La grande assente. E la pianificazione della scarsità di risorse
di LUCIANO BARRA CARACCIOLO
Sia ben chiaro: il paradosso di questi 70 anni sarà, per tutti i cittadini italiani che abbiano ancora la cultura e la sensibilità per farlo, l’esigenza di doversi accingere, proprio adesso, ad una strenua difesa finale – della democrazia sostanziale, della democrazia necessitata del lavoro-, in contrapposizione con astratte “commemorazioni” che, ignorandone ostentamente il vero significato, moltiplicheranno le pressioni per un suo superamento, riprendendo il cammino delle devastanti proposte intese a distruggerne il senso più profondo.Il paradosso, dunque, nascerà dal fatto che, adottandosi una tattica comunicativa che tenderà, questa volta, a presentare la disattivazione della Costituzione entro una facciata nominalistica di fede nei suoi valori, (valori che ci si sta già preoccupando di rivisitare e “adattare”), si troverà il modo cosmetico per celebrare in sordina “le esequie frettolose di una Costituzione ancora viva” e, consentitemi di dirlo, che più che mai “lotta insieme a noi”
3.1. Il “comunismosocialismobrutto”… anch’esso su Marte, ovviamente. E si finisce per delegittimare l’art. 41, comma III, Cost. (non a caso fatto oggetto di attacchi violenti. Persino proposte di legge costituzionali per eliminare l’inciso “fini sociali”). Ed allora meglio sentire i nostri Costituenti:
“…Cosa vuol dire questa pianificazione? Si devono fare delle ferrovie o delle strade? Si deve sviluppare l’industria cinematografica o l’industria turistica? L’industria della siderurgia o della tessitura? Quale di queste industrie, di queste attività economiche deve avere la precedenza?
Questa è la pianificazione che deve fare lo Stato: È LO STATO CHE HA LA VISIONE GENERALE DEL PAESE, NON LA PUÒ AVERE IL SINGOLO INDIVIDUO, PERCHÉ OGNUNO VEDE IL PROPRIO EGOISMO E NON VEDE L’INTERESSE DELLA COLLETTIVITÀ. Se voi domandate agli industriali tessili, essi vi diranno che l’industria più importante è quella tessile; ma se vi rivolgete ai siderurgici, vi diranno che è la siderurgia.
Ma è lo Stato che deve avere la nozione esatta di quello che conviene alla collettività, cioè allo Stato; e deve quindi chiarificare quella che è la sua attività, il suo concorso ed il suo incoraggiamento per sviluppare una industria piuttosto che un’altra. Dovremo sviluppare per esempio le industrie dei beni di produzione o le industrie dei beni di consumo? È un problema che deve essere esaminato dallo Stato, non dai singoli individui. Ecco perché l’economia liberale individualistica va verso la morte. Ha ragione l’onorevole Corbino quando dice che l’economia liberale non c’è.
Non c’è più perché è fallita, ed è fallita perché ha provocato una serie di guerre che hanno ridotto l’economia mondiale nelle condizioni in cui si trova.
“… Mi si consenta di dire che il fatto che la nostra Costituzione consacri il principio che il regno beato del beatissimo e totalitario laisser faire è finito per sempre, mi sembra non soltanto costituzionalmente legittimo ed esatto, ma anche praticamente opportuno.
…voglio formalmente precisare che l’inserzione dell’accenno ai piani nel nostro emendamento non ha mai avuto e non avrà mai lo scopo di volere porre all’Assemblea una perentoria alternativa fra sistema liberale e socialista, fra iniziativa economica privata e coercizione burocratica di Stato, fra capitalismo nella sua forma pura e pianificazione integrale. La portata del nostro emendamento ha un valore che supera questa alternativa…: esso invece vuol soltanto portare il tema sopra un piano di praticità, di realtà, di attualità e di attuabilità.
… nessuna alternativa è posta all’Assemblea tra libertà economica e vincolismo esasperato di Stato; ma soltanto disciplina di quegli interventi od interventismi di Stato che oggi campeggiano in tutti i paesi…ASSUMERE QUINDI, ONOREVOLI COLLEGHI, IL SOCIALISMO COME LO SPAURACCHIO, o come un voluto sottinteso, contro o a favore della pianificazione, è inesatto. Ci può essere molta pianificazione e poco socialismo, come può darsi molto socialismo e poca pianificazione. Tutto consiste nel saper distinguere i fini cui si tende, ed i mezzi che sono stati proposti come necessari a raggiungere lo scopo.È SUL PIANO DEI FINI (che nel socialismo sono fini etici) e dei mezzi posti alla base di ogni pianificazione, che si può stabilire un parallelo tra socialismo e pianificazione.
Senza questo aspetto fondamentale, si ha soltanto un metodo, onorevoli colleghi, ed è precisamente un metodo che abbiamo voluto fissare …. Un metodo che balza dalla stessa impostazione del problema fondamentale, che è uguale in tutti gli ambienti giuridici sociali, e cioè in tutte le parti del mondo odierno, e che si enuncia in questi termini: distribuire un complesso limitato di risorse tra i vari possibili impieghi, in modo che i bisogni degli individui siano soddisfatti nel miglior modo possibile.
Sono i fatti, sono le esigenze nazionali ed internazionali, sono i bisogni, le privazioni, le sofferenze degli uomini e delle comunità organizzate, che hanno imposto questo metodo. Non è qui la sede per esaminare se tutto questo sia frutto della guerra o di quel tracollo della economia liberale di cui, con la sua riconosciuta e simpatica onestà scientifica, parlava l’onorevole Corbino, o forse di entrambi insieme. Certo è, onorevole Corbino, che IL TRACOLLO DELL’ECONOMIA LIBERALE SOVRASTA COME UN’OMBRA QUESTI NOSTRI DIBATTITI SUL TITOLO TERZO. Può darsi che sulle rovine di questo tracollo già cominci a spuntare la nuova economia di domani, e non sarà un male se sarà la pianificazione a tenerla a battesimo…” [G. ARATA, Assemblea Costituente, seduta antimeridiana del 13 maggio 1947].
Se i fini vengono stabiliti a vantaggio delle oligarchie capitalistiche, si chiama libertà.
Se i fini (art. 3, comma II, Cost.) vengono posti a vantaggio dell’interesse collettivo (cioè del Popolo sovrano, art. 1 Cost.), riemerge lo “spauracchio” del totalitarismo. La narrazione liberista.
“… Dopo gli anni della ricostruzione, caratterizzati dal declino delle ipotesi di programmazione globale e dal predominio delle concezioni liberiste, gli anni della legislatura degasperiana (1948-1953) sono segnati dalla costruzione di una serie di “programmazioni di settore” ispirate ad obiettivi riformisti. E’ una fase nella quale il tratto dominante può essere riconosciuto al “decreto”; sono i meccanismi della rappresentanza politica e del governo ad assumere il peso prevalente nel processo di acquisizione del consenso e nel processo di assunzione delle decisioni.Il mantenimento dell’asse portante del sistema politico attorno al binomio decreto-mercato negli anni del “centrismo debole” (1954-1962), accantonata ancora una volta la strada della programmazione globale (piano del lavoro della CGIL, e “schema Vanoni”) è ottenuto attraverso una estensione dell’intervento pubblico mediante programmi di settore, attraverso un certo grado di “GERARCHIZZAZIONE” NEI RAPPORTI FRA SISTEMA POLITICO E ORGANIZZAZIONE DEGLI INTERESSI (il legame corre fra partito di maggioranza relativa, Confindustria, Confcommercio etc) attraverso l’accantonamento definitivo dell’attuazione costituzionale degli artt. 39 e 40 e quello (provvisorio) dell’attuazione dell’ordinamento regionale.
La forza trainante del mercato nella fase del miracolo economico (1958-1962) garantisce, a prezzo di nuovi “squilibri” territoriali e settoriali, il compromesso “decreto-mercato…” [M. CARABBA, in Enciclopedia del diritto, voce Programmazione economica, XXXVI, 1987, 1127-1128].3.4. Non riporto nemmeno i commenti di Lelio Basso sull’affossamento del Piano o Schema “Vanoni”, il primo tentativo di programmazione economica (globale) seria nel nostro Paese (ah, il Quarto partito!).
Si recuperò un pò il tempo perduto negli anni del primo centro-sinistra (1963-1972); ma negli anni ’70, complice anche la crisi (che la Robinson annoverava già nella lotta di classe), l’inflazione-brutta (dovuta agli acquisiti diritti dei lavoratori conseguenti alle lotte) ed il piano delle élites internazionali (quello Werner incluso), annegarono sul nascere ogni ulteriore velleità. Tutta storia narrata in modo certosino su questi schermi.
Quanto detto trova puntuale analisi in un libro di L. Barca-G. Minghetti del 1976, dal titolo “L’italia delle Banche”, dove si critica proprio l’indirizzo di politica economica dei 15 anni precedenti (ed in particolare, la mancanza di programmazione ex art. 41, comma III, associata alla politica monetaria. Non è un caso che Mortati individui nella norma citata il pilastro strumentale della “Costituzione economica”) che ha permesso il dominio del capitalismo finanziario. A danno delle stesse imprese che, evidentemente, avevano altri programmi.
Chissà se un giorno riusciremo a vedere una programmazione economica globale attuata secondo Costituzione. Anche solo per capire l’effetto che fa…
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