Non sarò breve (mi scuso).
Il professor Guido Tabellini
interviene sul Sole 24 Ore sostenendo che le politiche di rigore sono necessarie ma non saranno sufficienti perché “le fondamenta stesse dell’euro sono viziate”. Un vizio determinato da
due “difetti costitutivi”: primo, la Bce può svolgere il ruolo di prestatore di ultima istanza solo rispetto alle banche (rifinanziandole), ma non rispetto agli Stati (acquistando i loro titoli); secondo, la politica monetaria è centralizzata, ma la vigilanza è rimasta nazionale. Quali conseguenze avrebbero questi difetti? Senza un acquirente di ultima istanza dei titoli pubblici i paesi ad alto debito “sono lasciati in balia dei mutamenti di umore dei mercati”. Il decentramento della vigilanza invece porta a una segmentazione dei mercati, perché le autorità nazionali, diffidando di quelle dei paesi vicini, impedirebbero alle banche di prestare all’estero, e questa situazione “non può durare”.
Meglio tardi che mai
L’ammissione di errore va accolta senza facili ironie e con grande rispetto. Dallo scoppio della crisi, in Italia gli economisti ortodossi hanno spesso testimoniato una profonda e sincera volontà di rimettere in discussione le proprie certezze. A sinistra non c’è stato niente di simile, per un semplice motivo: economisti e politici di “sinistra” hanno rivendicato per due decenni la scelta dell’euro come un loro grande successo. Il tatticismo politico ora impedisce loro di comprendere e di ammettere che questa scelta è contraria agli interessi del loro elettorato. Gli ortodossi, oltre a essere più attrezzati culturalmente e più onesti intellettualmente, di sicuro non hanno questo problema politico. Certo, hanno condiviso l’errore, ma non ne hanno fatto una bandiera e quindi possono riflettere liberamente. Tuttavia nel pezzo di Tabellini non è accettabile la genericità di certe affermazioni (“abbiamo sbagliato”, “molti avevano previsto”), e non è accettabile la perseveranza nell’errore, che si traduce in due elementi ben precisi: (1) il tentativo ideologico di attribuire la crisi a un fallimento dello Stato, anziché del mercato; e (2) l’ingenua fiducia che il mercato possa comunque funzionare bene purché lo Stato “disegni” le istituzioni appropriate (una vigilanza centralizzata, una Bce più accomodante, ecc.).
Il problema è il debito privato (privato, capito? Privato, non pubblico! Privato! Privato! Privato!)
Le vigilanze nazionali stanno imponendo alla banche di “non trasferire liquidità” (leggi: non fare prestiti) al di fuori dei rispettivi paesi: questo significa solo che le autorità nazionali hanno capito quello che noi insieme a tanti altri (ad es.,
De Grauwe) stiamo dicendo da tempo (e che Tabellini ignora): la crisi è stata innescata
dall’afflusso verso il settore privato dei Pigs di ingenti quantità di capitali esteri (mentre il settore pubblico stava riducendo il suo debito). La crisi finanziaria è un gigantesco fallimento del mercato del credito privato: i mercati si sono dimostrati incapaci di convogliare i risparmi verso impieghi produttivi nel settore privato. Il problema è la libertà dei movimenti privati di capitale, che si trasforma ineluttabilmente in arbitrio. Ed è questo arbitrio che le vigilanze nazionali cercano (troppo tardi) di contenere. Un ritardo forse dovuto a una eccessiva fiducia nella favoletta ortodossa. Se non la sapete, ve la racconto.
La favoletta del mercato buono e dello Stato cattivo
La teoria ortodossa dice che il rendimento dei capitali obbedisce alla legge dei rendimenti decrescenti: il capitale è più produttivo dove è più scarso. Basta quindi liberalizzare i movimenti internazionali di capitali e il capitale andrà “naturalmente” nel paese in cui ottiene la remunerazione migliore, perché è più scarso, e quindi più produttivo. Il meccanismo si autoregola, perché a mano a mano che i capitali arrivano, il loro rendimento decresce, rendendo il mercato nazionale meno appetibile e limitando ulteriori afflussi. Alla fine tutti stanno meglio.
In pratica non è successo niente del genere. I movimenti di capitale non hanno obbedito alla logica dei rendimenti decrescenti, ma a quella delle bolle speculative. L’afflusso di capitali ha spinto verso l’alto i prezzi delle attività, finanziarie e immobiliari. La prospettiva di lucrare ulteriori aumenti ha invogliato ulteriori afflussi, in un gioco di aspettative che si sono autorealizzate finché si sono trovati nuovi entranti disposti a “gonfiare” la bolla col loro denaro fresco. Quando i fessi finiscono, la bolla esplode, i prezzi delle attività crollano, e le banche che le hanno in bilancio o a garanzia di prestiti falliscono, a meno che non vengano salvate dagli Stati con soldi pubblici. I debiti privati diventano così pubblici, e questo permette ai Tabellini di tutto il mondo di ripetere come un disco rotto “debiti sovrani, debiti sovrani, debiti sovrani” nel tentativo di far passare per fallimento dello Stato quello che è solo il sintomo di un macroscopico fallimento del mercato. Macroscopico e del tutto prevedibile, in una corretta prospettiva keynesiana.
Cosa ha detto Keynes?
Sono sconfortato dalla visione caricaturale di Keynes,
tutto spesa pubblica e svalutazione, tramandata dagli economisti di destra (transeat) e di sinistra! Non faccio esempi per carità di patria. Forse chi banalizza così l'analisi di Keynes non ha mai letto il capitolo XII della Teoria generale (
"Lo stato dell'aspettativa a lungo termine"), o non vuole che voi lo leggiate. Vi va di leggerlo con me? Non è difficile, perché Keynes aveva idee, e quindi non era costretto ad addobbare il nulla del proprio conformismo ideologico con festoni di integrali isoperimetrici.
Keynes dice una cosa molto semplice: ai mercati non interessa “compiere le migliori previsioni a lungo termine sul rendimento probabile di un investimento”, convogliando i capitali verso gli investimenti mediamente più produttivi, che generano quindi più crescita e più occupazione. Ai mercati questo non interessa non perché siano cattivi, ma perché comportarsi in questo modo (virtuoso e favorevole alla crescita di lungo periodo) non è razionale: “sarebbe sciocco, infatti, pagare 25 per un investimento il cui reddito prospettivo sia ritenuto tale da giustificare un valore di 30, se nello spesso tempo si ritiene che il mercato lo valuterà 20 fra tre mesi”, e “questo è il risultato inevitabile di mercati di investimento organizzati avendo di mira la cosiddetta “liquidità””, e nei quali quindi “lo scopo privato dei più esperti investitori” diventa “passare al prossimo la moneta cattiva”, in un contesto “soggetto ad ondate di ottimismo e pessimismo irragionevoli”, che la razionalità individuale non può contrastare anche perché “è cosa migliore per la reputazione fallire in modo convenzionale, anziché riuscire in modo anticonvenzionale”. Non vi sembra un’ottima descrizione di quanto stiamo vedendo? È stata pubblicata nel 1936. Occorre altro? Ora sapete cosa dire al prossimo fesso che attacca il disco “perché Keynes è quello della spesa pubblica…”.
Le sedie musicali
Siamo in mano a operatori (i "mercati") costretti ad agire in una logica di brevissimo periodo, che per questo motivo traggono i loro guadagni non dal merito intrinseco delle loro scelte di investimento finanziario, cioè, in sostanza, dal fatto di finanziare il progetto più meritevole e redditizio. I loro guadagni derivano dal fatto di lasciare il cerino acceso in mano al fesso di turno. E questo spiega come mai i mercati tollerino la persistenza di situazioni che oggettivamente dovrebbero essere percepite come pericolose. Guardate ad esempio la dinamica dell’indebitamento estero e pubblico nei Pigs:
Si vede bene che dal 2003 in poi in questi paesi l’afflusso di capitali esteri (la linea rossa) si è rapidamente portato verso il 10% del Pil. Afflusso di capitali vuol dire indebitamento, e come si vede non si trattava di indebitamento pubblico, visto che quest’ultimo (linea blu) era molto minore, e fino al 2007 stazionario o in miglioramento (Spagna e Irlanda erano addirittura in surplus). Come mai i mercati hanno continuato a prestare soldi a questo ritmo al settore privato dei Pigs? Semplice: perché i mercati “assomigliano al gioco delle sedie musicali”, dove ogni operatore pensa di “riuscire a conquistarsi una sedia quando la musica smette di suonare”.
La musica ha cominciato a suonare con l’entrata nell’euro. I paesi del Nord, truccando la competitività con il cambio fisso, hanno accumulato surplus finanziari e non potevano tenerli sotto il mattone. Era naturale prestarli ai paesi del Sud perché: (1) questi dovevano continuare ad acquistare beni del Nord per alimentarne le economie; (2) l’integrazione dei mercati finanziari rendeva più facile i movimenti di capitale; e (3) l’ingresso nella moneta unica attribuiva a questi paesi una credibilità che non si meritavano.
Lo Stato non si esprime col disegno…
Ora la musica è finita, e Tabellini parla di riformare i Trattati. L’idea sottostante è quella, cara all’ortodossia, che siccome il mercato è buono, allora lo Stato è cattivo (nelle favole un cattivo ci deve essere). Lo Stato cattivo non deve intervenire nell’economia, ma deve semplicemente limitarsi a “disegnare” istituzioni che consentano al mercato di operare in modo ottimale. Naturalmente le istituzioni devono basarsi su regole rigide, perché introdurre elementi di discrezionalità le renderebbe poco credibili (ancora la credibilità), lasciando margini di manovra che i governi nazionali sfrutterebbero a fini elettoralistici. Ben venga quindi la rigidità, che rende credibili le istituzioni.
Questo atteggiamento ideologico contrasta con l’evidenza dei fatti: è esattamente la rigidità delle regole della costruzione europea che ne ha minato la credibilità e garantito il fallimento. Lo si è visto con le regole di convergenza di Maastricht, criticate a suo tempo da Buiter, Corsetti e Roubini (1993) perché “mal motivate, mal congegnate e suscettibili di provocare, se applicate meccanicamente, difficoltà evitabili”, tali da rendere impossibile il valutare se esse avrebbero “rinforzato o indebolito la credibilità” di paesi come l’Italia. Lo si vede adesso con la stessa presunta irreversibilità dell’entrata nell’euro, una nozione che oltre a non avere alcun fondamento giuridico, viene ormai correttamente percepita come fonte di problemi di credibilità. Il problema, ahimè, è proprio il ragionare per regole, cioè il cullarsi nell’illusione tecnocratica che l’economia sia una caldaia alla quale, in caso di problemi, basta sostituire lo scambiatore del Trattato di Maastricht o il termostato della Bce (“Dotto’, solo pe’ la chiamata so’ 50 mijiardi de euri…”). L’economia siamo noi, sono i nostri soldi, e se abbiamo dovuto tagliare delle teste per affermare no taxation without representation, speriamo di non doverne tagliare altre per affermare il nostro diritto di autodeterminare nelle sedi politiche democratiche la condotta della nostra politica economica.
Il problema è politico
Del resto, che il problema non siano le regole è evidente nel ragionamento stesso dei Tabellini di tutto il mondo e di tutti gli schieramenti, per i quali la crisi si risolverebbe se la Bce si comportasse come la Fed (cioè acquistasse titoli di Stato a man salva). Ma proprio perché la Bce è indipendente, può fare sul mercato aperto quello che le pare: non esiste alcuna regola che vieti alla Bce di acquistare sul mercato aperto quanti e quali titoli pubblici vuole (e infatti lo sta facendo, cercando di guidare gli spread a seconda delle convenienze politiche del momento). E allora le regole che c’entrano? Niente, perché il problema non è “tecnico”, di “regole”, ma politico, e perché comunque l'accumulazione di debito pubblico è a valle di un'accumulazione di debito privato determinata dagli squilibri di competitività che in presenza dell'euro possono sanarsi solo con deflazioni competitive (visto che la Germania non vuole cooperare). E resta comunque paradossale che si additi ora come strategia per la sopravvivenza dell’euro la possibilità per la Banca centrale di acquistare titoli del debito pubblico, quando a livello nazionale la separazione fra Tesoro e Banca centrale è stata salutata come un passaggio ineludibile per l’entrata in Europa. Insomma: tutto si risolverebbe facendo fare alla Bce quello che la Banca d’Italia non doveva fare, perché facendolo ci avrebbe allontanato dall’Europa!
Strano, no? Come è strano che nessuno abbia pensato al pericolo determinato dall’irrazionalità dei movimenti internazionali di capitali. E infatti ci avevano pensato,
come spiegavo in questo mio intervento. Ma l’approccio ideologico a fatto sì che nel Trattato di Maastricht non si sia nemmeno tentato di definire
criteri operativi per contenere il vero problema, cioè l’eccessivo indebitamento (privato) estero. Perché contenere al 3% l’indebitamento pubblico significa contenere il ruolo dello Stato (cioè del cattivo), mentre contenere l’indebitamento estero avrebbe significato contenere il ruolo dei mercati (cioè dei buoni). Lasciamo che i buoni continuino a giocare alle sedie musicali. Sinite parvulos…
Sintesi
La non sostenibilità dell’euro, ampiamente prevista in letteratura, ha favorito un colossale fallimento del mercato, aggravato dall’irrazionalità delle regole dettate per scongiurarlo. Le lezioni sono due: la prima è che prima o poi dovremo tornare a qualche forma di controllo dei movimenti di capitale, possibilmente più incisiva della Tobin tax. Verosimilmente dovremo recuperare l’idea keynesiana che un sistema a cambi fissi non può sopravvivere senza una regola della valuta scarsa, cioè senza un meccanismo che autorizzi i paesi in deficit ad adottare pratiche commerciali discriminatorie, proteggendosi dai paesi in surplus che non vogliono cooperare alla soluzione degli squilibri. La seconda, più immediata, è che introdurre rigidità e fare la voce grossa, come alcuni politici tedeschi quando abbaiavano il loro “drei Komma null null”, serve solo a distruggere credibilità. Quello che ognuno di noi capisce nella sua famiglia, è ora che tutti insieme lo capiamo nel nostro continente. Ma analisi ideologicamente scollegate dai fatti non possono certo dare un grande contributo in tal senso. E quindi lo scenario più plausibile e forse meno doloroso rimane sempre quello di cui parlavo ad agosto.
Riferimenti
Buiter, W., Corsetti, G. Roubini, N. (1992) "Excessive deficits: sense and nonsense in the Treaty of Maastricht", Economic Policy
Fonti dei dati
Il solito database del Fmi.
ARTICOLO FANTASTICO, GRAZIE!DIFFONDO…