Storia del giuramento politico
di L’INTELLETTUALE DISSIDENTE (Gabriele Sabetta)
Viaggio attraverso l’evoluzione del giuramento politico: da vincolo solenne e totale a semplice dichiarazione, una reliquia di epoche ormai passate.
L’uomo del tempo presente considera il giuramento come reliquia di epoche ormai superate, quando la parola data costituiva un legame più forte del fuoco. Siamo le prime generazioni che vivono la propria vita collettiva senza avvertire – nonostante la presenza di alcune forme e liturgie del passato – la mancanza del giuramento come vincolo solenne e totale. Con la crisi dello Stato moderno nazionale, geloso custode della sovranità negli ultimi secoli, spogliato di ogni prerogativa da un’economia globalizzata, ci troviamo al principio di nuove esperienze di convivenza, la cui realtà e significato stentiamo ancora a riconoscere. Per ora, queste nuove modalità di associazione sembrano assumere la forma dei rapporti di condominio, un tipo di convivenza in cui ognuno bada ai propri interessi individuali, con l’unica accortezza di rispettare gli spazi comuni e consentire a tutti l’utilizzo dei servizi.
Seguendo le orme tracciate dal professor Paolo Prodi, autore del saggio intitolato Il Sacramento del Potere – pubblicato nel 1992 e riedito quest’anno dal Mulino – vorremmo ripercorrere la parabola del vecchio continente dalla visuale del giuramento come base del patto politico: il modo in cui è stato vissuto, dall’antichità ad oggi, questo solenne richiamo del potere, nelle sue varie manifestazioni, ad una giustificazione meta-politica.
È nell’esperienza della polis greca che assistiamo alla nascita del giuramento come sanzione di un patto garantito da una divinità superiore. Cambiano le modalità di prestazione, secondo i tempi e i luoghi, ma l’istituto resta il perno della comunità politica. Il giuramento accompagna la vita pubblica dei cittadini: anche nei tribunali giurano i giudici, i litiganti, i testimoni; è probabile che se ne sia fatto uso anche nei rapporti di diritto privato. Si tratta della grande fioritura politica che porterà alla teorizzazione aristotelica dell’uomo come animale politico.
Se lo spergiuro, inizialmente, è lasciato alla condanna degli Dèi, a poco a poco si afferma la prassi di una doppia punizione: accanto a quella divina, una sanzione consistente nella perdita della cittadinanza – dualismo che, già in quel tempo, introduce una prima separazione tra la sfera sacra e quella temporale, filosoficamente espressa nel positivismo giuridico e nell’umanismo dei sofisti. La crisi del modello ellenico si tradurrà nella perdita di valore del giuramento cittadino, con l’affermarsi progressivo di un giuramentoverticale. La diffidenza verso l’inflazione del giuramento e la non attendibilità delle testimonianze giurate dei greci affiorano negli scrittori latini, dalle commedie di Plauto alle sentenze di Cicerone.
Sarà la fides espressa nel rinnovato rito del giuramento che consentirà a uomini appartenenti a diverse gentes di dirimere le liti e fondare la nuova coniuratio come impegno reciproco di vincolarsi vicendevolmente in un nuovo soggetto collettivo destinato a segnare indelebilmente la storia del mondo. Ma anche nello svolgimento del ciclo romano, al pari di quanto era accaduto in Grecia, assistiamo ad una svalutazione del giuramento – che nel frattempo era diventato il “giuramento per l’imperatore” – che prelude alla caduta. Con l’emergere del Cristianesimo il quadro si complica, sia per il rigetto del giuramento in sé, sia per il rifiuto di pronunciarlo in favore dell’imperatore in quanto nume tutelare:
Avete anche inteso che fu detto agli antichi: Non spergiurare, ma adempi con il Signore i tuoi giuramenti; ma io vi dico: non giurate affatto; né per il cielo, perché è il trono di Dio; né per la terra, perché è lo sgabello per i suoi piedi; né per Gerusalemme, perché è la città del gran re. Non giurare neppure per la tua testa, perché non hai il potere di rendere bianco o nero un solo capello. Sia invece il vostro parlare sì, sì; no, no; il di più viene dal maligno.
(Matteo 5, 33-37)
Questo insegnamento venne inteso da alcuni come semplice condanna del formalismo farisaico, preservando il giuramento dall’attacco di eretici e radicali, fondando le proprie tesi su altri passi biblici (Ebrei 6, 13-18; Corinzi I, 15, 31; Corinzi II, 1, 18, 23; Galati 1, 20). Il dilemma fu quindi, per le prime comunità cristiane, se interpretare il divieto come semplice reazione al fariseismo ovvero se mettere in discussione il rapporto tra il sacro e il potere nel punto più delicato di congiunzione costituito dal giuramento. In ogni caso, emerge con forza un dualismo basato sul “Rendete a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio” (Matteo, 22, 21): nei cristiani dei primi secoli non troviamo né un’accettazione né un ripudio dello Stato (e del giuramento), ma la consapevolezza che si tratta di una realtà provvisoria voluta da Dio, verso la quale si deve conservare un atteggiamento critico e libero.
Durante il IV secolo si comincia a formare la dottrina istituzionale del giuramento cristiano. I tre dottori del giuramento sono Ambrogio, Agostino e Gerolamo: con essi, il sacramentum diventa un atto civile e cristiano, fondendo gli elementi della cultura romana e della Bibbia. Si ha la conferma della liceità del giuramento, con le cautele già espresse in passato, leggendo la stessa proibizione di Cristo come esortazione alla prudenza, perché nel giuramento umano è insito il pericolo dello spergiuro; tuttavia, proprio a causa della debolezza umana, il giuramento è necessario per la sopravvivenza dello Stato e della società. Resta l’esenzione dal giuramento per il clero e per i monaci, come privilegio che li sottrae al potere secolare.
Rispetto alla scelta monista di Costantinopoli, più legata alla tradizione classica, nell’Alto Medioevo occidentale il giuramento emerge come sacramento cristiano – sacramentum e iuramentum diventano sinonimi – controllato dalla Chiesa, attraverso il quale vengono anche assorbiti istituti del costume dei popoli germanici, appena apparsi sulla scena della storia. Il giuramento è il sacramento per eccellenza e la sua validità ed efficacia dipende dalla disciplina canonica: la Chiesa è chiamata a giudicare sullo spergiuro, sulla nullità, sulle eventuali dispense. Le sanzioni restano nell’ambito della disciplina ecclesiastica, ma all’orizzonte si intravede già l’intervento dell’autorità secolare che sottintende i successivi sviluppi. I giuramenti si dividono in due grandi categorie: verticali-gerarchici e orizzontali-paritetici. Tra i primi, troviamo il giuramento di fedeltà dei sudditi, l’omaggio, il giuramento vassallatico, il giuramento d’ufficio; tra i secondi, i trattati di alleanza, i giuramenti “cittadini”, le unioni giurate che danno vita alle gilde o associazioni di mestiere.
I secoli VI e VII sono il periodo di gestazione, nella Gallia merovingica e nella Spagna visigotica, dei nuovi rapporti tra lo Stato e la Chiesa che caratterizzeranno, per i successivi secoli, la costituzione politica europea: nell’intreccio profondo, che comunque permane, tra potere temporale e potere spirituale, si produce una distinzione di funzioni, tra il primo, che è reso necessario per via della debolezza umana e che interviene con la forza laddove il sacerdote è impotente con la predicazione, e il secondo, che mantiene la funzione di conservazione e diffusione della fede.
Nell’impero carolingio, tra gli ultimi decenni del secolo VIII e i primi del IX, assistiamo al primo (e unico) tentativo di sottrarre il giuramento all’autorità della Chiesa per assoggettarlo a quella, che si voleva altrettanto sovrannaturale, dell’Impero – destinato a fallire con la crisi stessa della costruzione politica eretta da Carlo Magno. Dopo l’incoronazione di quest’ultimo, giurano vescovi, abati, conti, giura tutto il popolo, parroci compresi, con la proibizione di qualsiasi altro giuramento (se non al proprio diretto signore). Si introducono pene secolari per lo spergiuro. Cambia anche il luogo del giuramento: dalla Chiesa al Mallo (l’assemblea degli uomini liberi, che era a un tempo esercito raccolto e tribunale). Dalle promesse di Pipino e Carlo Magno ai papi nel 754 e nel 775 si giunge alla lettera inviata a papa Leone III in cui l’imperatore, tramite Alcuino – il più autorevole degli intellettuali della corte – descriveva minuziosamente quali fossero i compiti del pontefice. Si trattava di un invito a non occuparsi degli affari secolari, che rende bene l’idea dei rapporti di forza allora esistenti. Questo sbilanciamento era stato parzialmente ammortizzato dall’iniziativa assunta dal papa con l’incoronazione imperiale, che poneva il precedente per un controllo sull’elezione. Tuttavia, per un certo periodo, il potere imperiale sembrava decisamente più forte, come affiora nella Constitutio Romana, emanata nell’824 da Lotario (figlio primogenito di Ludovico il Pio e co-imperatore assieme al padre), la quale, attraverso una serie di controlli, sanciva l’autorità dell’imperatore sul papato e sui territori della sede romana. Questo rapporto di forze si capovolge con la disgregazione dell’impero, impedendo uno sviluppo dei rapporti tra papa e imperatore analogo a quello esistente nell’Impero Romano d’Oriente tra il patriarca di Costantinopoli e l’imperatore bizantino.
Dunque, con l’apparire delle prime crepe nella costruzione imperiale, la situazione muta: il giuramento serve ora per rinsaldare fedeltà contrapposte, tra le varie realtà politiche in cui si frantuma l’Impero, con una forte ripresa di potere del papa e dell’episcopato. La svolta inizia nel secolo XI, con il pontificato di Gregorio VII: quel dualismo introdotto dal Cristianesimo – già con il suo apparire – si coagula ora, per la prima volta, in una chiara opposizione istituzionale; la Chiesa rivendica la sua competenza esclusiva nei riguardi del giuramento, affermando la potestà di sciogliere dal giuramento di obbedienza al sovrano dichiarato indegno, paralizzando il potere politico. Al di là della vita ecclesiastica, il giuramento diventa la base per i patti di soggezione e associazione, per i fatti della vita quotidiana come matrimoni, testamenti, negozi, che si espandono, tra l’altro, per la ripresa dei commerci. Gregorio VII e i suoi successori rendono visibili quattro linee di sviluppo:
1) Inserzione del giuramento nella prassi e disciplina della Chiesa, preludio alla burocrazia moderna, per garantire la fedeltà al papa di vescovi e prelati;
2) Rivendicazione dell’autorità papale di giudicare la validità dei giuramenti prestati nell’ambito temporale da sovrani, signori e loro sottoposti, procedendo, se necessario, al loro scioglimento;
3) Affermazione dell’autorità di riconoscere le nuove associazioni giurate e quindi di dare origine a nuove sovranità;
4) Sviluppare il patrimonio di San Pietro con nuove relazioni vassallatiche che rafforzano la posizione del papa come signore territoriale.
La formazione di due strutture di obbedienza concorrenti mantiene il giuramento come legame dicongiunzione tra il sacro e la politica, tra l’ordinamento ecclesiastico e quello secolare, ma lo introduce tra le due sfere come processo di fibrillazione continua che mette in crisi le strutture tradizionali. L’idea della regalità sacerdotale sembra una sopravvivenza del passato, in un mondo in cui la duplice polarità si accentua col procedere verso la modernità. I sovrani europei accettano questa limitazione, che permette di svincolarsi dalla superiore sacralità e fedeltà imperiale, di fondare il particolarismo nazionale e di utilizzare la religione come potente strumento per controllare un popolo che procede verso il livellamento e la massificazione. Lo Stato moderno, nella prima fase della sua costruzione, sembra usare con particolare forza il giuramento come veicolo di omogeneizzazione e disciplinamento, quando le impalcature amministrative e poliziesche non sono ancora solidamente impostate. Dopo che Bonifacio VIII prende ad Anagni la famosa sberla, per conto del Re di Francia, all’inizio del XIV secolo, fallisce per sempre il progetto teocratico del papato di Roma ed inizia la sottomissione ad un potere ormai soltanto “politico” e temporale.
Tra il secolo XIII e il XV si era giunti all’apogeo della società “giurata”: la multipolarità dei corpi politici e sociali, e dei rapporti personali di fedeltà, aveva nel giuramento il baricentro indispensabile; ma il tentativo di ricondurre la cristianità ad un’unica obbedienza, anche attraverso l’equazione tra battesimo e giuramento di fedeltà al papa, naufraga nel conflitto con Filippo il Bello e Ludovico il Bavaro: le forze che il papa aveva suscitato, e che stavano minando l’autorità dell’impero, sfuggono di mano e si rivoltano contro di lui, mentre le invenzioni dottrinali, i meccanismi burocratici e il centralismo amministrativo, creati da Roma, finiscono per duplicarsi nelle periferie d’Europa favorendo la crescita degli Stati e delle Chiese nazionali. Lo stesso trasferimento del papato ad Avignone, all’inizio del ’300, è ad un tempo effetto ed agente moltiplicatore di questo fenomeno.
Il giuramento, a metà del Quattrocento, sembra aver esaurito la sua funzione creatrice di nuove sovranità e nuovo diritto, avviato verso una nuova fase, come strumento di rafforzamento e consolidamento dei poteri esistenti, che ne rivendicano il monopolio. Sono i secoli in cui si affermano, in ambito ecclesiastico e temporale, le capitolazioni elettorali, patti giurati che papi, vescovi, imperatori e re sono costretti a stipulare con i loro elettori o, per meglio dire, con il corpo elettorale cui essi appartengono, prima della loro elezione, mentre perde d’importanza, fino a scomparire del tutto, il giuramento dell’imperatore al papa. Nel centralismo monarchico, che si rafforza a partire dalla metà del XV secolo, il giuramento politico perde ogni carattere bilaterale per disporsi su una linea unica ascendente: dal sovrano a Dio, dal popolo al sovrano (quest’ultimo meno esplicito); come si era sviluppata la teoria dell’incorporazione del fedele alla Chiesa con l’equivalenza del battesimo ad un giuramento di fedeltà, così si sviluppa la dottrina che il suddito è tale dal momento della nascita. Questa sembra essere la mutazione di base che la politica moderna secolarizzata deriva dalla teologia e dall’ecclesiologia. Scompare a poco a poco ogni ricordo delle antiche libertà per lasciare spazio a privilegi e autonomie concesse dall’alto: monopolio statale sul giuramento politico, per la compattazione di fazioni in lotta.
Con la riforma protestante, non si ha semplicemente una frattura religiosa, ma una mutazione di tutto il cristianesimo europeo: il giuramento politico assume caratteri ideologici, riempiendosi del contenuto teologico e sacrale un tempo riservato alla sfera ecclesiastica, mentre l’adesione alla fede si riempie di contenuti tipici dell’appartenenza secolare; l’onnipotenza pervasiva dello Stato moderno sottomette anche la religione, con l’alleanza fra “il trono e l’altare” in ambito cattolico, con la vera e propria sottomissione neiPaesi protestanti. Tutti coloro che entrano al servizio dello Stato o della Chiesa prestano un giuramento che è ad un tempo di fedeltà e obbedienza, d’ufficio e di adesione al quadro confessionale proposto dal sovrano.
Il nuovo Stato richiede l’obbedienza dei sudditi non come fatto esterno, ma come problema di coscienza; esige non soltanto la sottomissione al potere secolare nei comportamenti, ma anche un’adesione interiore fondata su motivi morali e religiosi. Con Thomas Hobbes – pensatore simbolo del razionalismo seicentesco – si completa la riforma nel senso appena indicato, sancendo la nuova “sacralità” dell’obbligazione politica: quest’ultima si rende autonoma dal diritto divino dei re, negando non soltanto la teoria del potere indiretto, ma la stessa dottrina del dualismo tra potere spirituale e potere temporale che aveva caratterizzato il Medioevo. Lo Stato ha in se stesso la propria legittimazione, e la nuova frontiera che attraversa l’uomo è tra la sfera privata della coscienza e la sfera pubblica dei comportamenti esterni, soggetta soltanto allo Stato. È quindi logico che il pensiero di Hobbes rimuova il giuramento: la sacralità dell’obbligazione politica deriva dal patto stipulato dagli uomini e il giuramento non aggiunge nulla di più. Nell’età della ragione non vi dovrà certo essere spazio per la religione del giuramento, ma provvisoriamente, nella prassi, esso sembra ancora necessario per tenere in piedi l’edificio sociale e politico.
Seguendo un’altra linea, ma sempre in coerenza con le premesse, la metamorfosi del giuramento trova compimento nella riflessione di Jean-Jeacques Russeau: il giuramento diviene lo strumento per la fusione dell’individuo nel corpo sociale, per il passaggio dallo stato di natura alla società strutturata in leggi e istituzioni; assorbe la tradizione del voto religioso in un nuovo atto sacrale, un rito d’iniziazione al mistero della patria. Non vi è più un patto fra persone e gruppi garantito da una divinità meta-politica, ma il riconoscimento della sacralità della politica stessa. La strada è ormai aperta alle esperienze totalitarie dei secoli successivi.
Vi è da chiedersi a questo punto: cosa resta del giuramento? Estromesso nel corso dell’evo moderno dalla sfera del diritto privato, in parallelo con l’estendersi del monopolio statale e della costrizione del diritto positivo, è ora totalmente escluso dalla sfera pubblica. Da un lato, la completa secolarizzazione del giuramento, con l’espulsione di ogni riferimento sacrale, si è resa necessaria per via della laicizzazione dello Stato, con la sua trasformazione in una semplice dichiarazione o impegno solenne, con un richiamo a generici “valori condivisi”; dall’altro lato, esso si conserva e si potenzia come neo-religione civile, che tende a garantire il fondamento della sovranità. La volontà generale conduce all’identificazione dello Stato con lo scopo ultimo dell’uomo, annullando l’esistenza dei corpi intermedi e delle singole personalità. Nel giuramento moderno, lo Stato prende il posto di Dio come suprema istanza metafisica e rimpiazza il vecchio legame religioso con un nuovo e altrettanto forte legame tra singolo e collettività indifferenziata. Oggi, tolto di mezzo anche lo Stato nazionale – costruzione tipica della modernità – la nuova divinità cui prestare ossequio è l’economia di mercato sregolata, con annesso rito del consumo, mentre la nuova religione capitalista riempie i suoi templi racchiusi nei grandi centri commerciali.
Fonte: http://www.lintellettualedissidente.it/filosofia/storia-giuramento-patto-politico/
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