovie) e possiedo una società d’ingegneria minuscola ma molto qualificata (ora via di liquidazione).
Nonostante che della crisi dei professionisti non si parli mai, il disastro che ha colpito ingegneri, architetti, avvocati è grave, non solo per i titolari degli studi ridotti in povertà e per i loro dipendenti e collaboratori che hanno perso il lavoro, ma per le conseguenze che avrà sulla società nel suo complesso.
La questione può avere una rilevanza più generale perché, se è vero che la scelta dell’Euro ci ha gettati in una crisi senza fine, una parte non irrilevante di questa crisi è dovuta a scelte politiche e legislative, operate anche in precedenza e prevalentemente sotto la spinta di pulsioni moralistiche, del tutto avventate e senza una laica valutazione delle conseguenze (e spesso giustificate con il fatidico detto “ce lo chiede l’Europa”).
Si tratta quindi di un disastro che viene da lontano, che renderà sicuramente molto più difficile la ripresa -quando e se verrà- rischiando anche di distruggere uno dei settori più vivaci della nostra economia.
Negli anni ’60 gli studi di architettura avevano personale assunto a tempo indeterminato, geometri con il camice bianco che rimanevano in studio per tutta la vita e che con il loro stipendio mantenevano decorosamente la famiglia.
Dalla metà degli anni ’70 questo non è più stato possibile perché il carico fiscale di un dipendente non era più sostenibile per uno studio di medie dimensioni, e l’esasperata concorrenza, causata dal repentino aumento del numero dei laureati, non garantiva la costanza dei volumi di lavoro. Tutti i collaboratori diventarono necessariamente “co-co-co” o comunque professionisti a partita IVA.
Questo, contrariamente a quanti credono che abbia facilitato gli studi professionali, è stato un danno, perché un dipendente esperto non è un peso, ma un patrimonio dello studio, non deve essere continuamente istruito, produce meglio e più degli altri e migliora sempre le sue prestazioni. Da un altro punto di vista, ben più importante, partecipa, contribuisce e tramanda la cultura dello studio e l’impegno civile che ne scaturisce.
Invece ci si è dovuto rassegnare a personale che rimane solo per un certo numero di anni e poi trova altri impieghi (magari il posto fisso anche se dequalificato) e sopportare l’onere di formare periodicamente altre persone (il che è anche nella funzione sociale di uno studio, prendere neolaureati e trasformarli in professionisti, ma se una parte di loro resta è meglio per tutti).
Questo è avvenuto perché, in seguito all’aumento degli oneri per welfare, non sono mai state adeguate le tariffe, che sono sempre rimaste più basse di quelle degli altri paesi.
A quel tempo gli incarichi pubblici venivano assegnati per affidamento diretto dagli amministratori degli enti locali e questo seguiva, in molti casi, l’appartenenza politica.
Questo sistema è stato poi considerato immorale, contrario alle norme europee e strumento della partitocrazia, ma in realtà era molto più equilibrato di quanto non sembri.
Si trattava di incarichi fiduciari (chi affiderebbe la redazione di un piano regolatore ad un avversario politico? Oggi succede -nei pochissimi casi in cui si rispetta la legge- con conseguenze disastrose).
Tuttavia i politici che sceglievano ci “mettevano la faccia” e quindi, poiché le tariffe erano uguali per tutti, si rivolgevano ai migliori. I migliori in tutti i campi si conoscevano tra loro, a prescindere dalle varie posizioni ideologiche, si scambiavano esperienze e conoscenze e si era attivato un meccanismo di cooptazione nei confronti dei giovani più promettenti che, anziché restringere, allargava il loro numero, senza alcun tipo di discriminazione.
Spesso venivano incaricati gruppi di professionisti che rappresentavano tutti i partiti delle coalizioni di giunta nelle amministrazioni locali (altra vergogna!) ma questo raramente creava problemi: gli interessi di tutti erano dichiarati, si lavorava insieme e si portavano i politici a ragionevoli (e tecnicamente corrette) mediazioni tra le loro esigenze.
Peraltro la ripartizione non era rigida, io ho lavorato senza problemi con Giunte Comunali di tutte le tendenze politiche.
Con la bufera di tangentopoli, in un eccesso di moralismo, nel ‘94 fu approvata in fretta e furia la legge Merloni, che solo ora tutti riconoscono essere un grave problema.
Gli incarichi – tutti, anche quelli più strettamente fiduciari – dovevano essere assegnati per gara (“ce lo chiedeva l’Europa”, peccato che negli altri paesi non fosse così…), come se uno, avendo bisogno di un dentista, facesse una gara per trovare chi si fa pagare di meno.
L’inganno fu subito trovato: nella valutazione delle offerte si assegnano 70 punti su 100 alla “relazione tecnica” la cui valutazione è meramente discrezionale, basta scrivere le cose “giuste”.
Oggi il 99% delle gare è fatto in questo modo, o con altri trucchi simili, con buona pace della tanto vantata concorrenza e nel totale silenzio di tutti, compresi gli ordini professionali.
In questo modo il meccanismo della gara è stato subito aggirato, non nella trasparenza delle competenze dichiarate e riconosciute, ma come risultato di un insondabile tabellina di punteggi assegnati ai vari partecipanti da un ignoto funzionario, dietro cui si nascondono interessi -anche personali- di ogni tipo.
Il fatto è che, come era prevedibile, le amministrazioni si sono ribellate all’assurda abolizione del legame fiduciario trovando il modo di incaricare chi volevano, ma nell’attuale sistema l’interesse principale non è più quello di trovare il tecnico migliore che riscuota la massima fiducia ed il cui nome venga vantato pubblicamente.
Viene scelto il più corrivo alle volontà della Giunta, con buona pace del merito tecnico delle questioni o, più semplicemente e molto spesso, quello che ha migliori rapporti personali (e di altro tipo) con il dirigente che gestisce la gara.
Molti professionisti ormai si rifiutano di partecipare ai bandi, per chi non abbia preventive conoscenze personali si tratta solo di una perdita di tempo e di denaro.
Per di più nei bandi di gara è richiesto di aver già svolto lo stesso incarico negli ultimi 10 anni (come da decreto del Ministro Di Pietro) ma ora si richiede di averlo svolto negli ultimi 5 o 3 anni, suddividendo gli incarichi in modo molto dettagliato. Così chi ha costruito un grattacielo 6 anni prima non può partecipare oggi ad un bando per una scuola, chi ha costruito opere d’ingegneria molto complesse ma non un parcheggio negli ultimi 5 anni non può partecipare ai bandi per parcheggi, e così via.
Con il modo opaco con cui le gare vengono assegnate, questo sistema espelle via via dal mercato molti professionisti per parecchie categorie di opere, fino a non poter partecipare a quasi nessun bando.
Solo le grandi società che hanno molti incarichi possono stare relativamente tranquille.
Inoltre, con i decreti Bassanini, non fu più consentito agli amministratori di partecipare alle commissioni aggiudicatrici e così i dirigenti hanno avuto consegnato tutto il potere, dimostrandosi molto più sensibili dei politici alla corruzione e ancor più alla tutela degli interessi personali. Almeno i politici, molto più spesso di quanto non si creda, agivano per motivi ideali.
E’ stato così che i peggiori studi hanno prevalso sui migliori: bastava scontare le parcelle e magari portarsi a cena qualche dirigente.
Si vedono ormai incarichi assegnati ad un prezzo inferiore alle minime spese necessarie per svolgerlo decentemente (sconti del 70% non suscitano più stupore).
La qualità dei lavori è crollata verticalmente, gli studi migliori si sono trovati fuori mercato, i peggiori, e quelli disposti ad abituarsi all’andazzo, se lo sono spartiti.
Nel campo dell’architettura. per mascherare lo squallore, è venuto di moda affidare gli incarichi più importanti ad archistar internazionali che, a fronte di parcelle mostruose, hanno prodotto progetti costosissimi, spesso difficilmente realizzabili, sempre avulsi dal contesto, dalla cultura e storia urbana. Progetti che però hanno richiesto il lavoro sottopagato di studi di non grande nome ma di comprovata competenza (chiamati eufemisticamente “local architects”) che li hanno dovuti rifare di sana pianta per renderli costruibili e adeguati alle norme (parlo per esperienza diretta).
Spesso condizionate dal metus di fronte all’archistar, le amministrazioni accettano stime economiche sconsideratamente ottimistiche ed a metà lavori il finanziamento viene esaurito.
Nel campo dell’avvocatura sono prosperati gli studi internazionali, che sfoggiano 50 nomi sulla carta intestata, la maggior parte neolaureati e magari con solo due o tre avvocati veramente esperti.
Lo stesso avviene per le grandi società di consulenza e per le banche, che sfornano presentazioni (e non elaborati con discorsi critici, espliciti e ragionati). Tutti costoro, naturalmente, esibiscono parcelle ben più alte delle tariffe.
Per partecipare alle gare occorre dimostrare di avere già eseguito analoghi progetti per almeno un certo importo di fatturato totale, così, con questi meccanismi e con la crisi economica, il fatturato degli studi migliori scende precipitosamente ed i lavori migliori vengono monopolizzati da grandi, spesso internazionali.
L’ultima novità è che, talvolta, per partecipare alle gare viene chiesto di dichiarare il rapporto tra l’attivo corrente ed il passivo corrente in bilancio, cosicché alle società già in difficoltà per i mancati pagamenti, viene precluso l’accesso alle nuove gare ed ai nuovi incarichi con i quali si potrebbero risollevare.
Si è instaurato un meccanismo analogo a quello già imposto nella gestione urbanistica: gli elevati oneri di urbanizzazione (il doppio o più di quelli di legge) richiesti dalle amministrazioni “di sinistra” (ahimè) fanno sì che le sole grandi immobiliari internazionali possano sviluppare le residue aree edificabili. Tagliando fuori i buoni operatori locali.
Ma all’inizio della crisi è arrivato il colpo mortale, complice il ministro Bersani (che per altri versi ho spesso apprezzato): poiché “ce lo chiede l’Europa” sono state eliminate le tariffe minime professionali ed è stato vietato calcolare le parcelle sulla loro base.
Si sostiene – e lo dicono e scrivono tutti, ma proprio tutti – che tra i professionisti non ci sarebbe concorrenza (il che ci porrebbe tra i reprobi in Europa) e che gli Ordini professionali sarebbero organismi corporativi da abolire.
Ora, dal punto di vista legislativo e statutario, gli ordini sono delle magistrature che controllano gli iscritti nell’interesse dei clienti, quanto di meno corporativo ci possa essere.
È vero che ci sono stati degli eventi palesemente distorti, ma questo attiene al comportamento delle persone, non alla funzione dell’istituzione. Peraltro in altre nazioni europee gli ordini sono potentissimi (come in Spagna o Inghilterra) e le barriere alla concorrenza ci sono, come ben sa chi ha provato a lavorare fuori dall’Italia.
I primi a rimetterci sono stati i clienti. Con questa modifica, i clienti non sono più protetti dagli ordini nei confronti delle parcelle spropositate, basta che abbiano accettato un preventivo senza conoscere i valori di mercato o che siano stati intimiditi dall’albagia dello studio internazionale cui si rivolgono (viene quasi da pensare che questo fosse l’obiettivo).
Quanto alla concorrenza, posto che l’esame di Stato è previsto dalla Costituzione e quindi non è eliminabile a breve, chiunque lo abbia superato può fare concorrenza a qualsiasi altro professionista, grande o piccolo, anziano, esperto o specializzato che sia (è stata pure eliminata la differenza tra procuratori legali e avvocati) e il sistema opaco dei bandi di gara consente di emergere anche agli inesperti (se sono spregiudicati).
A Milano sono iscritti all’Ordine più architetti che in tutta la Francia; per gli avvocati è ancora peggio: in Italia ci sono decine di migliaia di cassazionisti, in Germania solo 96.
Quindi la storia della mancanza di concorrenza non è altro che una fola, ripetuta fino alla nausea da tutti i giornali, ma priva di qualsiasi fondamento.
Certo, nel panglossiano “migliore dei mondi possibili” ove esistesse un’onnisciente giudice in grado di valutare preventivamente la qualità e la correttezza di qualsiasi elaborato e garantire sempre l’assoluto buon livello di ogni opera, allora la concorrenza al ribasso sui prezzi sarebbe assolutamente vantaggiosa.
Ma in una situazione in cui le competenze tecniche sono sempre più complesse e specialistiche, ed in cui gli uffici tecnici delle amministrazioni non sono nemmeno in grado di elaborare un bando di gara che li metta al riparo dalle truffe, le tariffe che spingevano verso la scelta dei migliori erano una garanzia di qualità.
Il risultato di queste “riforme” è che le remunerazioni sono ulteriormente crollate e i professionisti si sono divisi in due categorie: i ribassisti pronti a fare qualsiasi lavoro per qualsiasi cifra, che stanno monopolizzando il mercato, e gli studi internazionali che, protetti dall’eliminazione delle tariffe, operano con parcelle spropositate senza garantire una reale qualità superiore.
In mezzo stanno i professionisti esperti e capaci, in genere già in età matura, che non sono in grado di lavorare al di sotto di una certa qualità, che necessariamente hanno costi maggiori e che sono stati sospinti sempre più fuori mercato.
Il risultato è un decadimento verticale della qualità dei lavori: progetti raffazzonati, piani privi di scelte strategiche, atti amministrativi carenti.
Si lamenta il fatto che tutti gli appalti pubblici siano bloccati dai ricorsi, si vietano le varianti in corso d’opera, ma non si va a guardare la qualità dei progetti (spesso tanto carenti da fornire un illimitato serbatoio per le riserve delle imprese) e quella degli atti amministrativi (spesso poco meditati o viziati da illegittimità).
Invece come si è risolto? Non potendo abolire i TAR (vedi Prodi) si è aumentato enormemente il “contributo unificato” ovvero la tassa da pagare per adire alla giustizia amministrativa (350 € in materia di pubblico impiego, migliaia di Euro per gli appalti, crescenti in relazione al loro valore) e si è inoltre prevista una sanzione per i motivi di ricorso che si discostano dal mainstream della giurisprudenza corrente e anche per i ricorsi troppo lunghi, fissando un numero massimo di pagine, che richiedono troppa attenzione da parte dei magistrati.
Così si è ottenuto il sicuro risultato di negare la giustizia ai cittadini, senza null’altro risolvere (in Francia quando è stata proposta una tassa di 50€ per accedere ai tribunali, c’è stata una mezza rivoluzione che ha fatto subito archiviare il tutto).
Nel frattempo la crisi generata dall’euro ha fatto fallire molti committenti, soprattutto nel campo immobiliare, molti crediti sono stati persi e molti incarichi sono stati revocati; i committenti rimasti pagano -quando pagano- con ritardi superiori all’anno; le amministrazioni pubbliche i cui vertici ora sono “uomini nuovi”, dotati di rilevanza mediatica ma con nessuna esperienza amministrativa, spesso condita con mostruosa ingenuità, commissionano piani che poi, per incertezza degli obiettivi, inconcludenza o incapacità politica, lasciano languire anche per 6 o 7 anni senza riuscire ad approvarli e – naturalmente – senza pagare i tecnici (che intanto non li possono dichiarare in curriculum).
I risultati di tutto questo sono evidenti. La gran parte degli studi professionali è ormai pesantemente debitrice delle banche.
I migliori studi chiudono, molti altri non chiudono ma sono profondamente indebitati e virtualmente falliti. Vengono tenuti in piedi dai titolari che pagano i debiti di tasca loro per evitare di licenziare i dipendenti e collaboratori, nella speranza di una ripresa. Ma intanto consumano pericolosamente i loro risparmi. (È il mio caso, che alla ripresa non credo più, per anni non mi sono risolto a mandare tutti a casa, ma ora l’ho dovuto fare, visto che i risparmi si assottigliano sempre più ed ho ancora un rilevante debito con le banche).
Si è spezzato il consueto il meccanismo con il quale i vecchi professionisti lasciavano lo studio ai loro collaboratori, perpetuando le conoscenze e le esperienze (e tramandando la biblioteca!).
So di molti tra i migliori e più esperti avvocati milanesi che trasferiscono lo studio in locali più economici in periferia, oppure si ritirano in casa. Nel frattempo un esercito di giovani laureati armati solo di telefonino e di un portatile (e totalmente privi di libri, tanto c’è tutto su internet…) si propongono per qualsiasi lavoro a prezzi di saldo.
Migliaia di segretarie e di collaboratori laureati, mediamente più qualificati dei dipendenti di grandi aziende o di quelli pubblici, si sono trovati senza lavoro: quelli più giovani riescono ad arrabattarsi, per quelli di mezza età la situazione è drammatica.
Nessuno ne parla, nessuno protesta, tutti i colleghi si ritirano dignitosamente in buon ordine e fanno finta che nulla sia successo, come se pensassero di avere una qualche responsabilità nell’accaduto. (E come no? Sono ottocenteschi, sono corporativi, non hanno “riformato” la professione…. E poi sono evasori! Come se le società private gravate di tasse o gli enti pubblici fossero disposti a pagare in nero…).
In questo modo ingenti patrimoni di conoscenze e di esperienza, di alta cultura e di capacità prati-che, vanno perduti. In gran parte non saranno più ricostruibili.
Non bisogna sottovalutare l’importanza della classe professionale, in essa stanno le conoscenze più avanzate e più approfondite, le capacità di innovazione.
Nel mio campo, l’urbanistica, operando come professore universitario e come professionista, – a malincuore – non posso assegnare all’università il primato della ricerca e dell’innovazione, bensì all’attività professionale. Soprattutto negli ultimi anni, quando l’università si è allineata alle tesi mainstream internazionali, perdendo totalmente la capacità di penetrare i problemi, e da quando chi faceva lavoro professionale è stato emarginato dalle università. Oggi le facoltà di architettura hanno docenti che non hanno mai progettato e costruito nulla, mai fatto un piano regolatore, ma in compenso hanno scritto libri (e paper con pirreviù, n.d.C.n.), per lo più inutili, che per il Ministero sono l’unico elemento di giudizio, anche per la didattica.
Sono stati i vecchi architetti milanesi, capaci di stare in falegnameria o in officina per studiare i prototipi, a provocare il grande successo del design italiano, oltre all’imprenditorialità dei piccoli industriali.
Sono stati i consulenti delle piccole aziende meccaniche, gli ingegneri che facevano i calcoli, che inventavano i progetti o che trasformavano in progetti realizzabili le idee innovative degli imprenditori, quelli che hanno accompagnato lo sviluppo della piccola e media industria.
Sono gli avvocati che costruiscono la giurisprudenza, provocando le sentenze innovative quando si avventurano fuori dal mainstream delle opinioni correnti.
La perdita di questa classe provocherà una ferita nella società italiana molto più profonda di quanto si possa oggi immaginare.
Gli operai si possono rimpiazzare, richiedono una formazione relativamente breve, gli artigiani richiedono una formazione lunga e complessa ma si stanno già in parte riproducendo tramite gli apprendisti extracomunitari, nuovi imprenditori in Italia nascono di continuo, ma riprodurre le competenze professionali è assai più difficile e talora impossibile.
La crisi è talmente profonda che a Milano hanno ormai chiuso anche i negozi di abbigliamento, quelli con prodotti di buona qualità ma non griffati, da cui il ceto professionale si riforniva.
Qualcuno direbbe: “è la modernità, bellezza…”, un mondo scompare e viene sostituito da un altro conforme alla civiltà ed alle tecnologie avanzate.
Ma siamo sicuri che sia così? Nella mia esperienza di altri paesi questo non succede.
Temo che, piuttosto che un’evoluzione di civiltà, questa sia la conseguenza di scelte scellerate, di decisioni prese sotto la spinta di opinioni veicolate dagli organi di (dis)informazione, ma prive della necessaria visione e della valutazione delle conseguenze.
Scelte che precedono l’adozione dell’euro, generate dal moralismo imperante dopo il ’92 e successivamente anche da una ridotta capacità dei politici di individuare e bloccare il lavoro delle lobby, o una ridotta capacità di resistere alle lusinghe.
Ma l’euro, poi, ha trasformato il dramma in tragedia.
La vicenda dell’euro da Lei incontrovertibilmente delineata mi conferma in questa convinzione.
Non mi attendo una risposta e soprattutto non la pubblicazione di questo mio scritto.
Nella denegata ipotesi che lo volesse pubblicare (fortunatamente la lunghezza gioca in mio favore) ho buone e concrete ragioni per chiederLe di omettere il mio nome.
Attendo il Suo prossimo libro.
John Smith
Conclusione
Le chiavi di lettura di questo testo sono molte. Ve ne propongo una, quella che ho evidenziato nel testo. Unendo i puntini, dalle frasi in grassetto emerge nitida la situazione che questa mattina ho stigmatizzato su Twitter con queste parole non sufficientemente severe, ma assolutamente giuste: i giornalisti sono i kapò del regime in cui viviamo, regime collaborazionista al servizio di potenze occupanti che ci hanno dichiarato una guerra non solo metaforica. Se i colleghi del professionista che qui si esprime accettano passivamente lo svilimento del loro ruolo, e quindi, di riflesso, la depauperazione di un patrimonio di conoscenze che colpirà gravemente tutta la comunità nazionale, ciò dipende in parte dalla loro incapacità di coordinarsi, e dalla naturale tendenza, in una situazione di crisi generalizzata, a profittare della crisi del concorrente, invece di interrogarsi sulle sue cause, ma in una parte molto più ampia dal fatto che il racconto della crisi è stato affidato ai kapò, cioè ai giornalisti, che hanno con crudele precisione portato a termine il compito che era stato loro affidato: umiliare, vessare le vittime del regime, per frantumarne la capacità di resistenza, demoralizzandole e inculcando in loro un senso di colpa che non aveva ragione di essere, e attizzando contro di loro l’odio della collettività nazionale. Non ho parole per riprovare questa professione, che ha messo gli italiani l’uno contro l’altro, talora perché al soldo di interessi stranieri, ma più spesso, il che ai miei occhi è ancora peggio, per mero conformismo.
I media sono il vero nemico della democrazia. Questa vicenda lo chiarisce tanto quanto quella, più recente e attuale, dei migranti. La democrazia viene inquinata diffondendo non solo notizie false (quante ne abbiamo smascherate in questo blog!), ma soprattutto categorie false. Fare di ogni architetto un evasore, o fare di ogni clandestino un naufrago (che il diritto della naviazione obbliga a portare dallo stretto di Bering a Catania), significa dichiarare guerra non solo al buon senso, ma a un intero popolo.
Mi direte: anche fare di ogni giornalista un kapò è una uguale forzatura.
Sono d’accordo, ma vi sfugge un dettaglio: siamo in una guerra nella quale non siamo gli aggressori, ma gli aggrediti, e non abbiamo scelto noi il terreno dello scontro, ma lo ha scelto l’aggressore. L’aggressore ha scelto di combattere costringendo ogni architetto a vergognarsi di essere architetto, e ogni italiano a vergognarsi di essere italiano. Perderà, quindi, quando ogni giornalista dovrà vergognarsi di essere giornalista, cioè quando subirà la sorte che, se non lui, i colleghi dai quali non si è distanziato hanno voluto riservarci. Le guerre funzionano così.
“Come me sòni te canto” non sarà una massima gandhiana, ma è una massima efficace. Dobbiamo sapere chi è il nostro nemico di classe, e in questo momento, per i motivi che ho chiarito su Micromega, il nostro nemico prossimo è il sistema dei media. Questa riflessione vuole essere anche costruttiva. Esattamente come noi non siamo quelli che pensano che tutto si risolva uscendo dall’euro (nonostante i kapò continuino a banalizzare il nostro pensiero in questo modo, nell’attesa di intestarselo), e la pubblicazione di questo scritto lo dimostra, così non stiamo suggerendo che un rogo dei giornalisti risolverebbe il problema. Tuttavia, è indubbio che finché non si risolverà in un modo o nell’altro il problema del pluralismo dell’informazione, qualsiasi farfugliamento sulla democrazia resterà meramente cosmetico e fine a se stesso. Anche qui, credo che tornare all’antico sarebbe un progresso. Un potenziamento del servizio pubblico (accompagnato da un ragionevole frazionamento dei monopoli privati), soprattutto in un contesto in cui si tornasse da un maggioritario meramente esornativo, foglia di fico del partito unico della finanza, a un sistema proporzionale, capace di dare voce a una pluralità vera di istanze politiche, sarebbe un primo passo in questo senso.
In alternativa, visto che ai giornalisti piace tanto il mercato per noi, propongo la soluzione d’angolo: il mercato per loro.
Smettiamola di finanziarli con le nostre imposte perché ci insultino, magari diamo anche qualche foglio di via a corrispondenti di testate straniere un po’ troppo maleducati, e poi vinca il migliore.
Se la veridicità dei fatti riportati e la potenza della parola fossero gli unici giudici del merito, in Italia ci sarebbe un unico organo di informazione, e se siete qui è appunto perché sapete qual è.
(…si apra la discussione sui tanti altri temi che la lettera del nostro amico solleva. Lo ringrazio per essersi accorto del fatto che la mia attenzione alla società italiana non è quella dei kapò: è un po’ più articolata…)
fonte: http://goofynomics.blogspot.it/2017/07/le-professioni-liberali-allepoca-dei.html
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