Il capolavoro di Minniti
di ALESSANDRO GILIOLI
In fondo ha ragione Minniti, il vero presidente del consiglio nonché ministro degli interni e degli esteri di questo governo: in Italia era “a rischio la tenuta sociale e democratica”.
In realtà è da un po’ di tempo che era a rischio. Forse dal 2008, quando è iniziata la crisi che ha gradualmente eroso e incupito gli ex ceti medi; forse dal 2011, quando la speculazione internazionale ci ha legato le mani alle politiche di austerità che danno a pochi e tolgono ai molti; forse dal 2013, quando una confusa ma decisa protesta antisistema è diventata il primo partito tra gli elettori che abitano in Italia; forse dalla primavera del 2016, quando la protesta è arrivata a prendersi – in forme diverse – tre delle quattro maggiori metropoli italiane; forse dalla fine dello stesso anno, quando è scoppiata come una bolla l’epocale promessa di innovazione coraggiosa e di radioso futuro incarnata in quel giovane e ambizioso premier su cui avevano puntato – come terza carta dopo Monti e Letta – le classi dirigenti preoccupate per la suddetta tenuta sociale.
Tutti o quasi sintomi, quelli di cui sopra, s’intende.
Le cause profonde sono prevalentemente altre, alcune internazionali e altre nostrane: l’atomizzazione della società, l’individualismo ipercompetitivo eretto a unico valore, lo sfilacciamento graduale ma inesorabile del welfare, l’esaurirsi delle riserve familiari che avevano tenuto a galla il tutto a mo’ di come supplenza, il furto di speranza e di prospettive per un’intera generazione, insomma la sensazione sempre più diffusa di non essere – appunto – una società, ma un crogiolo di rivalità tra persone e categorie, la maggior parte delle quali sempre più povere, precarie, sole.
Qualcuno per questo se l’è presa con il Web. Che ha tante responsabilità socioeconomiche – come ogni cambiamento strutturale – ma forse esprime l’odio più di quanto non lo crei. Ieri al bar di via Carlo Felice i miei vicini di bancone addentando il cornetto alla crema dicevano che nel palazzo di piazza Indipendenza non si doveva entrare con gli idranti, ma con i lanciafiamme. Non eravamo sul web, eravamo in un bar di Roma, primo municipio, sabato mattina.
A proposito: eccola qua, la “tenuta sociale” ritrovata.
Da due o tre mesi in Italia non si parla che di migranti.
Non c’è più nessun’altra questione: precariato, povertà, licenziamenti, la gente che non sa dove sbattere il cranio per arrivare alla fine del mese, l’età pensionabile che va verso il record mondiale di vecchiezza, i conti dell’Inps che garantiscono agli under 35 una terza età da poveri in un monolocale di borgata, la fuga disperata dei ragazzi all’estero, gli otto mesi per avere una colonscopia in una struttura pubblica che diventano otto ore se estrai la Visa – e così via.
Niente, non c’è più nient’altro, da nessuna parte, solo migranti migranti migranti. Migranti in tivù, sulle radio, sui giornali, nei social, nelle conversazioni al bar. Un pensiero invasivo. Totalmente sproporzionato alla sua portata reale, ma gigantescamente invasivo.
È stato un capolavoro, quello di Minniti. Alla Goebbels, direi: e non per una “reductio ad Hitlerum” – non fraintendete – ma come effetti di potenza persuasiva.
E così abbiamo scampato il rischio della “mancata tenuta sociale” del Paese. Siamo di nuovo una società unita, wow.
Però basata sull’odio, sul pregiudizio, sul razzismo, su una narrazione intimidatoria e – fra l’altro – sulla morte nel deserto di migliaia di esseri umani.
Però unita, caspita, anche politicamente: dall’estrema destra al Pd passando per il Movimento 5 Stelle, dagli editorialisti più compassati d’establishment a quelli che si vantavano ogni giorno di essere contrari a tutto e fuori dal coro.
Abbiamo nascosto i problemi sociali sotto la coltre dell'”emergenza migranti”, come quei generali sudamericani che quando temevano una rivoluzione chiamavano all’orgoglio patrio e dichiaravano guerra uno stato vicino.
Fonte: http://gilioli.blogautore.espresso.repubblica.it/2017/09/03/il-capolavoro-di-minniti/
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