A proposito di Craxi: storicizzare sempre
di JACOPO D’ALESSIO (FSI Verbania)
Sono convinto che Craxi non costituisca per nulla un modello di socialismo democratico come lo intendevano i padri costituenti e, anzi, ritengo che la sua colpa massima sia stata quella di aver contribuito a sdoganare definitivamente in Italia l’americanismo come modello antropologico, finendo di completare la costruzione del cittadino consumatore, tifoso della politica piuttosto che attivista e militante, e che Pasolini descrisse chiaramente mediante la categoria di “mutazione”.
Quello che però oggi , in occasione del film Hammamet, alcune fazioni, eredi della sinistra post 1989, stanno pienamente confermando, quando alzano il loro coro di scudi contro questa figura storica molto contraddittoria, è la Rimozione di un trauma originario: ovvero, che il PCI , fin dai suoi esordi, aveva ereditato nel suo DNA l’ideologia economica liberale.
Nell’immediato dopo guerra il PCI sostiene Einaudi al ministero dell’economia, dando luogo alla prima forma di austerity ante-litteram, per cui, a causa delle strette creditizie e la mancanza di investimenti pubblici, in controtendenza rispetto al precoce decollo industriale degli altri paesi europei, a causa della mancanza di lavoro, assistiamo qui da noi invece alla più grande migrazione degli italiani verso Nord America, Australia, Canada, Belgio, Svizzera, Germania e Argentina.
Il PCI si oppone al piano del lavoro della CGIL del 1949 a causa della prospettiva di spendere ingenti somme a deficit, e non vede di buon occhio le nazionalizzazioni degli asset strategici proposte e realizzate dalla DC perché considerate una famigerata eredità dal fascismo. Non furono loro i fautori delle socializzazioni degli investimenti disegnate dalla DC, come il piano INA Casa, e che videro i loro esempi più alti con l’ideazione del Piano Vanoni e il Piano Saraceno. Il PCI italiano, insomma, eredita fin dal principio una prospettiva liberale in economia che prende forma organica e veramente compiuta con Berlinguer, creando, almeno in questo caso specifico, non una frattura, bensì una linea perfettamente coerente con la svolta della Bolognina.
Craxi, viceversa, figura anche a parere di chi scrive da condannare, in quanto fautore, è vero, di un massiccio keynesismo di stato che fosse ancora in grado di disciplinare il grande capitale contro le privatizzazioni, ma realizzato per mezzo di una fortissima politica interclassista (es: abolizione della scala mobile), si pose tuttavia in diretta continuità con la politica del Dirigismo di Stato del primo dopo guerra.
In questo senso, con buona pace dei sostenitori di Mani pulite, il PSI comprese come funzionava la spesa a deficit da parte del settore pubblico, e la usò in una certa misura per curare gli interessi del paese, mentre il PCI no, oppure non lo volle comprendere.
Ed è, più di tutto, proprio per questa ragione (ancor più delle stesse tangenti) che, a mio avviso, Craxi è stato sempre in odio agli eredi del PCI: sia a quelli di stampo più radicale (che ora convergono intorno all’area sovranista di stampo costituzionale), sia a quelli, ovviamente, liberali come la nomenclatura del PD.
In altre parole, sebbene Craxi sia stato un politico che trovò il suo personale e contorto “compromesso storico” a favore della piccola e media borghesia contro le programmazioni e il lavoro, non fu per nulla peggiore di un PCI che negli anni ’70 faceva gli accordi con il sindacato di Lama e la grande industria di De Benedetti, raccomandando tagli al welfare e sacrifici per gli operai a colpi di “politica dei redditi”.
Ed è inutile che costoro si disperino, ancora oggi, a controbattere la tesi dell’austerità, sostenendo che ciò fu fatto per porre un argine contro il consumismo allora dilagante, se quello stesso PCI, in quegli anni, non volle mai ascoltare le soluzioni alternative di un “riformismo radicale socialista” proposte dai vari Caffè, Labini, Napoleoni, Graziani, ma solo quella dell’ultra liberale Franco Modigliani.
Difatti, durante gli anni ’70, il “filone migliorista” (Napolitano-Berlinguer), dapprima minoritario, ma ben presto dominante alla guida del partito, costituisce un’eccezione nel socialismo democratico europeo, in quanto concepiva un modello di sviluppo fondato solo sulla produttività, che chiedeva sacrifici ai lavoratori senza tuttavia chiedere contropartite in cambio alla borghesia; paventando inoltre un’impennata dell’inflazione che avrebbe eroso l’accumulazione di capitale: insomma, si era trattato, anche da questa parte, di “un compromesso storico”, altrettanto interclassista e riprovevole, voluto però stavolta dal compagno Berlinguer.
Per il fatto di rifiutare a tutti i costi questa traumatica verità, abbiamo anche la condanna attuale, manichea, di revisionismo, da parte di una generazione rimasta orfana dei suoi miti, contro chi cerca invece di storicizzare i suoi nemici: Craxi e Berlinguer. E questo discorso vale sia per il volgare movimento no-euro, che vede il Craxi di Sigonella come, appunto, il paladino precursore della sovranità; sia per gli eredi della sinistra post muro di Berlino, che vedono ancora un partito dei lavoratori privo di contraddizioni.
Invece, la realtà è molto più complessa, e affinché ce ne possiamo difendere, chiede, prima di tutto, di essere storicizzata, sempre.
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