L’Istat certifica la deriva neoliberista dell’Italia
di HUFFINGTON POST (Luigi Pandolfi)
Una conferma, quella che arriva dall’ultima nota dell’Istat: in Italia la ricchezza aumenta, ma aumenta anche la povertà. Sembra un ossimoro, ma è soltanto il risultato di un mutamento strutturale della nostra economia, sempre più orientata all’export, trainata dalla svalutazione del lavoro che, a sua volta, cammina a braccetto con la bassa domanda interna. Un dato che accomuna Nord e Sud, fatto salvo il divario che ancora esiste tra le due aree del paese.
È il lascito di una crisi che le élite economiche e politiche, nazionali ed europee, hanno colto come opportunità per portare a termine l’opera di trasformazione dei rapporti di produzione, della società, in senso (neo)liberista. Crisi costituente, austerità per il popolo, più profitti per chi esporta.
Vorrà dire pure qualcosa, d’altra parte, se la bilancia commerciale italiana ha chiuso il 2016 con un avanzo di 51,6 miliardi di euro, il più alto da 25 anni a questa parte, terzo risultato più alto in ambito Ue, dopo quello di Germania (257,3 miliardi) e Paesi Bassi (59,9), e, al tempo stesso, è aumentato il numero di coloro che, nel nostro paese, scontano povertà e precariato, difficoltà di eccesso alle cure e all’istruzione, disoccupazione prolungata.
Sì, vuol dire che l’Europa, da baluardo del welfare state (il “modello sociale europeo”), è diventata, complice anche la crisi e la sua gestione (ma il processo è iniziato molto tempo prima), la nuova frontiera del capitalismo mercantilista, dove la parola d’ordine (o magica) si chiama “competitività”. Mercato, competizione, produttività. E lo Stato? C’è, ma ha mutato la sua missione: dal modello istituzionale redistributivo si è passati al modello istituzionale regolamentativo, nell’interesse del capitale, al servizio del mercato, nel quadro della governance comunitaria. Nel 1992, in occasione della ratifica da parte del parlamento italiano del Trattato di Maastricht, Lucio Magri, in un passaggio del suo intervento, si esprimeva così: “L’indirizzo [del Trattato] è definito in estrema sintesi così: il funzionamento pieno di un’economia di mercato, ma non nel senso — badate — ovvio e banale del riconoscimento del mercato, bensì nel senso di una radicale e sistematica riduzione di ciò che sussiste di non mercantile, cioè di tutti quegli strumenti attraverso i quali le democrazie europee nell’epoca keynesiana, cioè dopo gli anni trenta e soprattutto dopo il 1945, avevano appreso a governare gli eccessi del gioco cieco del mercato”. Esattamente ciò che abbiamo davanti, sotto i nostri occhi. Missione compiuta.
I dati forniti dall’Istat, allora. Citiamo testualmente: “Una significativa e diffusa crescita del reddito disponibile è associata a un aumento della disuguaglianza economica e del rischio di povertà o esclusione sociale”. Caspita, ma non c’era la ripresa, la crescita? Sì, ma, com’è ormai chiaro, essa non costituisce più (o soltanto) un parametro su cui fondare aspettative di benessere collettivo. Tanto per intenderci, un paese come l’Etiopia cresce da dieci anni a un ritmo del 10% circa, ma trentadue milioni di etiopi non hanno neanche acqua da bere. Crescita, ma per chi?
Dunque, vola l’export, la ripresa c’è, ma l’Istat ci restituisce uno scenario poco rassicurante. Il reddito netto medio annuo per famiglia aumenta (+1,8%), ma: il beneficio è sostanzialmente per il “quinto più ricco della popolazione”, il 30,0% degli italiani è a rischio di povertà o esclusione sociale (+2% rispetto all’anno scorso), aumentano il numero di “famiglie gravemente deprivate”, nel Mezzogiorno la percentuale di chi è esposto al rischio di povertà o esclusione sociale è al 46,9% (in aumento). Un modello, niente di eccezionale.
Un modello dove i giovani sono maggiormente penalizzati, tra precarietà e redditi bassi. Ancora l’Istat: sono maggiormente a rischio di povertà e di esclusione le persone che vivono in famiglie dove il principale percettore di reddito ha meno di 35 anni. Un modello da rovesciare.
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