Nero, il colore dello sfruttamento
di I DIAVOLI
La logistica è il cono d’ombra del lavoro. Rappresenta il polo nevralgico su cui scaricare i costi del processo di accumulazione dei profitti, nella materialità di rapporti di produzione basati sulla messa a valore di ogni aspetto della vita umana.
Nero il venerdì dei saldi globale.
Nero il lavoro precario nel settore della logistica, sfruttato, somministrato, sottopagato.
Nero il mare inquinato, solcato dai container che trasportano le merci. In quella terra di mezzo tra produzione e consumo dove il tardo capitalismo ha individuato l’ultima estrazione di plusvalore.
La logistica è quell’insieme di pratiche impiegate nel muovere le merci lungo tutto il pianeta, con una velocità sempre crescente. “Il sogno della logistica è un mondo dove la merce possa volare, dal luogo di produzione a quello dell’acquisto/consumo, alla stessa velocità istantanea con cui si muovono i flussi dei capitali finanziari”. Per farlo, tra software e algoritmi, è necessario mettere al lavoro i corpi del nuovo proletariato globale. L’industria 4.0, l’internet delle cose, estraggono ancora lavoro vivo dalla carne, dai muscoli, dai nervi e dalle sinapsi degli esseri umani. Non è finita la storia, non è finito il lavoro. Non ancora.
Non è finito nemmeno lo sfruttamento, esternalizzato nelle “cooperative spurie”: società che attraverso escamotage diversi e variegati perseguono una serie di obiettivi illeciti, come l’evasione fiscale e contributiva, l’applicazione di contratti pirata, l’illecita somministrazione di mano d’opera e il caporalato. È il cono d’ombra del lavoro, ai tempi della peggior crisi del capitale, nel quale i mezzi d’informazione, i partiti e movimenti politici e i grandi sindacati non sanno o non vogliono fare luce. Parlare di cooperative è un vero e proprio depistaggio lessicale. La sorpresa viene proprio dall’identità dello sfruttatore: “Cooperative che mantengono arbitrariamente quella denominazione ormai solo formale, appoggiate dal consenso, dalla complicità attiva o dall’indifferenza di sindacati “ufficiali” di cui il tempo ha ingiallito il colore e deturpato le funzioni. Forze che non si vergognano di tradire clamorosamente la loro stessa storia”, scrive Valerio Evangelisti.
Dal 2007 in Italia si è verificato un processo di deindustrializzazione senza precedenti, con la perdita di almeno il 13% del volume industriale. Contestualmente, dal 2007 al 2013, il settore della logistica ha conosciuto un aumento di valore del 5,6%, riflettendo il ruolo cruciale dell’Italia di ponte nei corridoi delle merci che attraversano Asia e Europa.
La perdita di lavori sindacalizzati della “vecchia industria” ha acuito la precarizzazione, le misure di austerità e le riforme politiche del mercato del lavoro hanno fatto il resto, peggiorando la situazione. A questo si sono affiancati tutta una serie di leggi volte a criminalizzare i migranti e negare loro l’accesso ai diritti, rendendo questo esercito di forza lavoro di riserva ancora più ricattabile.
Il settore della logistica in Italia non è solo manodopera migrante però. Questo è un altro falso mito che il discorso dominante utilizza per raccontare un paese che non esiste. Finché è l’uomo nero a essere sfruttato, non c’è problema, l’importante è che non si racconti che lo è anche l’uomo bianco, quello che ha votato per la negazione dei diritti altrui pensando così di salvarsi e di scaricare la crisi su chi sta peggio di lui. Invece si è fottuto con le sue mani.
“Oggi in Italia stiamo parlando di un milione e centomila addetti alla logistica. La presenza dei migranti non supera il 20%, pure se negli ultimi tempi qualcuno è stato indotto a pensare che la maggioranza siano migranti. Non è vero. Solo il 20%, e tra l’altro concentrati per il 19% al centro nord. Al sud, invece, in certe zone, la presenza dei migranti nella logistica è pari a zero”, racconta Ryad Zaghdane, sindacalista della Usb.
“Al sud guadagnano molto meno di quelli del nord, anche di quelli immigrati al nord, perché il sud ha un’alta percentuale di disoccupazione e quindi i lavoratori del sud vivono le stesse condizioni dei migranti che lavorano al centro nord. Questo è un sistema di cui il capitale si è sempre servito, e tra l’altro ha sempre diviso i lavoratori per provenienza; non per razzismo, ma per creare condizioni migliori di sfruttamento e quindi di conflitto tra poveri, in cui il capitale si nutre e si rafforza”.
Nero il venerdì dei saldi globale.
Nero il colore degli schiavi moderni, indipendentemente dalla pigmentazione della pelle.
Nero il manganello di chi reprime le proteste, appartenga a una divisa dello stato o a un picchiatore di professione assunto dall’azienda.
All’interno di questo nuovo schema, la logistica rappresenta allora il polo nevralgico su cui scaricare i costi del processo di accumulazione dei profitti. Nella materialità di rapporti di produzione basati sulla messa a valore di ogni aspetto della vita umana. Scrive Marta Fana su Internazionale: “L’intensificazione dello sfruttamento nel settore della logistica diventa quindi il paradigma della trasformazione dei processi di accumulazione del capitale: e non si tratta solo della messa a valore della forza lavoro, ma riguarda anche la sfera della riproduzione sociale, ossia della nostra vita”.
Per una ventina d’anni questo sistema è andato avanti consentendo una serie infinita di abusi e di illegalità che i pubblici poteri e gli uffici preposti al controllo delle condizioni di lavoro hanno talvolta ignorato, altre volte tollerato, altre volte tentato di contrastare ma in maniera talmente debole che la situazione rischiava di incancrenirsi. Lo stesso si può dire dei sindacati confederali e del mondo delle Coop. Poi è successo qualcosa e da qui inizia la nuova storia. Che è una storia di lento ma sicuro riscatto di questa forza lavoro. Mobilitati e poi organizzati dai sindacati di base, in particolare nel Veneto e in Emilia Romagna, ma poi anche in Lombardia, Piemonte, Lazio, i lavoratori delle cooperative hanno iniziato quello che sarebbe un normale cammino sindacale se non fosse che, dato il contesto, esso acquista il valore e il sapore di una battaglia di civiltà, per la dignità umana e per l’inclusione, come scrive ancora Sergio Bologna, che della logistica è il massimo esperto italiano.
Il 12 luglio del 2013 il terzo sciopero nazionale della logistica, organizzato dai sindacati di base e osteggiato da quello confederali, è un successo. È il punto di svolta, per molti lavoratori è il momento della presa di coscienza, di classe e di ruolo. La forza lavoro impiegata in questa nuova forma di caporalato postmoderno non è solo migrante, o attinta nel sempre più largo bacino del sottoproletariato urbano. Magazzinieri, facchini e trasportatori provengono (anche) dal ceto medio impoverito. Sono (anche) laureati. Non hanno alternative. Il 14 settembre del 2016, durante un picchetto fuori da uno dei centri della Gls, nel piacentino, un tir travolge e uccide Abd Elsalam Ahmed Eldanf. Su Internazionale, Alessandro Leogrande ricostruisce come questa morte non sia un fatto isolato, ma arriva al culmine di un violento processo di repressione delle lotte e delle proteste dei lavoratori della logistica.
Da allora anche i sindacati confederali, i partiti politici, i media tradizionali, sono costretti a fare i conti con quanto volutamente ignorato. Il sintomo lacaniano esplode in faccia ai gestori della crisi. “Per anni solo i sindacati di base hanno intercettato, studiato, compreso e riorganizzato questa nuova forza lavoro, con il black friday potrebbe essere cambiato qualcosa”, spiega ancora Sergio Bologna. È qui, il nuovo scontro tra capitale e lavoro. Essendo il physical internet (l’internet delle cose) il supporto materiale della globalizzazione è anche il terreno di scontro decisivo – spiega– ,richiamando i movimenti dei wobblies negli Stati Uniti negli anni 1900-20, dove i migranti (spesso italiani) giocano un ruolo decisivo come agitatori e organizzatori.
Nero il venerdì dei saldi globale.
Nero, il cono d’ombra dello sfruttamento contemporaneo.
Nero il cuore profondo della megalopoli padana, cuore pulsante della logistica italiana.
Il magazzino piacentino di Amazon ha un’ampiezza di circa 70 mila metri quadrati, pari a 11 campi di calcio, ci sono 40 bocchettoni dove i camion caricano e scaricano la merce, in entrata e in uscita, ossia dei bocchettoni nei quali entra il retro dei camion per poter esser scaricato e caricato. Tutto il magazzino è collegato tramite un nastro trasportatore della lunghezza complessiva di 20 chilometri, è inframezzato dalle pick tower, le scaffalature su cui è caricata e scaricata la merce al dettaglio. È uno spettacolo fantasmagorico delle merci. Il lavoro all’interno del magazzino è frenetico, ripetitivo, il senso di alienazione è forte. Tutti i giorni i lavoratori cambiano mansione, spesso anche più volte al giorno. È una danza macabra di corpi e di merci.
Amazon. La più grande internet company del mondo – fatturato da 136 miliardi e utile netto di 2,4 miliardi nel 2016 – sta rinnovando le pratiche delle storiche aziende di trasporto delle merci per compiere il salto definitivo nella rivoluzione della distribuzione che sta cambiando il volto delle nostre economie. Una volta considerata una semplice funzione subordinata alla produzione, oggi la logistica tende dominare l’intero processo della merce. In un’economia dove lo scarto temporale tra produzione e consumo deve essere minimo, come il click digitale del feedback istantaneo capace di valorizzare o affossare un’azienda, tutto deve essere immediato.
Da pochi mesi, all’interno del magazzino, sono riusciti a entrare i sindacati confederali. Questo ha permesso lo sciopero. Nel magazzino, aperto dieci anni fa con un centinaio di dipendenti, lavorano oggi quattromila impiegati circa. Una metà a contratto, l’altra con contratti di lavoro somministrato, attraverso le agenzie di lavoro interinali. E’ la palude delle false cooperative. È l’escamotage utilizzato dalla multinazionale – che l’Unione Europea ha riconosciuto pochi mesi fa, dopo avere evaso le tasse per dieci anni – per ostacolare la sindacalizzazione. Reprimere l’organizzazione dei lavoratori. Impedire le proteste. Fino allo scorso black friday, il venerdì nero della logistica, quando Filcams (Cgil), Fisascat (Cisl) e Uiltucs (Uil) si sono unite a Si-Cobas e sono riusciti a bloccare il rapsodico spettacolo delle merci danzanti nell’hub della nuova logistica.
E così si arriva al venerdì nero. Venerdì 24 novembre, giorno del black Friday globale. Quando nella megalopoli padana i lavoratori della logistica alzano la testa, rivendicano condizioni di lavoro più sostenibili, turni migliori, un contratto integrativo aziendale, e riescono a bloccare uno dei più importanti hub della logistica europea. Il magazzino di Amazon di Castel San Giovanni, provincia di Piacenza. Lo sciopero ha successo, la notizia travalica i confini, come merce scavalla le alpi e attraversa i mari e si diffonde in tutto il mondo. Anche la logistica può essere sabotata.
“All’interno delle molteplici aporie che costantemente presenta la conflittualità tra capitale e lavoro oggi, il settore logistico si conferma anche qui come uno degli snodi decisivi per poter pensare allo sviluppo di lotte che, sia per la pesantezza delle condizioni di sfruttamento che per la centralità che ricoprono all’interno del ciclo produttivo, abbiano efficacia, potenziale di sviluppo, sguardo transnazionale e proiezione sul territorio”. È scritto nel saggio Lavoro e non lavoro. Teorie, cronache e stralci di inchiesta.
Nell’epoca in cui la distribuzione non è più la terra di mezzo tra produzione e consumo, ma la bisettrice che ne determina l’estrazione di plusvalore. Nell’epoca in cui la merce deve viaggiare alla stessa velocità con cui si muove il feedback dell’acquirente, il nodo dei nuovi conflitti è tutto qui.
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