I trattati e l’euro producono il nuovo nazionalismo degli stati
di SINISTRA IN RETE (Domenico Moro)
Relazione all’incontro del 9 settembre a Roma “Unione europea, lavoro, democrazia, Contributi per il programma dell’alternativa”
Spesso le critiche all’Europa e le proposte di uscita dall’euro sono accusate, prima ancora di essere economicamente irrealizzabili, di favorire lo sviluppo del nazionalismo. Eppure, sono proprio i trattati europei e il sistema dell’euro ad aver contribuito in modo determinante allo sviluppo del nazionalismo e della xenofobia a livello di massa per la prima volta dalla fine della seconda guerra mondiale.
Quando parliamo di nazionalismo, però, non bisogna intendere esclusivamente il senso comune diffuso o l’ideologia nazionalistica dei partiti di estrema destra bensì un comportamento concreto – a livello politico e economico – dei singoli stati e dei singoli governi nazionali, che viene poco percepito, perché nascosto dietro una dichiarata ideologia cosmopolita e neoliberista.
Il nazionalismo è il prodotto dei vincoli alla spesa pubblica, dei cambi fissi, e dell’autonomia della banca centrale europea, che hanno non solo accentuato gli effetti negativi della crisi sistemica capitalistica, ma hanno soprattutto creato o aumentato i divari tra stati e economie nazionali. Si è creata una forbice, sempre più larga, tra la Germania, favorita dall’introduzione dell’euro, e la maggior parte dei Paesi Uem, compresi Italia, Spagna e Francia. A essere messi in difficoltà dall’euro sono stati anche paesi che non hanno aderito all’euro, tra i quali in primo luogo il Regno Unito.
L’aumento del divario tra Paesi europei, in particolare quelli appartenenti all’area euro, è testimoniato da vari indicatori. Ne citerò solo alcuni. Tra 1997 e 2016, a prezzi costanti, il Pil pro-capite italiano passa da 25.500 euro a 25.900 (+1,6%), quello tedesco da 27.000 a 34.600 (+28,1%)1.
Un altro indicatore è la formazione di capitale fisso, importante misuratore degli investimenti. Tra 2005 e 2013 mentre la Germania ha aumentato dell’11% il flusso di capitale fisso lordo, l’Italia l’ha diminuito del 23% e la Spagna del 31%2. È abbastanza facile rendersi conto di quanto l’opposto andamento degli investimenti abbia allagato la forbice tra i vari Paesi in termini di domanda, occupazione, innovazione, e capacità produttiva interne.
Infine l’export, forse l’indicatore più significativo. Il saldo del commercio estero di beni e servizi della Germania, un Paese di 80 milioni di abitanti, ha superato in più anni in valore assoluto quello della Cina, la cosiddetta fabbrica del mondo con 1,3 miliardi di abitanti. Nel 2016 il surplus tedesco ha raggiunto i 275 miliardi di dollari contro i 250 miliardi della Cina3. Eppure, fino al 1998, quando si introducono i cambi fissi tra i Paesi destinati a aderire all’euro, la Germania registrava o deficit o surplus commerciali limitati, molto al di sotto di quelli della Francia e soprattutto dell’Italia. Tra 1991 e 2016 il surplus commerciale della Germania è passato dal -0,5% al 7,6% sul Pil4, mentre la Francia e il Regno Unito sono ancora in deficit (rispettivamente con il -1,7 e -1,9%) e l’Italia e la Spagna sono ritornate in surplus solo da pochi anni, ma solamente aderendo al modello tedesco, e a seguito di una cura da cavallo che ha drasticamente ridotto la domanda interna, le importazioni e il costo del lavoro.
La tendenza impressa dall’euro e dai trattati è quella a contrarre la domanda e il mercato domestici puntando su una economia a trazione export (nel 2016 l’export ha pesato sul Pil tedesco quasi per la metà, il 46%), senza curarsi degli squilibri tra Paesi che crea. È proprio la creazione o l’aumento del divario tra paesi europei che, modificando i rapporti di forza a livello di stati e di capitali europei, aumenta l’instabilità e la competizione tra stati nazionali che si scarica a livello internazionale.
Un esempio da manuale è la Francia, economicamente e militarmente sempre più attiva in Medio Oriente e nell’Africa Sub-sahariana, in opposizione diretta all’Italia in Libia (dove è stata determinate nel sostenere la rivolta contro Gheddafi e l’intervento militare occidentale) e in altri Paesi del Nord Africa. Il rinnovato interventismo estero europeo, e la competizione tra stati e capitali dei principali Paesi Ue, è collegata alla decadenza economica e alla contrazione del mercato domestico che spinge verso l’espansione estera, riproducendo, pur in altre forme, meccanismi assimilabili a quelli dell’epoca imperialistica precedente alla Prima guerra mondiale.
Contrariamente a quanto sostenevano gli estensori del manifesto di Ventotene, il nazionalismo oggi non nasce dalla sovranità economica nazionale, allora individuata come nemico principale da combattere mediante l’europeismo. In economie globalizzate e non autarchiche è proprio la crisi della sovranità a incentivare quella competizione che alimenta di nuovo comportamenti aggressivi e nazionalistici da parte degli stati. Ed è l’austerity e il depotenziamento dei meccanismi democratici tradizionali a espellere milioni di europei prima dalla vita lavorativa attiva e conseguentemente dalla partecipazione politica, creando le basi per l’astensionismo, per lo sviluppo di partiti di estrema destra e per la guerra tra poveri – tra indigeni e immigrati – per la spartizione di risorse sempre più scarse.
Ma di quale sovranità stiamo parlando? Non di una generica sovranità nazionale, bensì di una sovranità popolare e democratica, che non può essere in alcun modo confusa con il nazionalismo, tantomeno con quello degli anni ‘30. Infatti, l’Europa non conculca bensì rafforza il potere degli esecutivi nazionali nei confronti del Parlamento, contribuendo a quella trasformazione che Giorgio Agamben ha definito passaggio dalla democrazia parlamentare alla democrazia governamentale5.
Si potrebbe anche definire passaggio alla democrazia oligarchica, con un ossimoro, in quanto i trattati e il sistema dell’euro sono direttamente funzionali alla riorganizzazione dell’accumulazione capitalistica guidata dall’élite industriale e bancaria, non solo tedesca, in una fase storica globalizzata. Sono una leva formidabile per realizzare la compressione del salario e del welfare e l’eliminazione di capacità produttiva ridondante. Soprattutto sono lo strumento fondamentale, ancor più delle leggi elettorali maggioritarie, per bypassare ogni resistenza popolare e sindacale alle controriforme, dalle pensioni al mercato del lavoro.
Il no alla riforma costituzionale è stato certo un risultato importante, ma in realtà il contenuto e la forma stessa della Costituzione sono già ampiamente conculcati dall’Europa e dall’Euro. Non solo l’introduzione del pareggio di bilancio in Costituzione ma in generale i vincoli di bilancio dei trattati e la sottrazione del controllo della moneta al livello nazionale privano la Costituzione di ogni possibilità di attuazione pratica. Dunque, non è possibile pensare, più che a una difesa, a un rilancio realistico della Costituzione se non collegandolo alla lotta contro questa Europa, per il superamento dei trattati e della gabbia dell’euro.
In particolare, come ormai diverse forze politiche di sinistra in tutta Europa hanno ormai preso consapevolezza, dalla France insoumise di Melanchon al Partito comunista spagnolo, non si può prescindere da un cosiddetto piano B, che prenda in considerazione l’uscita dall’euro. L’uscita dall’euro è una condizione necessaria a ristabilire condizioni di lotta praticabili per il lavoro salariato, sebbene non sufficiente. L’uscita dall’euro non risolve certo tutti i problemi, né è facile e indolore da attuare. Ma, continuando così ci si consegna all’impotenza e all’irrilevanza. Semmai il problema è il come e non il se superare la gabbia dell’euro. Su questo andrebbe concentrata l’attenzione.
Oggi, prima di definire alleanze o cartelli elettorali e evitando sia gli errori politicisti del passato sia di concentrarsi su programmi ridotti a inutili liste della spesa, bisogna chiarirsi bene sull’orientamento generale che si vuole assumere. A questo scopo, l’elaborazione di una posizione chiara sulla questione dei trattati e dell’euro è centrale e ineludibile per definire un posizionamento politico complessivamente adeguato alla situazione storica e sociale attuale.
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