Il leader che andava di fretta
di CARLO CLERICETTI
Il leader che andava di fretta ha scalato rapidamente il potere e altrettanto velocemente si è incamminato sul viale del tramonto. L’establishment che lo aveva acclamato e coccolato non si fida più, ha capito che Renzi pensa prima di tutto a se stesso e poi eventualmente a tutto il resto. D’altronde buona parte del lavoro sporco è stato fatto – lavoro, pensioni, Sblocca-Italia – e solo le riforme istituzionali “modello JP Morgan” non sono passate. Meglio, ora, uno che mantenga un profilo più discreto, uno come Gentiloni, per dire.
Renzi, nonostante il consenso (quasi) bulgaro nel suo partito, oggi non è affatto forte nel paese e ha una sola speranza di rimonta: un buon successo alle prossime elezioni. Ed ecco dunque i primi fuochi d’artificio della campagna elettorale: basta col Fiscal compact e 30 miliardi l’anno per cinque anni da destinare in massima parte a riduzioni delle tasse e distribuzione di soldi. Poi, siccome bisogna fare almeno finta di non essere solo uno spendaccione, ritira fuori la vecchia idea di un fondo per valorizzare il patrimonio pubblico.
Immediati strali gli arrivano non solo da Bersani (“È la classica ricetta di tutte le destre”, e in effetti è vero), ma anche da casa sua, dal giovane e rampante ministro Carlo Calenda. Quei soldi sarebbero più produttivi destinandoli agli investimenti, dice Calenda, tranne una parte per sostenere chi è più in difficoltà; e sentita così sembrerebbe una critica di tipo keynesiano, ma è lecito dubitare che lo sia. Keynesiani sarebbero investimenti pubblici, ma è più probabile che il ministro pensi ad agevolazioni che spingano gli investimenti privati, sul tipo degli ammortamenti super e iper: non è la stessa cosa, l’investimento pubblico manda di sicuro soldi nell’economia, i privati li puoi stimolare, ma non è detto che poi investano o investano abbastanza, specie se la domanda complessiva rimane fiacca. Zuccherini finali, un paio di accenni alla necessità di procedere con le privatizzazioni e al problema del debito pubblico.
Chissà, se Renzi perderà la sua scommessa potrebbe essere lui il surrogato italiano di Macron. È un buon rappresentante della destra moderna e post-democratica. Si è battuto come un leone per il Ttip, il famigerato trattato Usa-Ue che per fortuna ora è in stallo (ma non è detto che sia defunto), e poi perché il Ceta, il fratello minore Ue-Canada, passasse senza dover essere approvato dai Parlamenti nazionali. Per ora ha perso, ma ha fatto vedere di che pasta è fatto, ed è sicuramente una pasta che piace a all’establishment europeo.
Gentiloni comunque non è affatto fuori gioco ne’ ci si sente, come fanno capire le notizie di cui ha parlato Repubblica qualche giorno fa sul piano di sgravi contributivi da 7 miliardi che dovrebbe sostituire gli incentivi alle assunzioni che scadono a fine anno, cosa che fa temere un’ondata di licenziamenti. Ma ci sarebbe anche un altro piano, preparato dal dipartimento delle Finanze (l’ex ministero, confluito nell’Economia insieme a Tesoro e Bilancio) e già consegnato al ministro Padoan. Non punta su sgravi temporanei, ma su una riduzione strutturale del cuneo fiscale. Costa di più, 11 miliardi, che sarebbero distribuiti in modo da ridurre 4 punti alle imprese e uno e mezzo ai lavoratori. Bisogna dire che tra i modi di ridurre le tasse alle imprese e il costo del lavoro, questo non sarebbe tra i peggiori.
Bisognerà vedere che cosa sceglierà Padoan, o, in alternativa, quale ipotesi sarà pressato a scegliere. Il ministro dell’Economia è fatto della stessa pasta di Draghi. Persone tecnicamente preparate, che capiscono i problemi, ma spesso non agiscono di conseguenza, perché il potere politico a cui fanno riferimento impone cose diverse. In questi due casi è un guaio, perché avrebbero fatto senz’altro meglio di quello che la politica neo-ordo-liberista ha imposto all’Europa e all’Italia (a cui noi abbiamo aggiunto l’incompetenza di Renzi e dei suoi consiglieri). Ma d’altronde non si può invocare il primato della politica sulla tecnocrazia e poi lamentarsi di questo fatto. Sta agli elettori scegliere politici diversi. Diciamo però che finora Draghi si è dimostrato assai più abile dal punto di vista politico, perché alla fine su alcune decisioni cruciali ha saputo convincere i politici che contano (leggasi Merkel).
Padoan ha posto per tempo a Bruxelles il problema del metodo sballato usato dalla Commissione per calcolare il Pil potenziale, che ci ha imposto ancora più austerità, ma, ammesso e non concesso che esista un metodo corretto, ci hanno lasciato cantare (come sul bail in, i salvataggi bancari, ecc.). È anche vero che, visto come è stata usata la “flessibilità” ottenuta da Renzi, forse quel fatto ha evitato ulteriori sprechi. Insomma, Draghi è riuscito a convincere Merkel su alcune cose importanti, Padoan con Renzi non c’è l’ha fatta.
La campagna elettorale si annuncia accesa e costellata di promesse mirabolanti. Se Renzi manterrà il suo veto al Fiscal compact farà una delle poche cose buone della sua carriera politica. Si spera che non sia un’opposizione strumentale, da scambiare alla fine con il permesso di distribuire qualche mancia in più. Di austerità si muore, ma di soldi ne abbiamo già sprecati troppi.
fonte: http://clericetti.blogautore.repubblica.it/2017/07/11/il-leader-che-andava-di-fretta/
Commenti recenti