Storia dell’Unione Europea, 2016-2026. III Parte: il declino dell’impero americano (1)
di PIER PAOLO DAL MONTE
L’Unione Europea, ovviamente, non era una sorta di sistema autopoietico, sospeso in un vacuumplanetario, ma era inserita in un sistema di relazioni internazionali (che sarebbe più opportuno definire “rapporti di forza internazionali”).
Non possiamo quindi evitare di fare questa lunga digressione per parlare di alcuni fatti che si riguardarono la potenza egemone, gli Stati Uniti, che influenzarono fortemente la politica e i destini del vecchio continente.
Alla svolta del millennio già si poteva comprendere che gli Stati Uniti erano una potenza egemone giunta alla fase di declino, che cercava di mantenere la propria supremazia con la più classica delle tecniche, il divide et impera, ovvero promuovendo l’instabilità in diverse aree del globo, ovvero perseguendo quello che fu definito, da alcuni, “caos sistemico”[1].
Il Medio Oriente era uno dei loci al centro di questa strategia.
L’invasione americana dell’Iraq, col successivo annientamento del paese, aveva provocato un disordinato stato di guerriglia endemica che aveva, man mano, contaminato gran parte della regione. In quello stato di disordine prosperarono diverse bande di tagliagole che, alla fine, si raccolsero sotto l’egida del fanatismo religioso, dando vita al famigerato “Stato Islamico di Iraq e del Levante” (ISIL), anche noto come “Stato Islamico di Iraq e Siria” (ISIS). Tale formazione fu, in gran parte, uno strumento promosso e finanziato dagli Stati Uniti e da altri stati del Golfo (specialmente Arabia Saudita, Emirati Arabi e Qatar) per spezzare l’integrità territoriale dell’Iraq, secondo linee di faglia etnico-religiose,[2] e per rovesciare il governo siriano, storico alleato della Russia, la cui importanza geopolitica stava rinascendo, non solo per propri meriti, ma grazie anche all’inettitudine e alla protervia degli Stati Uniti. Questa rinascita si appalesò nel conflitto siriano, e fece fallire i piani dell’amministrazione Obama per rovesciare il governo di Assad attraverso l’intervento delle milizie dello “Stato Islamico”, ben finanziate da Washington e dai suoi alleati del Golfo.
L’intervento militare della Russia vanificò questi tentativi e, alla fine, dopo molte sofferenze, innumerevoli perdite di vite umane e un ingente esodo di profughi verso la Turchia e l’Europa, il governo siriano riuscì , pian piano, a rovesciare la situazione.
Uno degli eventi che condussero ad una “svolta” nel conflitto, si verificò circa tre settimane dopo che il referendum inglese aveva deciso l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea, e fu un accadimento destinato a cambiare gli equilibri della regione mediorientale.
Stiamo parlando dello “strano” tentativo di colpo di stato in Turchia del Luglio del 2016. La Turchia era l’asse portante della NATO nell’area ed uno dei più accesi sostenitori delle milizie che si opponevano al governo siriano e, anche se non ufficialmente (come gli Stati Uniti, del resto), dei tagliagole dell’ISIS.
Nel corso di quel mancato golpe, l’allora presidente in carica, Erdogan, si salvò “per il rotto della cuffia”, grazie anche alle informazioni fornitegli dai servizi segreti di Mosca (e, si dice, addirittura per un intervento diretto delle forze speciali russe).
Il disappunto col quale la notizia del fallimento del colpo di stato venne accolta da diversi esponenti dell’establishment americano[3], fece sorgere più di qualche sospetto circa il coinvolgimento degli USA nell’organizzazione del golpe. Ad ogni modo, il risultato di ciò, fu un notevole avvicinamento del governo turco alla Russia, dopo mesi di forti tensioni[4] e, di conseguenza una minore ostilità verso il governo di Damasco (almeno apparentemente). Di fatto, la Turchia smise di sostenere, in maniera palese, i tagliagole del sedicente “stato islamico”.
Naturalmente questo mutamento di direzione fu alquanto sgradito agli Sati Uniti e ai suoi alleati del Golfo, perché era destinato ad compromettere i loro piani per la regione. Infatti, dopo pochi mesi, l’esercito siriano, con l’aiuto dei russi, riuscì a liberare Aleppo e a riconquistare gran parte del territorio che era in mano ai tagliagole di cui sopra.
Naturalmente, vi sarebbe tanto altro da dire su quel tragico conflitto, ma questo ci porterebbe troppo lontano dai fatti che ci siamo proposti di narrare. Ci basti averne accennato, per sottolineare le crescenti difficoltà degli USA nel mantenere il duplice ruolo di poliziotto e brigante mondiale, ovvero di seminatore di caos e tutore dell’ordine. Queste difficoltà erano uno dei segni del declino di quell’egemonia che era stata indiscussa sino a qualche anno prima.
Ci trasferiremo, quindi, dal Medio Oriente a Washington, anche se questo viaggio ci porterà ancor più lontano dalle vicende europee. Tuttavia i fatti che riguardano la potenza egemone, riguardano tutto il mondo e, in particolare, per quel che ci interessa in questa sede, i suoi stati vassalli del vecchio continente e, nella fattispecie, della costruzione europea, che fu, almeno ai suoi esordi, nel dopoguerra, creazione americana[5].
Senza dubbio, l’evento più significativo di quel 2016, così gravido di eventi, fu l’elezione presidenziale americana che si svolse nel novembre di quell’anno, nella quale ottenne la vittoria un vero e proprio “cigno nero”, la cui affermazione non era stata prevista (né, tantomeno, auspicata) dai vari e sedicenti “analisti”, “sondaggisti” e giornalisti (tutte categorie che fanno rima con quella degli “onanisti”), ovvero il candidato repubblicano Donald Trump. Quell’elezione fu il tipico esempio –e piuttosto eclatante- di come, assai spesso, le previsioni si confondano con le speranze. I vari e sedicenti “analisti”, “sondaggisti”, giornalisti e onanisti (questi ultimi sotto forma di “intellettuali” organici al potere, guitti, cinematografari e canzonettisti vari), di cui sopra, speravano che il futuro vincitore non vincesse, e gabellarono quelle speranze per previsioni.
Il trionfo di Trump scatenò variopinte manifestazioni di piazza che videro la partecipazione di innumerevoli anime belle intossicate dall’ideologia del “politicamente corretto” (aedi prezzolati o indottrinati dal complesso militar-finanziario-globalista-neoliberale, che puntava sull’elezione della psicopatica Hillary Clinton), nelle quali si assistette a numerose scene di pubblica disperazione e di ira scomposta nei confronti del tycoon dal pel di carota.
Era la strana democrazia dei “democratici”, che si era già vista all’opera in occasione della Brexit, secondo la quale gli unici esiti elettorali legittimi erano quelli che decretavano la vittoria del proprio candidato preferito (o del risultato preferito).
Gli analisti-sondaggisti-onanisti. di cui sopra, si esercitarono, quindi, in sproloquianti vaticini circa il corso della presidenza di Trump, preannunciando catastrofi. Certo, bisogna riconoscere che il nuovo presidente era assai diverso dal suo predecessore, Barack Obama, epitome del politicamente corretto e tentativo ben riuscito da parte delle oligarchie globaliste neoliberali di porre sul trono dell’impero centrale un proprio fantoccio. All’epoca della sua elezione (parliamo del 2008) era necessario uno specchietto per le allodole, un candidato che fosse apparentemente “di rottura” per attirare un elettorato piuttosto provato dalle fallimentari e costosissime imprese della simpatica triade Bush-Cheney-Rumsfeld, nonchè dalla crisi infinita che attanagliava gli Stati Uniti, e che aveva spazzato via buona parte della classe media (arricchendo però i ricchi).
Il candidato “bello, giovane e abbronzato” fu un vero e proprio capolavoro di manipolazione delle masse: si adoperò un argomento che era razzista nella sua sostanza, ovvero il mito del “buon selvaggio”, per propagandare la “bontà ontologica” del presidente afro-americano, rispetto alla “malvagità” dei “bianchi cattivi” che l’avevano preceduto, che avevano seminato morte e distruzione in tutto il mondo (e crisi in casa propria).
L’argomentazione, implicitamente, suonava, più o meno, così: «poiché un afro-americano fa parte di una minoranza oppressa e sfruttata è, per ciò stesso, ontologicamente innocente e quindi buono. Inoltre, la sua elezione a presidente, non solo rappresenta un segno di riscatto per tutte le minoranze oppresse e sfruttate (che, nella fattispecie, erano maggioranza, visto che, da che mondo è mondo, gli “sfruttati” sono sempre più numerosi degli “sfruttatori”) ma, sicuramente, porterà portato all’ affrancamento degli oppressi e degli sfruttati»
Questo messaggio subliminale, fu, a tal punto, introiettato dall’opinione pubblica di tutto il mondo che nessuno ebbe a lamentarsi quando quest’ontologica bontà fu sancita ufficialmente con un premio Nobel per la Pace “alla fiducia”, ovvero prima ancora che vi fosse stato, per costui, il tempo di fare alcunché.
Naturalmente, questa presunzione di “bontà primigenia” si rivelò alquanto fallacce, come egli ebbe a dimostrare negli anni successivi. Certo, si comportava con appropriatezza di modi, si dimostrò un abile oratore ed era assai presentabile in società. Tuttavia non fece alcunché per modificare la politica dei precedenti “esportatori di democrazia”, anzi, la sua presidenza condusse ad un peggioramento delle condizioni delle classi medie e di quelle povere in patria, e ad un’intensificazione della strategia di promozione del “caos sistemico” nel resto del mondo, che il “presidente buono” perseguì con protervia. Certamente non mancarono grandi proclami, da parte sua, ma la tecnica di perseguire l’egemonia seminando il caos nel resto del mondo, non cambiò.
Così come non cambiò la politica interna di robin-hoodismo invertito, ovvero l’impoverire i poveri per arricchire i ricchi. All’indomani della crisi finanziaria più devastante dopo quella del ’29, dopo aver salvato un po’ di istituzioni finanziarie sull’orlo della bancarotta (atto, peraltro, doveroso, per evitare il collasso del sistema) che, come d’uso, avevano privatizzato i profitti e socializzato le perdite, la nuova amministrazione americana non fece praticamente nulla di sostanziale per sanzionare i comportamenti fraudolenti che avevano condotto a quella crisi. Non vennero introdotte regolamentazioni efficaci per limitare l’uso di strumenti finanziari di dubbia trasparenza e di elevato rischio (i famosi derivati: CDO, CDS, ecc.) e neppure si cercò di punire i colpevoli, quelle élites finanziarie e bancarie che erano state responsabili della crisi e della susseguente recessione, che aveva provocato un ulteriore impoverimento negli strati più poveri della popolazione, creato masse di senza tetto (a causa dei mutui non pagati), e portato al collasso i fondi pensione che avevano investito negli strumenti promossi dalle istituzioni finanziarie[6]
Tuttavia, quelle istituzioni erano le stesse che avevano
sostenuto l’elezione del “presidente buono”, quello che proveniva da una minoranza oppressa, per dar un contentino alla popolazione americana, impoverita e rabbiosa. E, visto che pecunia non olet, poteva forse quest’ultimo rivolgersi rabbiosa ingratitudine contro la mano che l’aveva generosamente finanziato?
(Continua)
[1] Cfr. Giovanni Arrighi, Beverly Silver, Chaos and Governance in the Modern World System, University of Minnesota Press, Minneapolis 1999;
Samir Amin, Empire of Chaos, Monthly Review Press, New Yourk, 1992
Prem Shankar Jha, The Twilight of the Nation State, Pluto Press, London, 2006
[2] Sciti, sunniti e curdi
[3] Edward Luttwak, Why turkey’s coup d’état failed, Foreign Policy, July 16, 2016
[4] Il cui punto critico fu in cccasione dell’abbattimento di un velivolo militare russo da parte dell’aviazione di Ankara
[5] Cfr.: Jean Monnet, Memoirs, Doubleday & Company, Inc., New York 1978;
Christopher Booker, Richard North, The Great Deception. Can the European Union Survive? , Continnum, London, 2005;
Aldrich, Richard J.(1997), OSS, CIA and European unity: The American committee on United Europe, 1948- 60′,Diplomacy & Statecraft,8:1,184 — 227
[6] Philp Mirowski, Never let a serious crisis go to waste, Verso, London-New York, 2013, p.8
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