La Bce «stamperà» altri 270 miliardi nel 2018: l’impatto sui tassi dei mutui
di VITO LOPS
commento.
Fino al 1999, nonostante il Trattato di Maastricht, che già impediva da sette anni di rispettare dei rigidi limiti alla spesa pubblica, così come la precedente adesione dell’Italia al cambio dello SME, la Banca d’Italia poteva emettere liberamente finanziamenti di spesa a vantaggio di settori pubblici e privati concordati con il Ministero del Tesoro. In realtà, tale coordinazione già dal 1981, non era più obbligatoria, eppure era ancora possibile.
Lo Stato poteva elargire una liquidità in lire attraverso la quale finanziare sanità, istruzione, là dove si riteneva fosse necessario, incentivare la piccola e media impresa, la quale ad esempio poteva essere sgravata di tasse, così come realizzare grandi pianificazioni industriali in settori come la chimica, la siderurgia, l’areonautica.
Comuni e piccole amministrazioni potevano stare in deficit di bilancio affinché investissero in servizi quali la raccolta dei rifiuti, la manutenzione della viabilità, e il territorio. I sindaci arrivavano in comune con dei progetti che proponessero ad esempio, la creazione di un ospedale anche nei piccoli centri che così venivano tutelati. E la costruzione di una tale infrastruttura portava con sé un indotto, che dapprima aveva messo in moto l’edilizia, e in seguito bar, officine, ristoranti che potevano progredire in un ambiente più popoloso composto da personale medico, visitatori, e così via.
Soprattutto, i soldi pubblici, nonostante i casi di corruzione, che pur erano tanti, venivano impiegati per risolvere in buona parte i bisogni dei cittadini.
Ad oggi, questa facoltà della Banca d’Italia di elargire finanziamenti pubblici è stata ceduta alla BCE, che è anch’essa una banca indipendente, la quale tuttavia non deve rendere più conto in nessun modo alla Costituzione e allo stato italiano, quanto piuttosto ai trattati internazionali europei. Quest’ultimi vietano per statuto di finanziare direttamente gli stati.
Questo non significa che la BCE non crei euro dal nulla, ma esattamente il contrario. La differenza è che l’euro, invece di essere iniettata nelle finanze pubbliche dello stato, e quindi successivamente versata sul territorio e l’economia reale, rimane solo all’interno del circuito bancario privato.
E, come spiega bene Vito Lops è solo discrezione di quest’ultimo decidere se prestare o meno liquidità a famiglie e imprese.
***********
Il mercato dei mutui è legato a filo diretto alle decisioni della Banca centrale europea. Così, dato che la scorsa settimana l’istituto di Francoforte guidato (fino a ottobre 2019) dall’italiano Mario Draghi ha annunciato molte novità in termini di politica monetaria, è inevitabile che queste impatteranno sul costo dei prestiti ipotecari che interessano oltre la metà di chi compra/ha comprato in passato un immobile.
Cosa ha annunciato la Bce
In sostanza la Bce ha prolungato la politica espansiva (chiamata in gergo tecnico quantitative easing) di altri nove mesi. L’acquisto di titoli (soprattutto obbligazioni governative dell’area euro ma anche in parte residuale bond di società) sui mercati aperti (è questo in sostanza il quantitative easing) non terminerà più (come inizialmente previsto) a dicembre 2017. Ma a settembre 2018. Con la novità che l’esborso mensile della Bce scenderà da 60 a 30 miliardi al mese. In sostanza la Bce ha annunciato che continuerà a immettere liquidità sui mercati anche il prossimo anno (“almeno” fino a settembre): fatti due conti si tratta di “almeno” 270 miliardi (30 miliardi x 9 mesi).
Sorpresa positiva
Gli investitori si aspettavano un prolungamento del quantitative easing ma nella peggiore delle ipotesi avevano previsto 200 miliardi in più messi sul piatto dalla Bce. Di conseguenza l’annuncio di Draghi del 26 ottobre ha spiazzato positivamente i mercati finanziari che hanno reagito in modo netto. L’euro si è svalutato sul dollaro (tendenzialmente una politica espansiva svaluta la moneta); le Borse europee sono risalite (sia per l’effetto potenziale derivante dalla “svalutazione competitiva” dell’euro e sia perché se la Bce continuerà a comprare bond, vorrà dire che i rendimenti potranno rimanere ancora molto bassi e di conseguenza meno competitivi con i dividendi offerti dal mercato azionario).
Lo scudo prosegue
E sono stati acquistati anche i bond governativi proprio perché molti investitori si sono sentiti nuovamente “protetti” dalla Bce, quell’investitore di ultima istanza che ha confermato che continuerà a garantire liquidità sulle obbligazioni. Quando i bond vengono acquistati accadono due cose: i prezzi salgono (per la legge della domanda e dell’offerta) e i rendimenti (che si muovono in direzione opposta e tengono conto della cedola fissa e poi della differenza tra il prezzo corrente del titolo e di quello (100) a cui verrà rimborsato a scadenza) scendono. Rendimenti bassi (in particolare del Bund tedesco) hanno un forte impatto sui mutui. Cerchiamo di capire perché.
Le novità sui mutui a tasso fisso
Il tasso finale di interesse (Tan) dei mutui a tasso fisso si ottiene sommando lo spread (deciso dalla banca, rappresenta il margine lordo che l’istituto di credito si prefigge di ottenere dal prestito) all’indice Eurirs di periodo. Ad esempio, per un mutuo a tasso fisso a 20 anni lo spread si somma all’indice Eurirs 20 anni. Più il mutuo è lungo tendenzialmente più è caro perché la curva degli Eurirs sale con l’aumentare della scadenza. Esattamente come accade con le obbligazioni. Il Bund a 5 anni offre un rendimento negativo (-0,3%) mentre quello a 10 anni “paga” lo 0,4%. Stesso discorso per i titoli italiani con i BoT annuali negativi e i BTp a 10 anni al 2%.
Gli indici Eurirs sono tecnicamente legati al Bund. Sintetizzano il costo del denaro del lungo periodo e seguono l’andamento del titolo più affidabile dell’Eurozona, quello tedesco appunto. E qui veniamo alla Bce. Nel momento in cui ha annunciato che continuerà a comprare obbligazioni anche nel 2019 ha lasciato intendere che anche i tassi del Bund tedesco rimarranno ancora bassi. Di conseguenza, anche i nuovi indici Eurirs (validi per chi è chiamato a stipulare un nuovo mutuo a tasso fisso o a effettuare una surroga di un vecchio mutuo scegliendo come seconda strada il tasso fisso) rimarranno bassi.
Quindi l’annuncio della scorsa settimana ci dice in soldoni che i tassi dei nuovi mutui a tasso fisso (sia per l’acquisto che per la surroga) almeno per un anno non saliranno. A patto che le banche non decidano di aumentare lo spread che, come visto, è deciso arbitrariamente dagli istituti e non risente delle decisioni di politica monetaria della Bce.
Cosa cambia per i mutui a tasso variabile
Il prolungamento del Qe da parte di Draghi (o se vogliamo, considerato che siamo in tema mutui, potremmo anche dire la “surroga del Qe” da parte della Bce) impatta anche sull’universo dei mutuatari a tasso variabile. In questo caso il tasso di interesse (Tan) si ottiene sommando lo spread (anche qui deciso dalla banca) agli indici Euribor (solitamente a 1 o 3 mesi). Se gli Eurirs sono una misura del costo del denaro nel medio-lungo periodo, gli Euribor (avendo durate che vanno da una settimana a 1 anno) lo sono nel breve. Se gli Eurirs riflettono da vicino l’andamento del Bund (in particolare per le durate dai 15 anni in su) gli Euribor si specchiano sul tasso dei depositi.
Questo tasso è fissato dalla Bce (attualmente è a -0,4%) e rappresenta la remunerazione che la Bce paga alla banche private per parcheggiarvi la liquidità che eccede le riserve che obbligatoriamente devono depositare. Dato che da un paio d’anni questo tasso è negativo, in questa fase accade il contrario: sono le banche private a pagare la Bce pur di parcheggiarvi la liquidità eccedente.
In ogni caso c’è una sorta di legge non scritta: l’Euribor non può essere più basso del tasso sui depositi fissato dalla Bce. Non a caso oggi gli Euribor sono vicini al -0,4% rappresentato dal tasso sui depositi ma leggermente più alti (-0,37% il mensile e -0,33% il trimestrale).
Lato mutui variabili, la Bce la scorsa settimana ha comunicato qualcosa di interessante. Tra le righe ha fatto capire che il tasso sui depositi non verrà alzato nel 2018. Se ne riparlerà nel 2019. Quindi chi sta rimborsando un mutuo a tasso variabile sa a questo punto che il prossimo rialzo degli Euribor arriverà forse e in ogni caso fra più di un anno. Così come chi sta stipulando oggi un mutuo e sta valutando il variabile ha un motivo in più per riflettere e per farsi due calcoli. Considerando che oggi il fisso costa in media più di 100 punti base in partenza rispetto al variabile (2,2% contro 1%) e considerando che il prossimo mini-rialzo ci sarà forse nel 2019 conviene pagare di più sin da subito con il fisso o partire con un certo risparmio scegliendo il variabile (consapevoli però che un domani, seppur molto lentamente, subirà un rialzo dei tassi)?
Non abbiamo risposte certe ma i banchieri centrali europei, che spesso ci hanno ricordato in questi anni che i tassi rimarranno bassi a lungo, forse sceglierebbero il variabile. In particolare per durate di mutui non superiori ai 20 anni.
Commenti recenti