di LUCIANO BARRA CARACCIOLO
Il loro problematico esito è stato indicato come una prima significativa battuta d’arresto dei populismi. E in quel caso pareva particolarmente verosimile, dato che il populista di turno ce l’aveva con l’€uropa solo per via dell’immigrazione (e dell’alterazione dell’identità e bla, bla bla, a fini di puro conflitto sezionale, ignorando quello sociale):
“L’opinione prevalente sull’esito delle elezioni conseguente a questo quadro è che “non molto cambierà a parte un controllo più severo sull’immigrazione“.
Ma questo perché l’attuale reazione “populista” all’UE-M, si muove anch’essa proprio sul piano del controllo di ciò che gli uomini devono credere e di ciò per cui si debbano affannare; e quindi, a nostro parere, non ha mai posto un problema di rimessa in contestazione del paradigma mercatista oligarchico alla base della creazione della moneta unica.
Di certo questo paradigma non è stato al centro della campagna elettorale in Olanda: i populismi si autosqualificano da soli, quando si limitano a scimmiottare la visione di fondo degli ordo-liberisti €uropei, cercando solo di contrastare gli effetti, e solo parte di essi, dell’applicazione del paradigma supply side e del lavoro-merce ma, in fondo, lasciando i propri seguaci fermi nel credere che non ci sia un altro mondo migliore di quello…”.
La cosa curiosa è che i punti essenziali di tale accordo di coalizione, ci scommetterei una cena al Quinto/Quarto (fanno la coda alla vaccinara secondo la rigorosa ricetta tradizionale e sono stati premiati per la Carbonara), saranno quasi integralmente riprodotti dal “nuovo” governo di prossima coalizione.
Come dire: tra non molto, se ne usciranno vari “operatori razionali” per proporre come quesito divenuto (ormai) retorico: “ma perché votare se si perdono soldi e tempo per ri-assumere decisioni già prese”?
Di tale “precedente” accordo programmatico vi riproduco i capisaldi: potete andare a cliccare su ciascuno di essi e vi accorgerete che potrebbero essere indifferentemente presi, per lessico, cultura (macro)economica e struttura (ideo)logica, per il programma di Macron o,
come abbiamo documentato, per un country report della Commissione UE:
O potrebbero essere assunti come base programmatica da una qualsiasi partito €uropeista, progressista, liberoscambista e moderato che guarda al centro, al supply side e alla competitività, ma “con attenzione per i problemi del sociale e le nuove sfide della globalizzazione”.
Dicono che Geert Wilders, il populista a cui non stava bene (in Olanda, beninteso) l’€urosistema dell’immigrazione no borders, non sia “reperibile” per le consultazioni, mentre, giustamente, mentre, dimostrando…straordinarie capacità negoziali e senso di responsabilità (aspetti almeno in teoria considerati essenziali in politica), i leaders di tutti gli altri partiti si rifiutano di averci a che fare, nonostante il PVV sia risultato il secondo partito più votato.
Forse i media internazionali, e olandesi, si preoccupano per la mitologica “governabilità”?
“Dalla seconda guerra mondiale, i governi hanno avuto un tempo medio di formazione di 72 giorni, da paragonare alle 4-6 settimane necessarie per formare una tipica coalizione in Germania. Il record olandese sono i quasi sette mesi necessari nel 1977, ma anche ciò impallidisce rispetto al suo vicino, il Belgio, che dopo le elezioni del 2010 ha impiegto 541 giorni per arrivare a un accordo di coalizione”.
316 giorni per formare un governo conservatore “di minoranza” in parlamento (dopo ben due elezioni rivelatesi inutili a chiarire una precisa maggioranza): un governo che si regge sull’astensione “collaborativa” (!) dei socialisti, che non hanno interesse a sottoporsi a una terzo voto politico in tre anni, dato che temono di uscirne letteralmente distrutti.
Com’è in effetti accaduto al partito socialista in Francia (al primo turno delle presidenziali e in attesa delle politiche di giugno; v. Hamon) e, obiettivamente, com’è accaduto in Olanda, ai “socialdemocratici”.
Basti vedere questi rispettivi risultati elettorali:
5. Su “Il Messaggero” di oggi (pag.13), uno storico francese (specializzato nella Rivoluzione e nel periodo del Terrore), prevede una più che probabile vittoria di Macron, ma con queste prospettive di governo effettivo:
“R: ….Macron ha avuto dalla sua i media e la magistratura. Fillon, anche se non era colpevole (?) e ha subito un attacco giudiziario e mediatico, ha avuto la colpa politica di dar per scontata la sua moralità alla De Gaulle per poi finire sotto inchiesta. Per questo l’astensione sarà alta e la vera battaglia sarà quella per le legislative…
Domanda: Macron conta sulla razionalità dell’elettorato per ottenere una maggioranza parlamentare. Ci riuscirà?
R: Non è escluso. Ma resta da capire come, con metà dei parlamentari al primo incarico e dunque poco radicati nel territorio. La situazione è imprevedibile. Un sistema a tre partiti è diventato fuori corso, e a quattro non si vede come Melenchon e il Ps possano riconciliarsi.
L’unico vincitore mi sembra Melenchon, che ha messo insieme la sinsitra della sinistra e una parte dell’elettorato antisistema alla Podemos o alla Cinque Stelle. Per questo tace sulle indicazioni di voto: sa che c’è chi vota Le Pen e non tornerà a votare per lui.
Macron rappresenta la frattura tra Est e Ovest, tra l’elettorato rurale e urbano, prossimità alle frontiere e distanza, ma rischia anche lui di non avere una maggioranza chiara…
Oggi…Macron rischia di non avere una maggioranza in parlamento e di contentarsi del voto volta per volta…“.
6. E quindi,
come in Italia, si conferma che
la “governabilità” (qui, pp. 2.1.4 e ss.) è una qualificazione di tipo tecnico-istituzionale che, se assunta come valore autosufficiente (cioè come indicatore di un’astratta funzionalità organizzativa che non si cura più del raggiungimento dei fini costituzionali dell’organizzazione stessa),
finisce per assorbirne ogni altro, cioè per rendere irrilevante ogni contenuto e fine dell’indirizzo politico-elettorale.
Quest’ultimo, in teoria, dovrebbe risultare corrispondente alle esigenze che l’elettorato, ed anche la obiettiva realtà socio-economica, cercano di
segnalare al sistema pseudo-rappresentativo dei partiti; ma, ci si accorge che, come giustamente, ha detto Draghi (
ispirandosi a Friedman; qui, p.1, “addendum”), l’indirizzo politico è fissato da un “pilota automatico”.
7. A questo punto della vicenda €uropea di desovranizzazione, quindi, la rappresentatività contingente dei partiti non è più decisiva, perché essi, abbiamo visto, si identificano in contenuti programmatici indifferenti alla cinghia di trasmissione elettorale delle reali esigenze e bisogni dei popoli interessati.
Questi contenuti programmatici sono ormai ridotti alla parafrasi o alla scomposizione formale, ma rispettosa delle priorità sostanziali, delle indicazioni politico-economicho-fiscali dettate dalle istituzioni UE-M.
Piccole schermaglie, su diversi modi di intendere i diritti cosmetici, ovvero sui tempi di realizzabilità delle misure consigliat€,
vengono appositamente ingigantite dallo spin mediatico che, anche in tal modo, si premura essenzialmente del fatto che non venga comunque messo in discussione “l’ordine internazionale dei mercati” (
qui, p.5: da rileggere in ogni caso…).
8. Anzi, si potrebbe persino dire che l’apparente frammentazione partitica attuale sia un bene per il “governo dei mercati“: restituisce alle masse una sceneggiatura di contendibilità delle istituzioni (democratico-elettive) su varie, apparenti, versioni dell’indirizzo politico e così allontana la presa d’atto popolare sull’abolizione delle sovranità democratiche.
La sceneggiatura di una grande reality sedativo stile “Truman show”.
E dunque, aveva pienamente ragione Reichlin (
qui, p.8.1.):
“
I mercati governano, i tecnici gestiscono, i politici vanno in televisione“.
E questa è l’€uropa: ora più che mai.
Perché il problema di fondo rimane
sempre questo:
“Se un “governo” sovranazionale free-trade non è strutturalmente idoneo ad autoriformarsi per via endogena (e le ragioni sono le stesse per cui i paesi non vincolati dalla bdp, cioè in surplus, non risultano praticamente mai, nella storia economica, aumentare le proprie importazioni e raggiungere il pieno impiego, cooperando spontaneamente a riequilibrare i saldi esteri e i livelli di occupazione dei paesi “vincolati”), ne deriva una struttura della massima rigidità.
E una tale struttura può solo collassare, escludendo, geneticamente, qualsiasi elasticità delle sue regole: se infatti fosse prevista una clausola di “elasticità”, la sua governance riterrebbe di perdere la “credibilità” necessaria per affermare i suoi fini naturali.
E in fondo, è ciò che ci va ripetendo, ogni volta che ne ha l’occasione, Mario Draghi.
Anzi, precisa che qualsiasi alternativa a tale rigidità istituzionale è “unrealistic”.
Quindi il destino delle masse €uropee è segnato.”
9. Una volta fissato l’autosufficiente valore della governabilità ex se, come esercizio di gestione tecnocratica conforme alla volontà dei mercati, e quindi, giunta a consunzione totale la stessa funzione originaria delle elezioni, – venuta a noia ai mercati che governano, nonché ai cittadini, che sempre più tenderanno ad astenersi per l’inutilità, prima ancora che per la difficoltà, di identificare una volontà del corpo elettorale-, si hanno drammatiche conseguenze sul piano della futura sopravvivenza dei riti elettorali.
Ed infatti, con
sempre più insistenza (mediatica), si sta affermando una crescente intolleranza per il voto, in quanto “
di protesta” (per il peggiorare delle condizioni sociali del lavoro, essenzialmente) e
come tale inefficiente.
E, con prevedibile coerenza, dovrebbe avere i giorni contati (in €uropa):
“Si rassicurasse: anche con laurea magistrale, il regime del mercato del lavoro e la struttura dell’offerta “competitiva” sono tali che la schiacciante maggioranza dei giovani “qualificati” rimane disoccupata. Ergo potenzialmente dedita a “inconsulti” comportamenti di protesta.
Certo, poi, a questi è più facile propinare, come fanno i Riotta e i Severgnini, che la colpa di ciò è della corruzione, degli sprechi e degli inauditi privilegi parassitari della generazione precedente.
In pratica, quello che ci raccontano costoro è che il sistema di propaganda mediatico-culturale funziona molto meglio con chi è “formato” fino in fondo mediante il suo rigido e spietato preorientamento (pop) della realtà.
Non funziona, invece, con chi, in modo molto più pratico, si è già cimentato nel tentativo di inserirsi nel mercato del lavoro, ma non avendo, prima, completato il percorso coattivo che porta alla identificazione degli interessi degli oppressi con quelli dell’oligarchia…
Nelle ONLUS che propugnano i diritti cosmetici, infatti, non c’è posto per tutti (per sbarcare il lunario sentendosi “cittadini/e del mondo”).
E la soluzione di “condizionare” ancor meglio la massa a dosi massicce di politically correct, colpevolizzazione e conflitto generazionale, può solo ritardare di “un po'” il rigetto del corpo sociale per l’oligarchia.
Anzi: al momento della “saturazione” anche di queste fasce sociali, la reazione sarà ancora più radicale…
Un default del sistema di irregimentazione che viene dunque sopravvalutato e che non sposta di una virgola gli effetti sociali di lungo termine dell’ordine internazionale del mercato.
Insomma: stanno alla frutta e se queste sono le loro “risorse culturali” e strategiche, come potranno sopravvivere fino al prossimo giro di consultazioni elettorali?
Non potranno: dovranno abolire il suffragio universale.
Anche dei laureati…”
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