Nel suo più celebre zibaldone, Ennio Flaiano annota un episodio avvenuto nel 1968:
Ho visto alla televisione una delle serate di Sanremo. Ero a cena in casa di amici e non ho potuto sottrarmi. Questi amici intendevano vedere la trasmissione per ragioni di studio, essendo psicologhi e interessati ai fenomeni della cultura di massa. Alla fine mi sono accorto che a loro quella roba piaceva. (Diario degli errori, Adelphi 2002, p. 107)
Sarà capitato a tutti di avere un conoscente che si divide in modo apparentemente inconciliabile tra Hegel e X Factor, Mozart e Topolino. La seconda metà del Novecento ha visto alternarsi varie teorie del consumo culturale, tutte intente ad analizzare la diversificazione delle pratiche di inculturazione e a cercare dei criteri capaci di riportarle a categorie generali. Le premesse condivise da ogni teoria sono tre: anzitutto l’assunzione di un concetto antropologico di cultura, secondo cui non si parla di cultura soltanto per designare la letteratura, le scienze e le arti, bensì in riferimento a costumi e pratiche consuetudinarie delle comunità umane; in secondo luogo, derivante dalla prima premessa, la considerazione delle masse come soggetto (e, per alcuni, oggetto) di consumo, da cui la designazione di cultura di massa; infine lo scarto tra l’ambito della produzione e quello del consumo.
Quest’ultima distinzione non è altro che una riproposizione del contrasto tra il mondo contadino, in cui quasi tutto ciò che si consuma, compresa la cultura orale e materiale (si pensi a ciò che oggi viene chiamato patrimonio ed è costituito da racconti, usi linguistici, fiabe, proverbi, tecniche e strumenti di lavoro, tramandato nei ceti inferiori dalla generazione più attempata a quella più giovane), viene autoprodotto dal nucleo familiare o dalla piccola comunità, e mondo industriale e cittadino, caratterizzato da un modello in cui ciò che viene consumato è prodotto in luoghi completamente estranei. In ubiqui contesti di globalizzazione, l’oggetto di consumo – sia tangibile, come indumenti, cibo, strumenti, sia intangibile, come i programmi radiotelevisivi, le arti espressive e così via – viene prodotto industrialmente e venduto sul mercato.
L’industria culturale come Gestapo disneyana.
Tutto ciò va oggi sotto il nome di industria culturale, espressione divenuta di uso comune grazie a un capitolo della Dialettica dell’illuminismo (1947) di Horkheimer e Adorno. Quest’ultimo, in particolare, è una figura emblematica della critica alla cultura di massa. Di padre ebreo, Adorno scelse nel 1937 l’esilio dalla Germania nazionalsocialista, muovendosi prima in Inghilterra e poi negli Stati Uniti. Qui venne a contatto con una società nuova, tanto distante dal milieu dell’alta cultura europea quanto dedita alle attività del tempo libero, al consumo di massa di cinema, radio, letteratura da giornale, rotocalchi e altri prodotti realizzati industrialmente. Ciò che molti ritengono la vittoria della democrazia, in cui ciò che prima era precluso ai molti ora è reso disponibile a tutti dai bassi costi di produzione e dalla diffusione delle merci coeva al mercato capitalistico, agli occhi di Adorno apparve come una distopia in cui la cultura, conseguentemente alla sua massificazione, diviene superflua e priva di contenuti. A tale processo si accompagna la spersonalizzazione dell’individuo, ridotto a soggetto la cui vita consiste nel consumo alacre di prodotti culturali anche in stato di distrazione (Dialettica dell’illuminismo, Einaudi 1966, p. 137).
Adorno rimprovera all’industria culturale il dinamismo per cui nulla deve restare com’era, tutto deve continuamente scorrere, essere in moto (p. 145); come per la struttura capitalista, affinché il sistema non collassi è necessario un celere ritmo di produzione meccanica, in cui tuttavia nulla muta. Ci si affida a quelli che egli chiama tipi formali congelati, modelli identici su cui ogni prodotto culturale (sketch, canovacci cinematografici, canzonette) viene modellato.
La civiltà attuale conferisce a tutto un’aria di somiglianza. Film, radio e settimanali costituiscono un sistema, […] non hanno più bisogno di spacciarsi per arte. La verità che non sono altro che affari, serve loro da ideologia, che dovrebbe legittimare gli scarti che producono volutamente (pp. 130-131).
Tutto ciò viene riletto in rinnovata chiave marxista: nella sua apparenza di leggerezza, l’onnipresente cultura di massa si rivela come una sovrastruttura che nasconde in sé la violenza della struttura, cioè del dominio economico da cui scaturisce l’industria culturale. Così Paperino, il più amato ed empatico dei personaggi Disney, non è altro che una rappresentazione del consumatore, un poveraccio infelice che nel ricevere le botte abitua gli spettatori a riceverle dalle classi dominanti; il piacere della violenza ricevuta dal personaggio diviene violenza contro il consumatore che sta di fronte al grande schermo. La massificazione culturale è l’espediente a cui il capitalismo ricorre nel momento in cui deve abbandonare strutture coercitive esplicite. Grazie ai film, alla musica leggera, alla radio, ai prodotti seriali, il capitale plasma la coscienza individuale e la rende subalterna al dominante. Ci troviamo, secondo tale visione, di fronte a un totalismo peggiore di quello nazionalsocialista, perché subdolo, capace di penetrare negli spazi più intimi dell’individualità. Ricostruendo la logica adorniana, si ha che:
1) La cultura di massa, prodotta secondo meccaniche seriali e scevra di una componente autenticamente artistica, riproduce modelli banali e sempre uguali, sebbene frutto di una frenetica industria;
2) Nulla di ciò che la cultura di massa promette (felicità, svago, divertimento) viene realmente dato allo spettatore, anzi in ogni sua manifestazione il consumo rappresenta lo spettatore non soltanto come subalterno al sistema economico dominante, bensì anche impotente di fronte alle sue logiche, secondo la nota formula per cui divertirsi significa ogni volta: non doverci pensare, dimenticare il dolore anche là dove viene mostrato (p. 156);
3) La cultura di massa ha dunque la funzione di conservazione dell’ordine, è il megafono del padrone;
4) Considerata la sua pervasività e la sua diffusione, l’industria culturale rappresenta l’avanguardia di un totalitarismo in grado di costruire un uomo nuovo, modellato sul prototipo dell’uomo perfettamente massificato, inerte, asservito, uniformato dalla pratica del consumo.
Questi punti sono ripresi e sviluppati dalla tradizione che va dai citati Horkheimer e Adorno alla nuova sinistra di Herbert Marcuse e alla scuola del recentemente scomparso Zygmunt Bauman. È un indirizzo di analisi dei fenomeni culturali che ha avuto fortuna e seguaci, tanto da finire essa stessa in qualche modo una critica di massa (nel doppio senso del genitivo soggettivo e oggettivo), ma anche numerosi critici.
L’approccio semiotico e i significati latenti.
La semiologia, per esempio, si è sviluppata in parziale contrapposizione agli autori succitati. Uno dei più efficaci rimproveri mossi ai francofortesi da autori come Umberto Eco e Roland Barthes è che tali analisi soffrono di unilateralità, cioè analizzano la cultura unicamente dal punto di vista di chi la produce. Un film o un fumetto non possono essere ridotti a un tentativo totalitario di assoggettamento del fruitore al sistema che ha prodotto l’opera. In verità, un prodotto culturale non si manifesta necessariamente allo spettatore secondo le intenzioni di chi lo ha creato, ma può rivelare significati estranei all’universo culturale dell’autore. Ciò spiega la necessità di un’analisi semiologica che, oltre al contenuto esplicito, sia attenta ai messaggi nascosti o latenti.
Una categoria fondamentale dei semiologi è quella di mito, con la quale interpretano i costumi di massa (cfr. R. Barthes, Miti d’oggi, e U. Eco, Apocalittici e integrati). Questa non è mero oggetto di consumo, anzi su di essa si stratificano significati superiori attraverso la diffusione mass-mediale. Pensiamo a come lo sport viene raccontato dal giornalismo e vissuto dal pubblico: sotto lo strato della cronaca e del racconto dei fatti sportivi, va in scena una rappresentazione mitologica in cui gli atleti sono dei moderni eroi omerici. La società borghese secolarizzata non si manifesta attraverso dogmi e dottrine di carattere sacro, bensì per mezzo di un diffuso immaginario reso forte dalla sotterranea mitizzazione dei fatti, cioè dalla sottrazione dei fenomeni culturali dalla dimensione storica che gli appartiene, proiettando sulle attività culturali (quelle sportive, per esempio) la sua morale.
Attraverso l’analisi semiologica si va oltre la patina di superficialità e mediocrità che costituisce il primo involucro della cultura popolare, la quale viene in tal modo sottratta alla dimensione barbarica nella quale era stata reclusa da Adorno. Al di là di ogni esagerata interpretazione adorniana dell’industria culturale come Gestapo disneyana, la scuola semiologica degli anni Sessanta mostra che nelle cultura di massa sussistono elementi morali e pedagogici indipendenti dalle intenzioni di chi inventa, produce e diffonde il prodotto.
Abbiamo così esposto un altro stadio, quello semiologico, della critica alla cultura di massa. Ma basta forse rilevare, per esempio, che il fumetto è un modo di veicolare valori egemonici presenti o meno nella mente del disegnatore? È soddisfacente fermarci di fronte all’affermazione che il consumo culturale di massa possiede una serie di messaggi che veicolano la morale della società borghese e che l’intellettuale deve decifrare e rendere espliciti? Oppure hanno ragione i francofortesi a delineare la cultura di massa come nuovo oppio dei popoli?
La parzialità dell’approccio unilaterale: ascoltare il jazz ma non il fruitore.
La questione è più complessa di quanto possa sembrare attraverso il filtro di francofortesi e semiologi. L’approccio di Adorno al jazz, in tal senso, è emblematico. Tralasciando gli aspetti musicologici e le sfumature che il tema assume in vari scritti, si può affermare che la critica al jazz e alla musica leggera sia incentrata sull’idea che tali generi artistici si basano su una falsa originalità, la quale non nasconde altro che la ripetitività di una cattiva musica, fondata su schemi metrici e armonici ristretti e banali, anche laddove essa si produce in improvvisazioni. Inoltre, poiché è accompagnato nell’ascoltatore da una posa da esperto e da un atteggiamento da bohémien, il jazz è ancora più caricaturale. Lungi da rappresentare il frutto di una genialità musicale, è invece il prodotto di una pseudo-individualizzazione stereotipata che fa della musica una merce da mutare in feticcio, replicando le logiche della massificazione dell’ultima fase capitalista. Ora, è concesso domandarsi perché nell’esaminare il fenomeno in questione Adorno non si ponga mai il problema di indagare sul significato che il fruitore di jazz dà al consumo di quel genere musicale. Questa considerazione abbraccia ogni forma di cultura di massa. Per quanto suggestiva ed elitaria, l’impostazione adorniana non lascia alcuno spazio all’espressione del consumatore, il quale potrebbe invece ri-significare il consumo. Come si possono giudicare correttamente gli effetti che un prodotto ha sul fruitore considerando soltanto le caratteristiche del primo (l’oggetto culturale consumato) e mai quelle del secondo (il consumatore)?
In altri termini, l’approccio unilaterale (analisi del prodotto) non può spiegare da sé il fenomeno del consumo culturale, che è invece costituito dalla relazione tra fruitore e prodotto. La consapevolezza di tale problema è stata progressivamente messa in luce nel corso del tempo. Se, come abbiamo visto, i semiologi affermano l’esistenza di significati latenti che prescindono dall’autore, c’è chi va ancora più a fondo. Possiamo infatti pensare al consumo non come un sistema sovrastrutturale di riproduzione dei rapporti di forza tra il dominante che ha in mano i mezzi di produzione – siano essi economici che culturali – e la massa passiva subalterna (approccio marxista-francofortese), né come un codice da decifrare (approccio semiologico), ma come un sistema in cui agiscono attivamente concreti attori sociali. In cosa, all’atto pratico, tali soggetti inizialmente pensati come passivi fruitori sarebbero attivi?
L’approccio differenzialista: consumo, ergo mi distinguo.
Già nell’ultimo scorcio dell’Ottocento era stata formulata una interpretazione che, per quanto schematica, è degna di interesse. Nella sua Teoria della classe agiata (1899) Thorstein Veblen caratterizza il consumatore come soggetto di posizionamento sociale, vale a dire come soggetto che modifica i suoi usi non tanto in base al soddisfacimento dei bisogni, quanto attraverso un meccanismo di emulazione che permette di distinguersi e di eccellere rispetto agli altri. Così, le nuove classi medie agiate adeguano il proprio stile di vita a standard in cui l’elemento morale prevale su quello economico (o dei bisogni). In sostanza,
i comportamenti di consumo non vengono adottati per la loro intrinseca appetibilità, bensì per la loro capacità di comunicare la propria superiorità rispetto agli strati sociali inferiori e per tentare di raggiungere, in un continuo processo di socializzazione anticipatoria, il livello della classe immediatamente superiore. (P. Parmiggiani, Consumo e identità della società contemporanea, Angeli, 1997, pp. 110-111)
C’è dunque, secondo Veblen, un campo di definizione dei rapporti (tra classi) sociali su cui gli uomini si posizionano per mezzo delle pratiche di consumo. Scorgiamo in tale teoria un’anticipazione della nuova impostazione alla critica del consumo culturale, capace di rovesciare le interpretazioni che abbiamo sommariamente illustrato sopra. Nelle analisi più recenti il consumo è veblenianamente un modo per distinguersi, non per uniformarsi, anche laddove si presenta come massificato. Lungi da ridurre l’uomo alla triade produci-consuma-crepa voluta da una sorta di cospirazione capitalista, orientare i propri consumi è al contrario un modo per ricondurre sotto il proprio controllo una pratica che altrimenti sarebbe alienante.
Il manifesto di tale differenzialismo è La distinzione (1979) testo del sociologo francese Pierre Bourdieu. Egli intende superare sia la visione oggettivista, che si concentra sugli aspetti oggettivi delle pratiche culturali ignorando la dialettica tra consumatore e cultura, sia l’approccio soggettivista, che si concentra sulla percezione dell’agente concreto; la loro parzialità può essere curata introducendo il concetto di habitus, l’insieme di disposizioni, conoscenze, schemi di percezione frutto di condizioni oggettive che il soggetto, proprio in quanto parte di un corpo sociale, acquisisce involontariamente in modo duraturo. In altri termini, l’habitus costituisce il principio che genera e organizza le pratiche di uno stile di vita unitario in qualche modo “inconscio”, o perlomeno estraneo a una definita e consapevole padronanza delle scelte, ed è dunque qualcosa che noi ereditiamo e riteniamo “naturale”.
A questo va aggiunto il concetto di campo, cioè il luogo in cui si riversano le risorse di capitale che l’individuo possiede. Tale capitale, che può essere culturale (grado d’istruzione, ma anche consuetudini e stili ricevuti dal gruppo sociale) o economico (posizionamento di classe), influisce sull’habitus, e permette una classificazione generale delle tipologie sociali: ci sono 1) ceti ad alto capitale economico e culturale, come l’aristocrazia e la vecchia borghesia di lungo corso, 2) ceti che possiedono alto capitale economico ma basso capitale culturale, come i parvenus e la nuova borghesia che non ha ancora trasformato le risorse finanziarie in cultura, 3) ceti a basso capitale economico ma alto capitale culturale, quali le professioni che ruotano intorno al sistema dell’istruzione (studenti e docenti universitari, insegnanti, giornalisti e intellettuali), infine 4) ceti a basso capitale economico e culturale, come le classi popolari.
Il Lambrusco e il Dom Pérignon.
Nella grammatica bourdesiana, il soggetto si muove nel consumo culturale in queste griglie posizionali, scegliendo attivamente i propri oggetti di consumo per distinguersi dai ceti con diverso capitale. Le strategie individuali o collettive di distinzione non sono però emulative, come credeva Veblen, per il quale il ceto in questione consuma per accedere alla classe superiore secondo un canone di rispettabilità, sono invece distintive o demarcanti rispetto a ceti inferiori. Facili esempi di tale logica sono le scelte del vestiario di marca immotivatamente ed eccessivamente costoso ostentato dalle celebrità, o ancora la partecipazione a spettacoli operistici perpetrata da soggetti che, evidentemente più interessati al posizionamento sociale che alla rappresentazione scenica, puntualmente si addormentano nel palchetto in preda alla noia. Ma non solo. Anche esercitare questo sport e non quello, presenziare in alcuni luoghi di aggregazione e non in altri, bere un particolare tipo di vino, apprezzare certe letture e disprezzarne altre, tutto ciò appartiene alla strategia per attestarsi come appartenente di un ceto dominante o subalterno.
Il consumo di prodotti culturali assume perciò significato sociale e contribuisce a definire i propri disgusti in base ai gusti delle categorie economico-culturali prossime al soggetto. Tuttavia, i significati assunti dagli prodotti di consumo non sono eterni, anzi mutano in relazione a un complesso sistema di fattori (il genere di appartenenza, l’età, ecc) su cui ha un peso determinante lo scorrere del tempo: ciò che oggi ha una certa funzione distintiva, in futuro potrebbe averne un’altra. Seguire il campionato di calcio in Italia ha un significato diverso che in Francia, dove è quasi del tutto prerogativa dei ceti popolari e delle famiglie immigrate; bere Lambrusco è diverso dal consumare Dom Pérignon; guidare una vecchia Fiat 500 nell’anno Domini 2018 non possiede la stessa valenza che aveva negli anni Settanta. La lezione fondamentale, ossia che ogni atto di consumo è allo stesso tempo un’affermazione di gusto e una conversione dei beni e delle pratiche culturali in segni di distinzione, rimane però invariata. Come Bourdieu scrive altrove, gli oggetti, gli usi e le maniere
funzionano, in ogni società, come differenze costitutive di sistemi simbolici, come l’insieme dei fonemi di una lingua o l’insieme dei tratti distintivi e degli scarti differenziali che costituiscono un sistema mitico, ossia come segni distintivi. (Ragioni pratiche, Il Mulino 1995, p. 21)
Making love in supermarkets.
In conclusione non possiamo non accennare, seppur brevemente, all’approccio quantomeno originale (nelle sue implicazioni “religiose”, che qui trascureremo) del britannico Daniel Miller. A differenza dei critici della cultura di massa, Miller ha assunto una posa di osservazione partecipante – diremmo correttamente etnografica – nei confronti del consumo di beni, parlando con le persone nell’ambiente che egli ha eletto come oggetto di studio, vale a dire il supermercato. I risultati della sua ricerca restituiscono un’immagine decisamente diversa da quella che la critica del consumo tende a dare. Lo shopping, lungi da essere un’attività alienante compiuta da soggetti in preda all’egoismo e all’edonismo, appare piuttosto come un terreno su cui si intrecciano i sistemi semantici e gli universi morali dei consumatori. È il caso, tra gli altri, della consuetudinaria spesa delle casalinghe.
Miller rileva che, nella scelta degli oggetti da acquistare, le donne che intrattengono relazioni materne o coniugali si orientano in base alle necessità, ai gusti e alle urgenze dei familiari più prossimi, in genere mariti, figli e parenti stretti. La spesa diviene così un rituale atto di amore, una manifestazione dei sentimenti nutriti per i propri affetti, un sacrificio che viene bilanciato soltanto da un oggetto che la casalinga compra per sé, sì da gratificare se stessa per lo sforzo compiuto verso i familiari. Insomma, ciò che l’industria genera e distruibuisce in modo seriale, viene ri-creato dal processo di significazione del consumatore, che in qualità di soggetto sociale dà un valore personale al prodotto di consumo, come Flaiano ha pur criticamente notato nei suoi amici: Sanremo non è per tutti la stessa cosa.
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