Non senza la mia nazione
Non senza la mia nazione
Francia, Gran Bretagna o Polonia: gli europei non vogliono rinunciare alle loro identità. Soltanto i Tedeschi sognano l’assenza neoliberale di confini.
Di Wolfgang Streeck
26 aprile 2017
L’articolo originale è disponibile al seguente collegamento:
http://www.zeit.de/2017/18/europaeische-union-nationalstaat-deutschland-neoliberalismus
Traduzione di Paolo Di Remigio
Le nazioni e i loro Stati, così ci si assicura, sono «costruzioni sociali». Questo non significa però che possano essere decostruite in qualunque momento. Anche le famiglie, le burocrazie, le società per azioni sono costruzioni sociali; nondimeno non le si può demolire. Se deve esistere una casa comune europea, occorre che vi sia posto per le nazioni europee. Senza di esse non ci sarà nessun ordine politico europeo, ma solo insieme ad esse, per loro tramite e sulla loro base.
In effetti lo sa chiunque, fuorché in Germania e, forse, a Bruxelles. Qui ci si immagina volentieri che il prossimo passo verso un’«Europa unita» debba partire dai «cittadini europei» che, nauseati dai loro Stati nazionali, in una convenzione istituita in un modo qualunque, decidono la denazionalizzazione dell’Europa. La chiamo la via golpista verso l’unione europea. Che sia percorribile è un’illusione – ma le illusioni, in particolare del tipo dell’idealismo tedesco, deviando dal necessario e dal possibile, possono avere conseguenze catastrofiche. Chi propone il «patriottismo costituzionale» come alternativa al nazionalismo e allo sciovinismo, non dovrebbe voler barare sui referendum britannico e olandese neppure col pensiero.
È inutile: non solo la natura, anche le società si possono sviluppare soltanto dal materiale che esse stesse hanno creato in precedenza; gli sociologi lo chiamano “dipendenza dal percorso”. In politica atti di creazione esistono soltanto dopo sconfitte totali in guerre totali. La storia politica europea ha prodotto un intreccio complesso di identità nazionali e sovranità, che fuori dalla Germania nessuno vuole distruggere, almeno non per compiacere i tedeschi. «Posso capire”, diceva un paio di anni fa in un colloquio personale un politologo greco docente a New York, “che voi tedeschi vogliate dissolvere la vostra nazionalità. Ma non esigete da noi che facciamo lo stesso per aiutarvi».
In effetti la maggior parte degli Stati membri non partecipano alla UE per rinunciare alla loro sovranità, ma per difenderla per quanto possibile, anche contro altri Stati membri, oppure per realizzarla pienamente – vedi l’Irlanda, la Danimarca, l’Olanda e il Lussemburgo, gli Stati baltici, la Finlandia la Polonia e così via. Per quanto riguarda le due potenze atomiche europee, in Francia e Gran Bretagna la discussione sull’Europa verte innanzitutto sul problema se si sia più sovrani – detto in tedesco: se si sia meno diretti dalla Germania – dentro la UE, ossia l’unione monetaria, o fuori. Con l’approfondirsi dell’integrazione a questa domanda si risponde in modo sempre più negativo; vedi la Brexit, vedi Le Pen e Mélanchon, che, insieme, hanno potuto attrarre a sé oltre il 40% dei voti nel primo turno delle elezioni presidenziali. Che il «discorso» tedesco sull’Europa sia ammesso come ovvio, che alla fine dell’unificazione europea ci sarà non solo la fine dello Stato nazionale tedesco, ma anche quella di tutti gli Stati nazionali, negli altri paesi europei fa squillare di nuovo il campanello d’allarme. Rientra in questo contesto che la Francia negli anni ‘90 abbia rifiutato a Kohl quell’«unione politica» che la Germania considerava a buon diritto come presupposto di una unione valutaria funzionale.
Questo non significa che gli Stati nazionali e le nazioni siano formazioni senza problemi. Le nazioni tendono a presentarsi come comunità dalle radici comuni; in verità sono messe insieme nel modo più vario. Solo raramente sono coincidenti con gli Stati nazionali in cui sono organizzate; quasi ovunque esistono residui non identici sotto il profilo linguistico, etnico, culturale. I confini esterni sono spesso arbitrari, i passaggi fluidi. «Comunità» che si sentono nazioni come i catalani e gli scozzesi possono ritrovarsi in uno Stato nazionale che appare loro falso e vorrebbero fondare il proprio Stato – in seguito entrare nella UE certamente non per rinunciare di nuovo alla loro sovranità conquistata. Certo, normalmente gli Stati costruiscono le nazioni, non viceversa, e nel farlo sono più (Francia) o meno (Jugoslavia) fortunati. Sono d’aiuto le guerre esterne e interne, anche le sberle agli alunni che a lezione parlano le loro lingue regionali. Fortunatamente nessuno di questi mezzi è a disposizione dei patrioti costituzionali europei di Bruxelles.
Per parafrasare Bismarck: con le nazioni è come con il sanguinaccio e con le leggi: non si vorrebbe sapere a tutti i costi come siano fatte. Una volta però che siano fatte, allora esistono e hanno conseguenze. Romani, Franchi, Baiovarii iniziarono come orde accozzate di briganti; ma ciò che hanno lasciato è identificabile in modo univoco. In effetti il moderno Stato nazionale, o Stato quasi-nazionale, come Stato territoriale sovrano è tutt’altro che obsoleto anche nell’epoca della «globalizzazione». Nel 2010 le Nazioni Unite contavano 202 Stati sovrani, di cui 192 Stati membri; nel 1950 erano stati ancora 91, 60 dei quali nell’Onu. Nel 1980 il numero complessivo degli Stati era salito a 177 e nei tre decenni successivi di globalizzazione accelerata crebbe ancora una volta. La sovranità statale, evidentemente, è ancora una risorsa istituzionale desiderata, e si cerca la piccola dimensione, presupposto di una maggiore omogeneità. La metà degli Stati esistenti nel 2010 aveva meno di 7,1 milioni di abitanti. Certamente nel 1980 il valore medio, con 4,9 milioni, era stato ancora più basso; a causa dell’aumento del numero degli Stati la crescita del numero medio di abitanti restò però dietro quello della popolazione mondiale. Ci furono divisioni a getto continuo: sanguinose come nel Sudan e in Jugoslavia, pacifiche come in Cecoslovacchia. Delle fusioni volontarie – dell’Italia, della Spagna e del Portogallo nel Mediterraneo latino, della Norvegia, della Svezia, della Danimarca e della Finlandia in Scandinavia, di Lituania, Lettonia, Estonia nel Baltico orientale – non si sa nulla.
Integrazione significa sempre anche differenziazione
È questo che filosofi come Habermas deplorano come «staterellismo» servendosi della retorica dei grandi Stati nazionalisti? Se lasciamo da parte gli sforzi degli USA di razionalizzare il mondo degli Stati producendo failed states in serie per mezzo di interventi umanitari, allora qui si tratta di un problema fondamentale di autorganizzazione sociale nell’epoca della divisione mondiale del lavoro: è meglio essere uno Stato piccolo o grande? E se piccolo, inserito come? Se grande, costituito come? Nella UE ai piccoli paesi fuori dall’unione valutaria (Danimarca, Svezia) va meglio che a quelli all’interno (Finlandia, Portogallo, Grecia, Irlanda), e ai piccoli paesi fuori dalla UE (Norvegia, Svizzera, Islanda) perlomeno non peggio che ai piccoli paesi dentro la UE, perfino quando questi dispongono ancora di una propria valuta. È possibile che i paesi piccoli possano utilizzare meglio gli strumenti della sovranità nazionale per la ricerca strategica di nicchie e per la gestione più durevole nelle risorse – come per esempio la Norvegia, che non consuma le sue risorse petrolifere, ma le risparmia per il futuro. D’altra parte la specializzazione è sempre rischiosa – un esempio è la Finlandia, che in pochi anni da esportatrice di materie prime è diventata esportatrice di alta tecnologia, ma ora a causa della crisi di Nokia è messa in crisi anche come paese. I paesi grandi possono diversificare i rischi e ridistribuire internamente i guadagni dei vincitori ai perdenti –ammesso che lo consentano la concorrenza internazionale e la struttura del potere statale. Almeno nella UE la ridistribuzione non è ammessa, ma forse neanche, o sempre meno, negli Usa e in Cina.
Molto probabilmente qui si tratta di un dilemma che si può risolvere solo di caso in caso secondo i tempi. Ai sogni rosei del volontarismo economico si oppone qui l’alta resilienza dell’organizzazione ereditata degli Stati-nazione. Questa ha due aspetti, il primo dei quali, normalmente il solo presente nella discussione pubblica, risulta dal carattere delle nazioni odierne come comunità storica basate sull’esperienza e sulla comprensione. Ricordi collettivi fissati in un linguaggio comune fondano identità collettive, costituite come Stati nazionali o aspiranti a una costituzione di Stati nazionali. La nation-building, nel bene come nel male, trasferisce a un’organizzazione statale i precoci legami emozionali (inevitabilmente «monoculturali» per ogni individuo) con paesaggio, dialetto, musica, cucina e così via, e trasforma in amore di patria l’amore per la propria casa, sottratto a ogni kantiana reductio ad abstractum. Le identità politiche collettive che ne sorgono non sono statiche, già perché sono imposte con «conflitti di valore» (Weber). Ma su ciò che debba spettare loro, innanzitutto dall’estero, – a quanta patria vogliano rinunciare o riassumere – su questo vogliono decidere da sole, in sovrana selettività. In tedesco internazionalista questo è diffamato come «chiusura».
È vero che l’integrazione significa sempre anche differenziazione: ogni interno condiziona un esterno. Comunità nazionali che si comprendono sono dunque per principio enigmatiche l’una per l’altra: un politologo comparativo mediamente dotato ha bisogno di almeno un decennio per «comprendere» approssimativamente un paese vicino. Soprattutto per questo non esiste uno «spazio pubblico europeo» su cui possa fondarsi una democrazia popolare europea– o solo nella forma artificiale delle dichiarazioni delle PR di Bruxelles, incomprensibili perché «senza cultura». Perfino uno come Jürgen Habermas, citando De Gaulle, poteva immaginarsi ancora nel 1990 l’Europa unita come «Europa delle patrie» – una finalité che i suoi seguaci oggi condannano nel modo più reciso come atavismo nazionalistico. Essi ritengono invece, in accordo con l’idea più recente di Habermas, riecheggiante la fatale giustificazione weberiana di uno «Stato forte» tedesco, che a difesa del «modo di vita» – moralmente superiore? – ci sia bisogno di una Grande-Europa unita, che in caso di necessità potrebbe salire sul ring con i pesi massimi USA e Cina. Che aspetto essa debba avere, qui manca la fantasia.
Naturalmente si può sempre sperare di scoraggiare senza imposizione, non solo nei tedeschi ma anche in tutti gli altri, il loro particolarismo sentimentale sotto la minaccia di scomunica morale o col rimando alle catastrofi del XX secolo e alla bella vita multiculturale nelle città globali. Ma non soltanto vi è di ostacolo la longue durée di ricordi che creano identità. Qui entra in gioco il secondo aspetto della riluttanza delle nazioni e degli Stati nazionali, che risulta dal loro consistere di differenti configurazioni non solo tra cittadini e Stato, ma anche tra società e capitalismo. Nei paesi di capitalismo progredito due secoli di moderni conflitti di cultura e di classe hanno prodotto differenti «compromessi storici» nel punto di intersezione tra mondo vitale sociale e razionalizzazione capitalistica, a cui corrispondono diversi modi di vita e di economia. Nessuno di questi compromessi è perfetto o anche solo stabile, e nessuno è di per sé moralmente superiore agli altri; tutti sono a loro modo contaminati e nulla più che un equilibrio di interessi temporaneo sempre in bilico, in condizioni geostrategiche date, in dotazioni date di risorse, in strutture statali e di classe faticosamente conquistate e così via. Che una società si assicuri la sua stabilità temporanea con moneta stabile e mercati del lavoro flessibili oppure con inflazione, debito pubblico e protezione dal licenziamento, è una questione non morale, ma soltanto pratica. Soluzioni ideali nel senso dell’economia teorica dell’efficienza qui non esistono, anche se i tecnocrati della UE lo credono e vogliono imporre un regime neoliberale di vita e di economia alle società europee come esito della loro conflittuale storia capitalistica.
Anche per questo sono illusorie le speranze universalistiche di poter viaggiare sulla scia di una globalizzazione sistematicamente autosospinta verso un futuro cosmopolitico privo di identità particolaristiche. Nell’espansione globale del capitalismo si gioca infatti, a dispetto di Habermas e dell’economia main stream, non un progresso evolutivo di razionalizzazione, ma una trasformazione della vita sociale sotto la costrizione oggettiva di un’accumulazione capitalistica sconfinata – di un processo che divora la società, che ha bisogno di un argine sociale, che però in una prospettiva lunghissima può essere offerto solo su un piano locale, particolare. Poiché «globalizzazione» e democrazia sono unificabili soltanto sotto un governo mondiale, ma quest’ultimo si può avere solo nella forma di una global governance, dunque solo come immagine di desiderio e caricatura, è necessario spezzare il dogma che nel XXI secolo non ci sia alternativa all’apertura di tutti i confini per tutto e tutti – un dogma che ai teorici radiotelevisivi del neorazionalismo centralistico è, cosa interessante, altrettanto caro quanto ai Zuckerberg di questo mondo, nella cui azione gli universalisti internazionali sembrano vedere qualcosa di simile a un’astuzia della ragione.
Gli Stati nazionali europei sono qualcosa di più di musei della loro storia emancipativa; sono artefatti storico sociali che vogliono essere riconosciuti nella loro singolarità. Prendono la loro legittimazione come democrazie non da ultimo dal loro contributo alla difesa e allo sviluppo di identità mature e di possibilità vitali conquistate. Il loro pacifico coesistere in un continente come l’Europa ha bisogno di un’organizzazione interstatale che appoggi i suoi Stati membri, anziché tentare di renderli superflui con l’unificazione. L’Europa non viene unita trasformando la politica estera tra i suoi Stati membri nella politica interna di un superstato europeo; al contrario ne viene scissa. Governi e burocrazie internazionali che ai cittadini degli Stati nazionali europei democratici spiegano che da questi non possono aspettarsi protezione dalla società e dal mercato globali li spingeranno a cercarla allora con Stati nazionali non democratici. Per fortuna il mantra neoliberale di un nesso indivisibile tra libero scambio e benessere per tutti, ripetuto ad nauseam soprattutto in Germania per evidenti ragioni, viene sempre più contraddetto anche dal centro della società globale – vedi perfino Larry Summers e la sua esigenza di un «responsible nationalism». Che da un po’ di tempo il commercio mondiale sia stagnante, evidentemente come conseguenza di un cosiddetto protezionismo crescente, quale del resto anche Hillary Clinton lo aveva proclamato – troppo tardi – nel suo programma elettorale, può significare che confini tracciati con saggezza e amministrati con competenza, oggettivamente come socialmente, tornano ad essere rivalutati. Da questo si potrebbe imparare qualcosa anche per il futuro dell’Europa.
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