L’individuo della società contemporanea è un soggetto di cui non si riconosce più un’identità fissa, stabile, coerente. L’inizio dell’epoca postmoderna – che possiamo collocare indicativamente negli anni Settanta del Novecento – ha infatti avviato un processo di transizione verso nuove forme d’identità che non rispecchiano più i paradigmi di stabilità tipici dell’epoca moderna. La civiltà del Capitalismo perfettamente realizzato ha in definitiva frantumato l’unità del soggetto; ne ha liquefatto l’identità per poterla adattare e normalizzare verso l’unica fonte di riempimento di senso esistenziale: il consumo. L’individuo è gettato in un circuito edonista, nel quale la seduzione di oggetti e immagini producono una reiterazione del desiderio a cui non consegue mai una piena soddisfazione, perché viene sempre nuovamente sedotto da altri oggetti del consumo. L’assenza di qualsiasi senso esistenziale determinato da questa nuova forma d’identità liquefatta si configura, nelle sue articolate conseguenze, come un problema di natura sociale. Il consumo è un atto individuale e perciò non vi è nessuna autenticità nel delegare i processi di riconoscimento sociale all’acquisto di oggetti consumistici che possa colmare quest’assenza. Ma allora, come poter riempire questa mancanza? Dove poter rinvenire nuova linfa esistenziale?
Zygmunt Bauman spiega il concetto di identità liquida.
Il lavoro ha giocato sempre un ruolo fondamentale nella costruzione dell’identità degli individui e nella realizzazione – anche sociale – della propria vita: componenti essenziali nel perseguimento della felicità. Il lavoro infatti, non è solamente fonte di autonomia economica, necessaria alla conquista della propria libertà sociale; ma contribuisce anche all’auto-realizzazione degli individui attraverso la creazione e produzione di oggetti nei quali potersi identificare; nei quali poter riconoscere la propria soggettività, conferita nel momento in cui li si realizza. Questi elementi consentono all’individuo di avere un ruolo nella società e ad averne coscienza, a cui consegue quindi un riconoscimento sociale autentico.
Nell’epoca moderna, quest’ultimo aspetto si è declinato nella forma di una coscienza collettiva di classe, particolarmente evidente nelle due classi sociali protagoniste dell’Ottocento e del Novecento: borghesia e proletariato. Entrambe le classi infatti hanno riempito di senso la propria esistenza grazie al lavoro, ma lo hanno fatto in due modi diversi: la borghesia attraverso la conformazione a particolari valori, credenze e ideali che riempiono di significato teologico il lavoro; il proletariato invece, attraverso la coscienza della propria condizione lavorativa alienata e del proprio stato di subordinazione nei confronti del padrone.
Se nella classe borghese, una tipologia determinata di lavoro – quella di natura intellettuale, che permette altresì di avere un reddito elevato – è la matrice attorno alla quale ruota tutto un insieme di valori, di ritualità e di forme sociali in cui potersi identificare; nella classe proletaria invece, l’identificazione la si riscontra non nel lavoro alienante in sé, bensì in un sentimento collettivo di riscatto sociale, che sfocerà nel conflitto di classe contro la borghesia e quindi nella prospettiva rivoluzionaria marxiana. Risulta infatti impossibile trovare un senso alla propria esistenza nell’alienazione: in primo luogo, si accetterebbe la propria subordinazione al padrone; in secondo luogo, il lavoratore accetterebbe di essere solo parte di un grande meccanismo: un braccio meccanico che muove ripetutamente le macchine col fine di produrre quanti più pezzi possibili, di cui non conosce le caratteristiche, l’utilità e lo scopo. È impossibile rinvenire la propria identità nella produzione di un oggetto – o meglio, in un suo pezzo – di cui non si conosce niente.
Io sono una macchina! Io sono una puleggia, io sono un bullone, io sono una vite, io sono una cinta di trasmissione, io sono una pompa!
(La classe operaia va in paradiso)
Ma il problema del lavoro alienante non è solo l’incoscienza di ciò che si produce. L’utilizzo di una macchina per compiere un determinato lavoro fa si che la conoscenza e la fatica da investirvi sia notevolmente ridotta.
Il lavoratore insomma, eseguendo ripetutamente pochi e semplici gesti, riduce la soggettività da conferire nella creazione o nella produzione, in quanto è la macchina a svolgere i passaggi fondamentali per portarlo a compimento. La macchina acquista una razionalità a-coscienziale tale da rendere obsoleta l’abilità, la coscienza e la capacità del lavoratore, il quale non sarà più capace di trasmettere la propria soggettività nel prodotto finito, vedendo così annullata la possibilità di identificarsi in esso. L’individuo vede assorbire le proprie capacità da meccanismi privi di coscienza. Per di più, nella società di oggi il fenomeno dell’alienazione rischia di fare irruzione anche nel campo dei lavori di natura intellettuale. Lo sviluppo tecnologico ha portato ad un’invasione di sistemi algoritmici e informatici che non solo ha fatto sparire – e continuerà a farlo – tantissime tipologie di lavoro; ma l’invasione di questi sistemi negli ambienti lavorativi comporta, ovviamente, un pesante deficit soggettivo di senso da parte del lavoratore per i motivi che sono stati delineati sopra.
Emilio Petri – La classe operaia va in paradiso
Questa condizione di alienazione nel lavoro non si è mai estinta quindi: già in Marx possiamo riconoscere due possibili vie di emancipazione rispetto al lavoro subordinato. La prima fa perno appunto sul concetto di alienazione, la cui esperienza porta ad una deformazione del rapporto tra lavoratore e cosa prodotta; ma soprattutto ad una deformazione dell’esperienza lavorativa stessa. La prospettiva emancipativa che si sviluppa secondo questo paradigma è la liberazione del lavoro: la liberazione di un certo modo di lavorare e di una certa organizzazione del lavoro: quello alienante.
Se la prima via fa perno sull’esperienza umana del lavoro, il secondo cardine entro cui si sviluppa una differente prospettiva emancipativa è la figura del lavoratore stesso: liberare chi lavora. Il concetto fondamentale che domina è quello di plus-valore, attraverso il quale il proletariato può assumersi un ruolo sociale, divenire un soggetto politico e storico e condurre così la lotta al Capitale e la conquista del potere. Sarà quest’ultima infatti che si presterà come modalità storica d’emancipazione prediletta dal proletariato, configurandosi definitivamente nella Rivoluzione russa del 1917.
Riassumendo, trovare un’identità nel lavoro subordinato e alienante sarebbe possibile solamente nel momento in cui venisse a costituirsi una coscienza collettiva di classe relativa alla propria condizione lavorativa di esistenza: una possibilità che però non può più esistere perché nella postmodernità è assente qualsiasi prospettiva rivoluzionaria. La causa di quest’assenza è da cercare in primo luogo nei processi storici che hanno condotto alla cosiddetta fine delle Grandi Narrazioni, ovvero la fine dei racconti prodotti dalle ideologie politiche. La dittatura staliniana come esito della rivoluzione proletaria in Russia e la definitiva sconfitta del blocco sovietico culminata nella caduta del Muro di Berlino nel 1989: sono sostanzialmente i due elementi storici che hanno chiuso definitivamente ogni possibilità di emancipazione rivoluzionaria.
In secondo luogo, la vittoria del capitalismo consumistico e perfettamente realizzato, determinata proprio da questa cesura storica, ha prodotto un sistema in cui le anomalie potenzialmente rivoluzionarie vengono immediatamente assorbite dal Capitalismo, il quale neutralizza le anormalità riconoscendole e trasformandole in flussi energetici edonistici completamente governati dal consumismo.
Per concludere, il lavoro può ancora costituirsi come uno dei fattori che concorrono a formare l’identità degli individui? Può ancora riempire di senso esistenziale la vita delle persone? Purtroppo la risposta non può che essere negativa. Le due macro-tendenze generate dall’innovazione tecnologica e dalla New Economy, ovvero la sostituzione dei lavoratori con le macchine e la precarizzazione del lavoro, hanno modificano l’assetto organizzativo del mondo del lavoro, che comporta un’inevitabile incertezza rispetto alla propria condizione di lavoratore. Non solo: secondo questa prospettiva, il tempo libero diventa l’unico spazio di ricerca di una propria identità, che nell’attuale società capitalistica e postmoderna si traduce nel tempo e nello spazio del consumo.
Il problema che scaturisce da questa concezione è duplice: in primo luogo, il medium attraverso cui compiere le esperienze di consumo è il denaro, mezzo acquisibile solo ed esclusivamente attraverso il lavoro, che in questo modo diventa irrimediabilmente mera fonte occupazionale; strumento che rende possibile, in un secondo momento, l’attività di consumo.
CCCP – Morire
In secondo luogo, l’identità trovata per mezzo del consumo è inautentica, effimera e assolutamente non solida: frantumata e orientata esclusivamente a pratiche di consumo anche contraddittorie tra loro. Il lavoro pertanto risulta essere un ulteriore fattore di formazione dell’identità che nell’epoca postmoderna può considerarsi oramai liquefatto; liquefazione peraltro determinata da una precisa concezione economica, la New Economy, e da determinate politiche economiche che ne hanno agevolato l’espansione, nonché da uno sviluppo tecnologico esponenziale che continua ad accompagnarne la crescita.
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