La grammatica dell’esistenza
di L’INTELLETTUALE DISSIDENTE (Gabriele Zuppa)
Spesso ci si affligge insensatamente per quanto abbiamo fatto restando immobili dinnanzi a tale afflizione, inermi nell’oscurità dell’ignoranza. E se ciò non accadesse? Se non ci mobilitassimo per porre rimedio a quanto compiuto, a rifare diversamente quanto fatto?
La vanità delle disquisizioni filosofiche appare tale solo ai principianti dell’esistenza, che inferiscono dall’oscura difficoltà degli inizi l’inopportunità dell’impresa. Così il caos nidifica ovunque, anche nel nostro linguaggio ordinario. La semplice grammatica determina prepotentemente il nostro destino. Un condizionale passato contiene tanta metafisica che, esplicitata, un trattato non basterebbe a contenere. Lungo i binari della sintassi sfreccia o deraglia la filosofia di ognuno.
Un avrei potuto condanna il nostro futuro alla croce nella quale i chiodi che ci paralizzano portano ciascuno un nome: rimpianto e rimorso. Ci arrovelliamo su ciò che avremmo potuto fare e non abbiamo fatto, su ciò che, ora, avremmo fatto diversamente. Vorremmo cioè l’impossibile. Infatti, se qualcosa accade ha il proprio perché, ha ragioni determinate da altre ragioni, che formano l’intreccio di una catena che ci immobilizza o l’intreccio di perle che ci glorificano. A ripercorrerlo non c’è mai posto per un avrei potuto, poiché ogni suo elemento ha quella precisa ragione che lo lega agli altri. Proprio il nostro tentativo di comprendere cosa sia accaduto presuppone la ricerca dei perché che fanno svanire ogni avrei potuto. Sulla volta stellata, che splende fuori dalla selva oscura della ricerca di comprensione, si legge: non avresti potuto.
Eppure stiamo a tormentarci e a torturaci su quanto avremmo potuto fare. Perché? Perché ci perdiamo nelle selve oscure nelle quali finiamo, che sono tante quante sono le storie infinite delle vite infinite; ma non abbiamo notato che i contorni metafisici, entro cui il nuovo sopravanza, sono gli stessi. Non sappiamo che nella volta stellata dalle fitte trame trascendentali splenderà sempre la costellazione del non avresti potuto. Non lo sappiamo perché, benché la sua luce mai si affievolisca, non la scorgiamo. Così, invano, esaurendo le nostre energie nell’impossibile, torniamo a pensare a quanto avremmo potuto fare.
Eppure, se la verità ci sfugge, qualche suo potente raggio traspare anche da questo assurdo. Infatti, pensare di aver potuto fare altrimenti può positivamente significare di essere stati ad un passo dal fare altrimenti. Vuol dire: avere nelle corde del proprio animo la possibilità di fare, in circostanze analoghe, altrimenti. Se allora ineluttabilmente si errò, ora, la nuova consapevolezza, ci permette di fare altrimenti. Ecco che quindi, quel pensiero che ci atterrisce, ci consente, se non ancora di spiccare il volo, almeno di alzarci.
E se ciò non accadesse? Se non ci mobilitassimo per porre rimedio a quanto compiuto, a rifare diversamente quanto fatto? Allora finalmente realizzeremmo che quanto volevamo essere, in realtà non siamo; che riempivamo di rimorsi o di rimpianti una vita che non era la nostra, bensì l’astrazione di un ideale, provenutoci da chissà dove, e perseguito perché mai avevamo pensato sufficientemente a noi stessi – passando da ciò che avremmo potuto fare, a ciò che ora finalmente potremmo fare e che non vogliamo più.
Non è grottesco tutto ciò? Così spesso ci si affligge insensatamente per quanto abbiamo fatto; non si scorge che quell’afflizione può solo sensatamente significare che si era prossimi a riuscire a compiere le proprie aspettative, ma ciononostante si resta nell’immobilità dell’afflizione. Mentre, se si intraprendesse qualcosa di nuovo, o si otterrebbe quanto era nelle proprie aspettative o si capirebbe che sulle aspettative ci si era sbagliati. Invece questo processo, certamente qui solo abbozzato, rimane ignoto; perché la metafisica che informa il nostro linguaggio ci confina nel perimetro della sua ignoranza. E l’oscurità nella quale quell’ignoranza avvolge è talmente fitta che fa credere non esista nulla oltre quella oscurità.
Invece al di là splendono eterni gli astri che la cultura postmoderna meno che mai riesce a intravedere. La vanità delle “disquisizioni filosofiche” appare tale solo ai principianti dell’esistenza, che inferiscono dall’oscura difficoltà degli inizi l’inopportunità dell’impresa. Il grossolano e funesto errore di chi, abituato all’oscurità, al primo contatto con la luce del sole, creda renda ciechi.
Fonte: http://www.lintellettualedissidente.it/filosofia/grammatica-esistenza-ignoranza/
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