L’Italia. E la “scarsità di risors€”.
di LUCIANO BARRA CARACCIOLO
http://www.senato.it/japp/bgt/showdoc/17/DOSSIER/1021287/index.html?part=dossier_dossier1&parse=si&spart=si
Sì: il pareggio di bilancio viene, ad ogni Def annuale, spostato agli anni successivi. Ma, come vedrete, ci sono forti spinte “commutative” per anticiparlo al più presto…
- Sul tema delfederalismo in Italia, esistela diffusa, quanto inesatta, convinzione che il nostro ordinamento (già de iure condito) sia meno federalista di altri, come ad esempio quello tedesco (stato federale per autodefinizione). Ma poiché sarebbe inutile discutere di diritto costituzionale e scienza delle finanze in termini comparati, in presenza di slogan pop come quelli che dominano il campo nel dibattito politico italiano, mi limito a riportare sue sintesi su informazioni utili in argomento, senza particolari commenti (solo qualche piccola nota esplicativa).
- La prima fonte è l’estratto da unintervento diPietro Nenni all’Assemblea Costituente, nella seduta del 10 marzo 1947, nella parte riferita alla realizzazione dell’unità e dell’indipendenza della Nazione italiana:
Nenni. Onorevoli colleghi, l’Assemblea troverà naturale che le mie prime parole siano per ringraziare l’onorevole Ruini e l’onorevole professore Calamandrei, per l’apprezzamento che essi hanno dato dei lavori delle Commissioni del Ministero per la Costituente, che hanno preparato il materiale di studio che l’Assemblea e le Commissioni hanno utilizzato nel corso dei loro lavori.
Desidero ricordare all’Assemblea i nomi dei presidenti delle tre principali Commissioni, perché penso che gli studi che essi hanno compiuto, così come hanno avuto una grande importanza per formare le opinioni nel corso di questa discussione, così avranno un’importanza eguale, e forse anche maggiore, nel prossimo avvenire, quando l’opinione pubblica, attratta dall’importanza delle nostre presenti discussioni, si interesserà ai fondamentali problemi costituzionali del Paese.
La Commissione economica è stata presieduta dal professor Giovanni De Maria, ed ha raccolto in 14 volumi i risultati dei suoi studi è delle sue relazioni. Non soltanto oggi, ma anche nell’avvenire, chiunque voglia studiare ed apprezzare la situazione economica del nostro Paese dovrà riferirsi ai lavori di questa Commissione.
La Commissione per la riorganizzazione dello Stato, presieduta dal professor Forti, ha chiuso i suoi lavori con tre volumi di relazioni delle quali il professor Calamandrei ha detto quale sia il grande valore scientifico.
La Commissione dei problemi del lavoro, presieduta dal collega professor Pesenti, ha raccolto, a sua volta, in quattro volumi i materiali di studio e di indagine da essa promosse sulla situazione ed i rapporti di lavoro.
Infine desidero di ricordare che una pubblicazione del Ministero della Costituente, il Bollettino di informazioni e di documentazione, diretto dal dottor Terenzio Marfori, ha certamente molto contribuito ad attirare l’attenzione degli studiosi, dei tecnici e degli uomini politici sui problemi costituzionali. Così pure credo sia doveroso rendere omaggio all’iniziativa di un editore privato, l’editore Sansoni, che, in accordo col Ministero della Costituente, ha promosso due collezioni: quella giuridica che si compone di 44 volumi e quella storica che si compone di 20 volumi, che hanno messo a disposizione di tutti gli studiosi un materiale prezioso di studio.
All’insieme di questo lavoro ha presieduto il giovane professore Massimo S. Giannini. Sono sicuro di essere l’interprete di tutta l’Assemblea rendendo a questi studiosi l’omaggio che essi meritano per avere contribuito col loro lavoro ed i loro studi a mettere tutta l’Assemblea in condizione di discutere i problemi costituzionali, ed a mettere il Paese in condizioni di apprezzare i risultati delle nostre deliberazioni.
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Credo di non forzare l’interpretazione dello spirito del 2 giugno, dicendo che lo possiamo riassumere in quattro principî generali: gli elettori repubblicani il 2 giugno volevano unoStato unitario, volevano uno Stato democratico, volevano uno Stato laico e volevano unoStato sociale.
In questo modo essi traevano le conseguenze logiche e naturali delle lotte, che si sono svolte già nel lungo periodo della dominazione fascista e poi, in una forma molto più positiva e concreta, fra il luglio del 1943, l’aprile del 1945 ed il giugno del 1946.
Una grande volontà unitaria ha animato tutti i combattenti della libertà: i reparti della marina, dell’aviazione, del corpo volontari della libertà, che, sulla base della cobelligeranza, hanno partecipato a fianco degli alleati alla guerra contro il tedesco; la resistenza all’interno fino dai suoi primi episodi, che si sono prodotti nelle fabbriche con gli scioperi della primavera del 1943, e poi le formazioni partigiane. Il significato profondo di questa lotta è stato il desiderio e la volontà di salvaguardare l’unità e l’indipendenza del Paese, sia nei confronti dello straniero, sia nei confronti di movimenti interni, che avevano profondamente preoccupato l’avanguardia democratica, e che andavano dal separatismo approvato nella Val d’Aosta a quello della Sicilia.
L’unità e l’indipendenza del Paese è stato l’obiettivo primo e in un certo senso, principale di tutto il movimento di liberazione. Che poi questo movimento, dalle giornate napoletane dell’ottobre 1943 fino alle giornate milanesi dell’aprile 1945, avesse come obiettivo la conquista di una democrazia repubblicana, ciò non ha bisogno di essere dimostrato.
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Esaminiamo la Costituzione dal punto di vista dello stato unitario.
L’articolo 106 del progetto afferma che la Repubblica italiana è una e indivisibile, che essapromuove le autonomie locali ed attua un ampio decentramento amministrativo. Questo articolo è certamente in perfetta armonia con quello che ho chiamato lo spirito del 2 giugno.
Non direi però la stessa cosa di quella specie di federalismo regionale, balzato fuori dalleimprovvisate deliberazioni della Commissione che ha studiato l’attuazione del principio del decentramento amministrativo.
Altri, prima di me, hanno ravvisato in questo federalismo regionale un elemento pericoloso per l’unità dello Stato, per l’unità della nazione.
Certo, si può discutere, come ha fatto l’onorevole Orlando alcuni istanti fa, quale sia stato ilvalore del federalismo nel Risorgimento.
In questo caso bisogna però tener conto che, nel Risorgimento, ci sono state due concezioni, federalista e regionalista, che non sono mai andate d’accordo tra di loro.
C’è stata una concezione federalista e regionalista moderata, la quale era in fondo una forma di resistenza all’unità nazionale, diciamo la verità, di sabotaggio dell’unità nazionale; c’è stato il federalismo di Cattaneo e di Ferrari che, giudicato dal punto di vista dei principî, rappresenta non già un elemento regressivo, ma un elemento, progressivo nei confronti dell’unitarismo di Mazzini. Però, storicamente, aveva ragione Mazzini e l’Italia non poteva sorgere che come è sorta, cioè come stato unitario.
Lo dimostrano le immense difficoltà che l’Italia ha incontrato dopo il 1860 ed anche dopo il 1870 per attuare lo stato unitario, giunto a maturazione soltanto attraverso le prove dure che la nostra generazione ha attraversato dal 1915 al 1918. Ciò dimostra che, quando si discute un problema di questa natura, non ci si può porre dal punto di vista di un principio astratto, ma bisogna considerare i principî in rapporto alla realtà politica e sociale. Per cui,citare gli Stati Uniti nei confronti dell’Italia, è come se citassimo la luna nei confronti della terra; delle entità che fra di loro non hanno una comune misura di confronto.
Per me è evidente che, come l’Italia non poteva formarsi se non attraverso lo Stato uno e indivisibile, così oggi sarebbe un errore politico e un errore economico voler attuare le autonomie locali e amministrative sotto forma di federalismo regionale.
Sarebbe un errore politico, perché l’Italia è un Paese a formazione sociale, troppo diversa, perché una differenziazione legislativa nel campo regionale non metta la Regione in concorrenza con lo Stato.
Non ci sarebbe nessuna difficoltà a ordinare l’Italia sulla base del federalismo regionale, se le condizioni della Calabria fossero identiche a quelle della Lombardia (Commenti al centro), se la Campania si trovasse allo stesso piano di sviluppo economico, e quindi di sviluppo politico, della Liguria o del Piemonte. Ma, in una Nazione dove all’antagonismo sociale fra poveri e ricchi si unisce il dislivello fra le regioni settentrionali e quelle meridionali, un simile esperimento non può essere tentato prima di aver operato una vasta riforma sociale. Si rischia in caso contrario di mettere in pericolo l’unità della Nazione. (Vivi applausi).
Il federalismo regionale è anche un errore economico.
Non è serio dire alle popolazioni del Mezzogiorno che attraverso un sistema regionalista esse potranno meglio salvaguardare i loro interessi economici di quanto non lo abbiano fatto nel passato con lo Stato unitario. Le regioni meridionali hanno il diritto di contare sull’assistenza di quelle settentrionali, ciò, che è possibile soltanto sulla base di una legislazione unitaria.
Signori, è mia profonda convinzione che, se la Sicilia, la Sardegna o altre regioni meridionali sono economicamente in ritardo, non è per un eccesso di centralismo, ma perché il loro legame col restante del Paese non è abbastanza intenso. La soluzione del problema meridionale non la si trova nella separazione ma in una più intima fusione del Nord col Sud, in una politica di solidarietà delle regioni più ricche verso le più povere.”
- Il secondo estratto riguarda invece un recente post tratto dal sito Lavoce.info che fornisce dati e informazioni economico-concettuali “di base” relativamente acome funziona, fisiologicamente, la distribuzione territoriale della spesa di uno Stato unitario, sempre tenendo presente,in premessa la distinzione tra:
- a)“effetto redistributivo” strutturale proprio della universalità della spesa pubblicae quindi delle funzioni e servizi che essa tende ad assestare a un livello standard e che essenzialmente dipende dalla distribuzione demografica (staticamente considerata: il discorso in termini dinamici, come insegna la realtà attuale, si fa più complesso: si pensi alla scuola pubblica-distribuzione dei plessi e del personale scolastico o alla sanità, o, ancora, alla semplice dislocazione di uffici periferici dello Stato, primi tra tutti quelli delle forze di polizia);
b) vere e proprie politiche territoriali di infrastrutturazione e di incentivazione dell’impiego di fattori della produzione. Basti dire al riguardo, che l’unità d’Italia ha agito in senso inverso rispetto al sud, in questa ottica; e, in termini finanziari, qualsiasi IPOTESI al riguardo cessa con l’adozione del modello Maastricht (basti ricordare che i “patti territoriali”, anche se percentualmente allocati al sud in maggior misura, derivano da fondi europei, rispetto ai quali l’Italia è in un deficit contributivo in media dai 6 ai 7 miliardi all’anno, elemento che, unito ai vincoli fiscali, non può che determinare tagli progressivi della spesa universale).Anzi, il progressivo venir meno del minimo fisiologico di cui al punto 1), determinato dalla diminuzione in termini reali dei principali aggregati della spesa universale, al netto dell’invecchiamento della popolazione, aggrava la situazione strutturalmente: il sud si svuota considerando anche se, come evidenzia Cesare Pozzi, i residenti “ufficiali” sono in parte fittizi e corrispondono in realtà a popolazione-lavoratori già trasferitisi), sicchè diviene inevitabile la “revisione” del numero di scuole, ospedali, uffici di Bankitalia e postali, inclusi.
E’ l’altra faccia della polarizzazione territoriale, incentrata su Roma e Milano, anzitutto, e in inarrestabile corso con deindustrializzazione effettiva e potenziale (cioè desertificazione dei fattori della produzione).
Preciso ancora che l’effetto redistributivo della spesa universale agisce anche in senso non territoriale Nord-Sud, anche se dovrebbe apparire ovvio, quindi anche in senso sociale localizzabile tout court: (cioè agisce via via su ogni decrescente livello di comunità territoriale, fino ad arrivare alla considerazione del singolo individuo); Belluno, ad esempio, presumibilmente avrà un residuo fiscale rimpolpato dal maggiore di Treviso; e a Treviso, operai, magari immigrati, avranno un trasferimento di utilità dai contribuenti più abbienti (a titolo di esempio, e residenti in determinate zone del centro urbano, identificabili come aventi un residuo fiscale anche notevole rispetto ad altri “quartieri”), quanto al mantenimento di strutture scolastiche, ospedaliere e di presidio del territorio.
E lo stesso, vale per gli effetti su un sistema previdenziale a ripartizione…]. E dunque, come prosegue il prof.Petraglia, con un passo che sottolineo:
Strumentalmente, la redistribuzione interpersonale tra contribuenti a diversa capacità contributiva viene confusa con la redistribuzione tra i territori di residenza degli stessi.
3.1. Svolta questa premessa, riportiamo l'(ampio) estratto da Lavoce.info .
[Va solo ulteriormente precisato che lo stesso concetto di residuo fiscale ha senso nella sua origine “federalista” statunitense, sulla base di un tentativo di temperamento della giustizia commutativa applicata ai rapporti Stato-cittadino, temperamento reso necessario in un paese che, ove non lo avesse applicato, non avrebbe potuto superare i postumi di una tragica guerra civile. Il “residuo”, infatti, diviene rilevante sulla base della visione esclusivamente etico-individualista del rapporto tra cittadino e governo. Logicamente, infatti, il “residuo” deriva dal calcolo di un saldo interno alla considerazione contrattualistico-individuale del rapporto con lo Stato, del tutto estranea alla nostra legalità costituzionale e, in genere, alle costituzioni – scritte e rigide- europee del secondo dopoguerra]:
“La stima del livello delle entrate e delle spese delle amministrazioni pubbliche a livello regionale consente di calcolare il saldo, noto in letteratura come residuo fiscale. Definito daJames Buchanan come la differenza tra il contributo che ciascun individuo fornisce al finanziamento dell’azione pubblica e i benefici che ne riceve sotto forma di servizi pubblici, è uno strumento attraverso il quale valutare l’adeguatezza dell’azione redistributiva dell’operatore pubblico.
Il potenziale informativo dello strumento consente, infatti, di evidenziare in maniera chiara l’ammontare complessivo della redistribuzione tra le diverse aree del paese compiuta dallo Stato centrale.
…
Occorre sottolineare come il concetto di residuo fiscale fu introdotto per trovare una giustificazione etica alla necessità di operare trasferimenti di risorse dagli stati più ricchi a quelli meno ricchi degli Stati Uniti, in quanto Buchanan asseriva che l’azione pubblica, in base al principio di equità, doveva garantire l’uguaglianza dei residui fiscali dei cittadini di una determinata nazione.
In Italia, la redistribuzione delle risorse è data da tre diverse componenti: la necessità di garantire a tutti i cittadini i medesimi servizi connessi a diritti fondamentali (come salute e istruzione), la messa a punto di iniziative per lo sviluppo economico di aree a basso reddito, (ndr; v. però sopra, p.3 sub b))nonché l’utilizzo di meccanismi di ripartizione delle risorse basate su criteri storici.
Stime per le regioni italiane
Di seguito viene presentato l’aggiornamento al 2015 della stima del residuo fiscale delle diverse regioni italiane. L’analisi è stata realizzata utilizzando la metodologia di riparto su base regionale del conto economico consolidato delle amministrazioni pubbliche introdotta dal lavoro di Alessandra Staderini e Emilio Vadalà e poi aggiornata da Eupolis Lombardia.
Nella tabella 1 sono riportati i valori pro capite delle entrate, delle spese e il relativo residuo fiscale.
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Il livello delle entrate si caratterizza per una apprezzabile variabilità, soprattutto per quel che riguarda il divario tra le regioni del Mezzogiorno e le rimanenti. Ciò conferma la circostanza che la capacità di sviluppare gettito fiscale è proporzionale al reddito prodotto dal territorio.
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Sul fronte della spesa pubblica, il livello pro capite è più elevato nelle regioni a statuto speciale rispetto a quelle a statuto ordinario. Evidentemente le consistenti risorse finanziarie di cui beneficiano le regioni a statuto speciale hanno garantito livelli di spesa maggiori. Allo stesso tempo anche le regioni più piccole (Liguria, Umbria, Basilicata, Molise, Abruzzo) mostrano livelli di spesa pro capite maggiori, dovuti presumibilmente alla indivisibilità di alcuni beni pubblici e a diseconomie di scala. Le regioni del Mezzogiorno complessivamente mostrano un livello di spesa leggermente più basso rispetto alle altre.
Per quel che concerne i residui fiscali sono evidenti invece i flussi redistributivi verso le regioni con reddito pro capite più basso, verso quelle a statuto speciale e verso quelle di piccole dimensioni. Le regioni del Mezzogiorno sono tutte beneficiarie della redistribuzione.
La figura 2 mostra come la variabilità dei residui fiscali sembra essere riconducibile principalmente alle differenze di sviluppo economico del territorio, (ndr; il che dà ragione a Nenni, a distanza di 70 anni) con l’eccezione di un gruppo di regioni a statuto speciale (Valle d’Aosta, province autonome di Trento e Bolzano e Friuli Venezia Giulia) e di piccole dimensioni (Liguria).
Fonte: elaborazioni Cnr-Issirfa su dati Istat e Cpt.
Sono, quindi, confermate le indicazioni di precedenti lavori (Carmelo Petraglia e Domenico Scalera) e cioè che i residui riflettono la redistribuzione tra individui con redditi in media più elevati al Nord e più bassi al Sud, (ndr; il che significa che ridurre/eliminare il residuo implica la radicale negazione dell’effetto redistributivo essenziale del sistema fiscale di cui agli artt. 3, comma 2, e 53 Cost.), mentre la spesa pubblica è distribuita in maniera abbastanza uniforme tra tutti i cittadini aventi gli stessi diritti (ndr; il che, simmetricamente, implica che ridurre/eliminare il residuo, differenzia il livello dei diritti fondamentali in ragione di differenze di sviluppo economico territoriale, facendo aritmeticamente corrispondere alla maggior “autonomia” di una parte della popolazione di uno Stato, la minor autonomia dell’altra, vincolata a non poter coprire – con risorse che non ha, e che, in aggiunta, non potrà mai più sviluppare-, il costo uniforme dei servizi pubblici essenziali. Ciò vale a maggior ragione all’interno della “scarsità di risorse” imposta dall’adesione alla moneta unica).
Allo stesso tempo i dati mostrati inducono ad affermare che i beneficiari della redistribuzione non sono solamente le regioni del Mezzogiorno ma anche quelle a statuto speciale e quelle di piccole dimensioni; e che il livello di spesa delle regioni meridionali è analogo e leggermente più basso rispetto a quello delle altre regioni e, dunque, il miglioramento dei residui fiscali di tali regioni non può che essere correlato a politiche di sviluppo dei rispettivi territori.”
fonte: http://orizzonte48.blogspot.it/2017/10/litalia-e-la-scarsita-di-risors.html
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