Il Fronte Sovranista Italiano e la scuola pubblica italiana (1a parte)
di PAOLO DI REMIGIO (FSI Teramo)
1. Ciò che resta della scuola pubblica è uno dei risultati del programma di trasformazione sociale perseguito con lungimirante tenacia e studiata lentezza dalle oligarchie liberali anglosassoni: a partire dagli anni ’80, esse hanno riavviato la guerra fredda contro l’URSS e in un decennio l’hanno spinta al tracollo; poi hanno imposto in tutto il mondo le liberalizzazioni, cioè l’abolizione delle leggi (lacci e laccioli) che frenavano l’iniziativa economica, e le privatizzazioni, cioè l’acquisizione dei beni pubblici da parte dei monopolisti privati. L’emarginazione dello Stato dall’economia che ha reso onnipotenti le grandi concentrazioni capitalistiche transnazionali è indicata con il nome asettico di globalizzazione.
Soppresse le regole con cui gli Stati regolavano il mercato così da attutirne le asimmetrie e le disfunzioni, i capitali si sono precipitati dove il costo del lavoro era più basso; chiuse le aziende in Occidente e riaperte in Oriente, incoraggiata l’immigrazione dei lavoratori dal Meridione, i lavoratori relativamente garantiti in Occidente sono stati esposti alla concorrenza di quelli non garantiti in Oriente; la disoccupazione montante cancellando la loro forza contrattuale li ha condannati alla precarietà e al pauperismo.
In Europa artefici della globalizzazione sono state le burocrazie della UE. Nel documento del Fronte Sovranista Italiano dedicato alla scuola è riportata una dichiarazione della Commissione Europea secondo cui «la UE si trova di fronte a una svolta formidabile indotta dalla mondializzazione e dalle sfide relative a un’economia fondata sulla conoscenza». Si noti come la globalizzazione appaia qui non come un programma di un soggetto politico, non come storia, ma come una fase storico-filosofica, a cui non resta che adeguarsi. Si noti ancora l’oscurità del carattere della nuova fase: ‘economia fondata sulla conoscenza’. In realtà l’economia è sempre fondata sulla conoscenza: in ogni caso raccogliere, cacciare, produrre consistono nell’applicare tecniche e le tecniche implicano la disponibilità di conoscenze.
Il contesto della delocalizzazione produttiva suggerisce il significato nascosto di questa espressione impropria: poiché la tecnica si divide in una fase ideativa e in una applicativa, in un sapere e in un fare, l’espressione rivela l’intenzione di mantenere in Occidente il sapere e di dislocare in Oriente il fare. La frase successiva, per cui l’Europa deve diventare «l’economia della conoscenza più competitiva e dinamica del mondo, capace di una crescita economica duratura», intesa in riferimento esterno al mondo, oltre a denunciare la velleità imperialistica della UE, le attribuisce la volontà di un’asimmetria anziché l’obiettivo dell’equilibrio generale; ma l’asimmetria economica, lungi dal poter consentire la desiderata crescita duratura, induce le amarissime crisi. Intesa in riferimento interno, la frase annuncia la volontà di scatenare una concorrenza tra i lavoratori che producono conoscenza, per abbassare i costi delle loro retribuzioni, così da aumentare i profitti.
La scuola deve provvedere al capillare assoggettamento al capitale dei lavoratori della conoscenza, così da perfezionare la proletarizzazione del ceto medio di cui sono parte. Applicata alla scuola, la retorica dell’economia della conoscenza provoca però una contraddizione non meno grave dell’attendersi la crescita duratura dall’intensificazione della competitività.
La scuola funzionale all’economia della conoscenza dovrebbe essere più licealizzata e meno professionalizzante, orientarsi, anziché all’applicazione particolare, alla teoria generale; è il generale infatti, in virtù della sua astrazione dal particolare, ad essere flessibile e applicabile ai più differenti ambiti empirici; dunque più grammatica per facilitare l’apprendimento delle lingue e procurare agilità logica, più matematica per sviluppare le capacità di astrazione e di rigore dimostrativo, più storia per sviluppare il senso della complessità, più filosofia per sviluppare il senso critico.
Nulla di tutto ciò. Ignorando il significato di ciò che dichiara, la Commissione europea pretende che il ruolo della scuola sia quello di «dare la priorità allo sviluppo delle competenze professionali e sociali, per un migliore adattamento dei lavoratori alle evoluzioni del mercato del lavoro (CEE 1997)». Una pretesa contraddittoria: se il mercato del lavoro si evolve, se ogni tecnica particolare diventa subito obsoleta ed è sostituita da un’altra tecnica particolare, è necessario insegnare meno tecniche particolari professionalizzanti condannate all’effimero, e più principi generali che restano stabili nell’evolversi della tecnologia: meno tornio, meno fresa, più matematica, più fisica, meno competenze concrete (professionali e sociali), più competenze universali, valide cioè in ogni situazione.
La UE vuole intelligenze flessibili, cioè universali, ma vuole educare i giovani europei irrigidendoli al particolare. La confusione aumenta al summit di Lisbona del marzo 2000. Racconta il documento FSI che vi «si invocano competenze di base relative alla tecnologia dell’informazione, alla comunicazione nella lingua madre e nelle lingue straniere, e una cultura tecnologica, allo spirito d’impresa e alle attitudini sociali e si precisa che non si tratta di discipline come le abbiamo conosciute a scuola, bensì di ‘vasti domini di conoscenze e di competenze, tutti interdisciplinari’».
L’idea, in verità piuttosto totalitaria, è che ogni alunno deve diventare un imprenditore. Di quale forza lavoro? È ovvio: di quella del terzo mondo in cui è emigrato il fare. Ma è un errore credere che le capacità interdisciplinari possano essere conseguite prima e indipendentemente dalle capacità disciplinari, che in didattica la sintesi possa precedere le analisi. Saltare gli aridi elementi iniziali per affrettarsi al rigoglioso risultato definisce l’impazienza che impedisce l’apprendimento autentico e genera il dilettantismo improduttivo e imitativo.
Questo mettere il carro davanti ai buoi, questo volere il fine ultimo rifiutando i fini intermedi che ne sono i mezzi indispensabili manifesta il liberalismo dilettantesco di ogni riforma della scuola ispirata dalla UE – un po’ come la stessa UE che impone alle economie europee il fine ultimo dell’unione monetaria prima del fine intermedio della loro convergenza, provocandone proprio per questo una disastrosa divergenza: nell’uno e nell’altro caso si è di fronte a dilettanti che mettono a repentaglio tutto ciò che toccano con le loro manacce maldestre.
Si vogliono gli obiettivi tipici dell’educazione superiore: adattabilità, flessibilità, formazione permanente (chi aveva studiato nel liceo classico di una volta frequentava con successo ingegneria non meno di chi aveva studiato all’istituto tecnico – perché sapeva studiare), si raccomanda il mezzo loro contrario della professionalizzazione, che induce rigidità, esecutività, refrattarietà alla formazione continua.
Dietro questa contraddizione si agitano più pensieri latenti. C’è innanzitutto la grettezza del liberalismo come ideologia del grande capitale che rifugge dagli investimenti a lungo e a lunghissimo termine, perché ai loro pericoli preferisce i facili guadagni di borsa o quelli sicuri di monopolio.
La formazione teorica e la scienza sono molto più di un investimento: non servono a fare soldi, anzi, il rapporto giusto è che il fine ultimo della vita activa è la vita contemplativa e che questa vada garantita innanzitutto per se stessa e solo secondariamente perché fornisce i mezzi del progresso della vita activa. Poiché sono al di là di ciò che si chiama ‘razionalità’ economica, cioè della cieca avidità, e sono da sempre il frutto della cultura interdisciplinare che Aristotele chiamava σχολή e i latini otium, la scienza e la teoria sono sempre state obiettivi dello Stato.
Il liberalismo, orientato all’accumulazione della ricchezza, è talmente lontano dalla vita contemplativa da calunniarla come improduttiva quando vi si imbatte; viceversa, quando senza rendersene conto la raccomanda, la irrigidisce in una disciplina particolare insegnabile direttamente e in alternativa alle altre; così l’interdisciplinarità di cui parla la Commissione Europea, come disciplina da insegnare prima e in sostituzione delle discipline, è la sapienza dell’insipiente, il dilettantismo in cui si risolve da sempre l’essenza della didattica liberale.
Dietro la contraddizione di cogliere il frutto dell’interdisciplinarità senza arrampicarsi sui rami delle discipline, dietro l’ipocrisia di una didattica che promette altissimi obiettivi evitando la fatica dell’apprendere, riducendo quindi la scuola a paese dei balocchi, c’è però un secondo pensiero latente, propriamente un interesse. Il liberalismo consiste nel liberalizzare e nel privatizzare l’attività economica; liberalizzare significa abolire le leggi che frenano l’iniziativa del privato; ma le leggi sono il contenuto proprio della scienza; liberalizzare l’istruzione equivale dunque ad espellere la scienza dalla scuola, a umiliarla culturalmente e a sottometterla alla soggettività privata.
Poiché privatizzare significa invece cedere una funzione pubblica ai privati così che sia finalizzata al loro profitto, ne segue che l’umiliazione del rigore scientifico della scuola pubblica tramite la sua liberalizzazione, annullandola come scuola e trasformandola in ospizio, stronca un agguerritissimo concorrente della scuola privata e permette di privatizzare l’istruzione. Con la distruzione scientifica e culturale della scuola pubblica il bisogno di istruzione di qualità è infatti costretto a trasformarsi in domanda solvibile, che genera a sua volta la relativa offerta e la relativa possibilità di profitto.
La liberalizzazione della scuola, la cosiddetta autonomia, ha lasciato sbizzarrire lo sperimentalismo didattico più dilettantesco perché l’esito peggiore, il suo fallimento e il determinarsi di una situazione di sconsolato degrado culturale, era in fondo l’esito sperato, quello più in armonia con l’utopia liberale di una società in cui ogni attività pubblica è privatizzata.
Poiché il fine ultimo dell’intervento liberale era il divaricarsi della scuola tra un’istruzione pubblica umiliata e un’istruzione privata d’eccellenza, il modello di ogni riforma scolastica è stato trovato nella scuola anglosassone, che da sempre è divisa in miserevoli scuole di stato e in costosissime public school, fonte di profitto per chi vi investe e di interessi per le banche che finanziano le famiglie del ceto medio che vi iscrivono i figli.
[continua]
Scuola come ASILO, PROGETTIFICIO, OSPEDALE, PARCO GIOCHI… I suoi slogan portanti “Accoglienza”, “no alla selezione”, “vietato vietare”…; i docenti-badanti-sorveglianti ne sono pubblici esecutori, sotto la “sorveglianza” di alunni – genitori – presidi.
Marcuse, idolo del ’68, deplorava che il sistema assicurasse alle masse della periferia la sicurezza materiale riducendole però ad un ottuso meccanismo, mentre sulle masse periferiche scatenasse la violenza del neocolonialismo. Don Milani, altro idolo del ’68, lamentava che la scuola pubblica del suo tempo valutasse senza insegnare. Le soluzioni adottate dalle oligarchie PER MEZZO degli ex sessantottini cresciuti e redenti sono state da una parte la diffusione della precarietà di massa continuando a scatenare la violenza neocoloniale e dall’altra la fine della valutazione continuando a non insegnare. A chi non ha sarà tolto anche il poco che ha.