Il jihadismo in Europa, così come lo conosciamo, è un fatto contemporaneo. Lo troviamo un po’ ovunque, laddove giovani uomini e giovani donne (spesso poco più che adolescenti), convertiti e non, prendono la via di quel filone dell’islamismo che dalle lezioni di Sayyid Qutb fino al sedicente califfato dell’IS definiamo radicale. In realtà la questione, se ci si rivolge ai fatti e non alle parole, non è poi così confusa come ci sembra dalla sua eccesiva mediatizzazione. Per comprendere il fenomeno basta riferirsi alla storia, più che ai tentativi fallimentari di certi dibattiti delle scienze sociali, di opinionisti, giornalisti e politologi che cercano di applicare categorie (spesso inapplicabili) a un mondo, quello dell’islam, di cui sono completamente a digiuno; di chi in tivù, in un estremo singulto della sua innocenza, si improvvisa teologo e sposta la questione del jihadismo come fenomeno politico-sociale sulla legittimità dottrinale o meno da parte di personaggi come Al Baghdadi e Zarqawi di dire quello che dicono riguardo alla religione. Alla fine l’esito e sempre lo stesso: la solita retorica da scontro di civiltà in cui, macchiati o meno dall’ignoranza e dal timore, riconduciamo tutto al male di una certa fede e alla mentalità di un certo popolo deterministicamente portato a passare dalle profezie agli attentati. Al che bisogna domandare a costoro: a quale islam vi riferite? E così ci godiamo cinque minuti di profondo, istruttivo, silenzio.
D’altra parte in Italia e non solo viviamo in un contesto in cui la religione – la nostra e le altre di conseguenza – vive un momento di perdita ogni struttura di plausibilità, per usare una categoria spesso cara ai sociologi. Non è questo il secolo dei cilici, diceva Ippolito Nievo. Per quanto riguarda l’islam, la verità dei fatti parla per gli esegeti coranici in stile Barbara D’Urso. Si pensi solo a quello che è accaduto negli anni Novanta nel contesto pre e post-guerra del Golfo in Arabia Saudita (mondo sunnita), quando vi è stato uno scontro violento tra quello che è il ceto dei dottori della Legge wahhabiti (teologi e giuristi), gli ulama – coloro che dagli albori sono i depositari della sharī’a (la legge), sapienti e tradizionalisti – e i fondamentalisti, radicali e non.
Islamici conservatori e puri, che più islamici non si può, che si scontrano con i radicali… non è forse una strana retorica per chi pensa che di islam ce ne sia uno, quello votato ai martiri e alla sottomissione della donna? E c’è anche una via più facile e cruda: quella di raggruppare lo jihadismo all’interno di macrocategorie (l’uomo islamico è per natura jihadista in senso radicale, è la sua religione che glielo impone!) è una tendenza smentita dai fatti quotidiani, osservando come il radicalismo, giunto al suo apice proprio con lo Stato islamico, si accanisca, prima che con gli europei, con i primi ipocriti, i primi infedeli, i primi Nemici, che sono il 98% del mondo sunnita, alcuni dei quali sono cadaveri in fila per le strade della Siria, della Libia.
Li chiamiamo radicali, costoro, come radicalizzati chiamiamo i ragazzi europei che si fanno crescere la barba e partono per il Vicino Oriente, principalmente dalla Francia. È una definizione che diamo per capirci, per riassumere un salto di quattordici secoli, dalla grande discordia, dalla divisione tra sciiti e sunniti dopo la morte del profeta Muhammad, fino alla fondazione, negli anni Venti del Novecento dei Fratelli Musulmani di al-Banna – confraternita, partito, movimento sociale… – che lottavano, per un ritorno a un ordine islamico, contro una lunga tradizione di quietismo. Cosa significa? Significa combattere contro il fatto che la divisione tra la dimensione politica e la dimensione religiosa aveva allontanato la comunità dei fedeli, dopo la morte del Profeta, dal modello dell’islam delle origini, laddove il leader di quella comunità (umma) era tanto leader politico quanto leader religioso. Quello della Fratellenza è un passo in più di quella salafiyya (da salaf, che si riferisce appunto ai pii antenati, le prime tre generazioni musulmane) che già a fine Ottocento auspicava un ritorno all’antica fede, a un modello di islam puro, quello dei tempi di Muhammad, consiglieri del principe che adesso il principe vogliono sostituirlo. In altri termini, fondamentalisti, sì, ma neotradizionalisti, con la volontà di re-islamizzare dal basso, tramite l’intervento sociale, la da’wa (l’appello all’islam, la via della virtù), con molta attenzione al politico più che al religioso, senza lanciare anatemi alcuni e senza martiri in nome di Dio.
Poi la figura di quel Sayyid Qutb, il brillante intellettuale e scrittore che, sconvolto dai molli costumi occidentali che aveva veduto con i suoi occhi nel biennio che trascorre negli USA (1948-1950), torna in Egitto e aderisce alla Fratellanza con idee tutte sue. Partecipa all’attentato a re Faruq I, viene incarcerato e in carcere scrive i suoi due testi fondamentali, All’ombra del Corano e Segni di pista, in cui a una nuova esegesi coranica fa seguire un programma d’azione combattente che oggi non fatichiamo a definire radicale. Categoria principale? Il jihad, il conflitto, la guerra. Non quella che ogni musulmano pratica quotidianamente per la propria fede, interiormente (il grandejihad di ogni musulmano), ma quel jihad (il piccolo) che le parole del profeta volevano difensivo, nei confronti di chi minacciava la umma, la comunità islamica, dalla Casa della Guerra degli occidentali, da Qutb ri-declinato in maniera rivoluzionaria come guerra del Partito di Dio contro il Partito di Satana (il Nemico), contro i governanti empi (musulmani e non), contro gli jahiliyyti (gli ignoranti), guerra assoluta a chi, dentro e fuori la Casa dell’Islam, mina all’autenticità del messaggio dell’unico Dio (tawhid) con l’unica legge possibile (la sharī’a). Eccolo, in due (parziali) parole, il radicalismo; ecco, poi, la sua declinazione ancora più radicalizzata dei movimenti terroristici che conosciamo, da Al Jihad (si ricordi l’omicidio di Sadat nel 1981), ad Al Qaida di Zawahiri e Bin Laden, all’IS; ecco l’islam di cui parliamo. I giovani jihadisti europei seguono, chi più chi meno, quest’immaginario.
Quando si parla di jihadisti europei (magari utilizzando l’ambigua categoria di foreign fighters) facciamo riferimento a un contesto ancora più particolareggiato ma, paradossalmente, più palese ai nostri occhi. Perché? Perché prima di parlare di Qutb, del governo filosovietico di Kabul, del jihad, dell’Iraq ecc. stiamo parlando dei fatti nostri. Ragazzi e ragazze europei (in senso largo) che spesso, prima ancora di convertirsi e partire sotto l’egida dell’IS, fumano spinelli nel quartiere di periferia di una grande città, bevono alcolici, delinquono, finiscono ripetutamente in tribunale e in carcere, e sono meno ortodossi, religiosamente parlando, dei già poco ortodossi genitori.
È questione di psicologia e di scienza sociale, non più di religione né di teologia. Chi sono costoro? Il riferimento è, perlopiù, alla Francia. Le ragioni sono almeno due. Primo: l’Esagono ha il più alto numero di mujahidin e muhajirat (uomini e donne impegnate nel jihad) stranieri in Europa (circa 1700, seguiti dai 900 britannici, i 500 tedeschi e i circa 116 italiani, sui circa 5600 presunti combattenti stranieri europei e sui 40.000 in tutto il mondo). Secondo: il dibattito sociologico più importante e ragionato è proprio quello francese e quello riferito al caso francese (se ne sono occupati almeno due importanti scienziati sociali, Gilles Kepelle e Olivière Roy, di tesi esattamente opposte).
Per la Francia, come per gli altri casi, abbiamo un profilo tipo. Il più frequente è quello del giovane di periferia (banlieue in francese). Con banlieue si intende appunto di zone periferiche ai grandi e medi complessi cittadini (vedi Parigi), caratterizzate dalla presenza massiccia di alloggi popolari ad alta densità e a basso affitto, zone che oggi sono sinonimo di intense problematicità sociali, perlopiù abitante da stranieri. Il modello politico-sociale francese è di tipo assimilazionista e nel corso degli anni si è retto sullo scambio politico tra cittadinanza e rinuncia ai particolarismi culturali nella sfera pubblica. In altri termini, ad esempio: niente veli e stelle di David a scuola.
Laddove si è nel pubblico, si è cittadini francesi, non si è né cattolici né musulmani né buddhisti né di sinistra né di destra. Alla fine degli anni Ottanta già ci fu il primo segnale di crisi di una certa Repubblica, la cosiddetta rivolta dei casseurs, giovani che per esprimere una forte domanda di integrazione e uguaglianza si appropriavano tramite rapina e gesti violenti dei beni di consumo della classe medio-alta nel centro-città. Poi, in loco, l’ondata nel 2005 dove si assaltano le scuole, il luogo-simbolo della Repubblica e del suo laicismo secolarizzato. Solo a partire dalla fine degli anni Zero, la battaglia globale e l’adesione al radicalismo.
Le costanti sono queste: giovani e giovanissimi provenienti da una situazione sociale estremamente difficile (povertà, famiglie numerose e disgregate); mancanza di politiche pubbliche che hanno comportato una presenza massiccia di culture in conflitto, con conseguente processo di ghettizzazione e la nascita di culture da strada chiuse; radicalizzazione in rete o, più principalmente, in carcere; la strada è la palestra, non la scuola, non la casa; la stragrande maggioranza sono riconvertiti o neoconvertiti senza essere mai stati osservanti, in domanda di un riconoscimento identitario forte a seguito della crescita di una forma d’odio per le proprie condizioni, per le umiliazioni sociali subite e per l’assenza di riconoscimenti.
Il radicalismo islamico, dopo le due prime rivolte, rimane nella mentalità di questi giovani l’unica opzione. L’adesione accade anche dal momento in cui il convertito non viene dalle periferie, ma dalla classe media, caso (meno frequente) che rappresenta in pieno una certa crisi proprio di quella società: delusi da un cattolicesimo che non riesce più a comunicare nulla (di nuovo: mancanza di strutture di plausibilità), magari, questi adolescenti compiono il passaggio all’età adulta rinunciando alle tradizioni di appartenenza, rifiutando un nucleo famigliare post-patriarcale che non fornisce loro alcuna norma o sicurezza, anzi la possibilità di un confuso libertinaggio.
Commenti recenti