di ALESSANDRO GILIOLI
“Allargare” è un verbo di facile significato ma che contiene tante cose diverse.
Giuliano Pisapia l’aveva inteso come una sorta di virtuosa ricucitura di una sinistra (anzi di un centrosinistra, di un Ulivo, di un’Unione etc) che dalla fine del ventennio berlusconiano si era divisa in una continua diaspora.
Una diaspora che era cominciata prima di Renzi (il mio modesto libro con quel titolo era uscito poco dopo la fine del governo Letta): era iniziata cioè alla fine del 2011, quando era stato messo nel ripostiglio delle cose inutili il grande ombrello che aveva tenuto tutti uniti – l’antiberlusconismo, appunto – e così a sinistra si era posto il leggerissimo problema di esistere e proporsi con un’identità propria e con proposte proprie, non più solo come alternativa per fermare l’avversario.
E lì, appunto, erano iniziati i problemi.
Pensate ai tempi di Monti, all’entusiasmo con cui una parte del Pd (quasi tutto) ne accolse le riforme rigidamente ispirate all’austerity volute dalla Troika, fino alla mitica frase «Il mio programma è l’agenda Monti più qualcosa», copyright Pierluigi Bersani. Pensate al fiscal compact e al pareggio di bilancio votati come fossero aspirine. Pensate al caos dopo le elezioni del 2013, ai 101 contro Prodi, alle larghe intese con Berlusconi. Pensate alla diaspora tra chi puntava al reddito minimo e chi invece si ispirava al volumetto ideologico “Il liberismo è di sinistra”. Pensate all’abisso tra Ichino e Landini, insomma, e avete un’idea di come la diaspora stesse deflagrando, ancor prima di Renzi.
Poi è arrivato Renzi e no, le cose non sono migliorate. Per una questione di scelte politiche che hanno ulteriormente diviso (Jobs Act, Buona Scuola, Sblocca Italia, Riforma costituzionale Boschi etc) e – inutile nasconderlo – anche per una certa spocchia che Renzi ha sempre mostrato verso chiunque si collocasse alla sua sinistra – gufi, professoroni, palude, vecchi gettoni telefonici, accozzaglia, fino all’esiziale “Ciaone” del suo fido Ernesto Carbone.
La diaspora è così diventata una profonda frattura politica e anche umana.
Giuliano Pisapia è un frutto riuscito del 2011. Forse il miglior frutto di quella stagione. Di quando cioè la diaspora non era ancora esplosa, anche se stava per.
L’ultimo voto altrettanto unitario e convinto della sinistra arrivò subito dopo, nei referendum su acqua, nucleare, e legittimo impedimento.
Ma era appunto il 2011. La vigilia dell’inizio della diaspora, quando tutte le contraddizioni e le contrapposizioni sarebbero venute a galla.
Il tentativo di Pisapia di ricucire questa frattura che dura da sei anni è stato tanto eroico quanto improbabile. “Contrario alle leggi della fisica”, dice oggi Asor Rosa sul Fatto. Perché le ragioni politiche della frattura erano già potenzialmente profonde prima di Renzi e con Renzi sono esplose fino all’odio personale reciproco.
E qui – anche al netto delle contrapposizioni personali e/o tribali – importano poco le definizioni reciproche , tipo “Renzi è di destra” da una parte o “inutile sinistra tafazziana di testimonianza” dall’altra. Importano invece le cose concrete, quella fatte e quelle non fatte. Di nuovo: il Jobs Act, il demansionamento, il telecontrollo, il boom dei licenziamenti disciplinari, il reddito minimo sì o no, il welfare universale, le scuole pubbliche, i voucher e la regolazione della gig economy, le pensioni (ci avviamo verso l’età pensionabile più alta d’Europa), le imposte di successione (qui invece siamo tra le più basse del mondo), le spese militari, i lager libici voluti da Minniti etc etc.
Insomma, sì: non è facilissimo ricucire chi voleva una cosa e chi il suo contrario, solo perché sette anni fa si era tutti antiberlusconiani.
Non è facile ricucire chi è d’accordo con Piketty e chi con Alesina-Giavazzi. Chi guarda a Corbyn e chi a Macron.
È andata quindi come doveva andare.
E a me personalmente dispiace soprattutto che il confronto-scontro alla fine si sia declinato più su personalismi e battibecchi che non sulle cose concrete di cui sopra, che poi sono quelle veramente scriminanti.
Tuttavia, per fortuna, “allargare” è – come si diceva – un verbo che contiene tante cose diverse.
Può voler dire allargare nel Palazzo a Tabacci, Sanza e magari Boschi e Calenda; oppure può voler dire allargare a quei milioni di italiani che – come in Gran Bretagna, come in Francia, come in Spagna, come negli Stati Uniti – potrebbero essere interessati alle discriminanti sociali di cui sopra: for the many, not the few.
Insomma, a ciò che per pigrizia o tradizione chiamiamo “sinistra”.
Che non è quella cosa che serve “a fermare la destra”, ma a fare cose di sinistra.
fonte: http://gilioli.blogautore.espresso.repubblica.it/2017/10/09/allargare/
Commenti recenti