Una battaglia politica ed esistenziale tra il “si vive” e “l’esserci”
di GABRIELE GERMANI (PAGINA FB)
Credo che alcuni degli argomenti che stiamo discutendo del presente e del futuro (reddito di cittadinanza, crescita economica, bolla finanziaria, BRCIS, socialismo di mercato, rapporto centro-periferia, criptomonete, intelligenza artificiale, ridurre i consumi o colonizzazione dello spazio), quanto del passato (apprendimento dell’agricoltura, comparsa della gerarchia, nascita dello Stato, avvio della globalizzazione, divario Oriente-Occidente, pendolo euroasiatico) abbiano alcuni elementi in comune: tutti coinvolgono indirizzi di pensiero che condizionano il nostro modo di essere, agire e programmare.
I principali quesiti riguardano: la diversa distribuzione della ricchezza (tanto nel passato, quanto nel futuro), la diversa distribuzione della creatività/serenità (possiamo essere ricchi, ma se per farlo dobbiamo vivere in aree inquinate, poco sicure, lavorare come schiavi, non avere amici, non veder crescere i figli, siamo dei miserabili) e il senso storico -se ne avete bisogno metafisico- di tutto questo. Tutte questioni in secondo piano, perché siamo presi da false priorità: i rapporti di potere, la pubblicità, l’intrattenimento di massa, l’etica del lavoro.
Credo che in Occidente sia ormai sempre più chiaro che uno dei nodi stia diventando il modello produttivo-esistenziale incentrato sul lavoro come sfruttamento di ogni spazio fisico e mentale.
La nostra società si definisce sul lavoro come specchio di noi stessi nel mondo (la seconda domanda, dopo “Come ti chiami?”, è “Di cosa ti occupi? Cosa fai?”, complici film e serie che ci hanno abituato a pensare e parlare come loro), come normalità, come parametro esistenziale (“la realizzazione di se stessi nel lavoro”, come se qualcuno potesse essere felice di spostare fogli in ufficio, emettere sentenze, fare turni di notte, sorvegliare e punire).
Non sono esclusi i molti contenti del loro lavoro, che poi si scontrano con il non poter prendere permessi, il doversi alzare la mattina, il non poter prendere malattia. Nessuno gode nel diventare una pianta, ma un hobby è diverso da dover lavorare (sempre, con orari fissi e obbedendo a qualcuno, sia un superiore, il capo-ufficio, i clienti, la banca o “il mercato”).
Il lavoro -come un tempo il militare per i giovani senza disciplina- diventa nel chiacchiericcio “necessario”, “esperienza formativa”, “vanto”, “motivo di orgoglio”, “crescita”, “un modo per imparare a stare in mezzo la gente”, “a relazionarsi”.
I media provvedono bene a rimpinguare questa idea assurda (e psicopatologica) di impegno piacevole nello sfruttamento di sé stessi, nella messa a rendita di sé stessi, “capitalizzare il proprio io”, con storie pedagogiche (come le vite dei santi medievali): “la bidella che fa Napoli-Milano ogni giorno”, “la laureata in medicina in poco tempo perché non dormiva la notte” e via discorrendo.
Fare tutto, fare prima, vivere in ansia, piegarsi ad ogni ricatto, piegarsi ad ogni condizione, è la gavetta, anche a 50 anni (preferisco questo canone a quello dei titoli di studio, perché mi sembra abbiano un retaggio classista -le statistiche confermano- che quelli che iniziano e concludono l’università appartengono spesso a determinati gruppi sociali, fasce di reddito).
Così la povertà diventa un vizio, la malattia una colpa, ma il lavoro non c’è, perché (benvenuti nel capitalismo finanziario), la produzione si è spostata altrove e non possiamo tutti lavorare in banca (anche perché abbiamo delle macchine che ormai lo fanno meglio di noi).
Qui arriviamo al vulnus: abbiamo delle macchine che lo fanno meglio e più velocemente di noi; a me piacerebbe uscire di casa e parlare con le persone di cose interessanti (tra cui i problemi passati, presenti e futuri che ci incombono sopra), invece siamo qui a fare chiacchiericcio: lavoro, gossip su amici e parenti (che in finale sono dinamiche di potere in micro-gruppi), soldi, giudizi moralistici banali e affrettati, intrattenimento vuoto, problemi grandi affrontati in modo disinformato.
Una battaglia politica ed esistenziale tra il “si vive” e “l’esserci”.
Certo, possiamo dare la colpa a ChatGPT e sostenere uno dei peggiori governi della storia repubblicana (se la batte con Draghi e Monti), possiamo fare i luddisti o forse possiamo cominciare ad analizzare interessi economici dietro certi peana dell’intelligenza umana, quali aziende (o Stati) ci guadagnano e perdono dai tentativi di rallentare un singolo attore, tentativo di rallentare velleitario tra le altre cose…
La riflessione va portata su due piani:
1) La diffusione dell’istruzione di massa, di internet, dei social ha creato una società dove le informazioni circolano più velocemente. Informazioni non va però inteso necessariamente come “qualità”, anche la canzone delle tagliatelle di nonna Pina è un’informazione nell’etere. La nostra società crea un esercito di pensatori stupidi concentrati su notizie di poco conto per aumentare la produttività e rendere più veloci i consumi.
2) A costo di diventare noioso, ci sono quattro-cinque macro-argomenti che ci riguardano tutti e che delineano che tipo di futuro avremo; come civiltà occidentale (al momento leader e presunta iniziatrice di questo ciclo tecnico-economico) se vogliamo sopravvivere al diluvio che abbiamo avviato, è arrivato il momento di cominciare a rifare Teoria Critica, in modo sistematico, in varie discipline, penso che sia doveroso riprendere la tradizione della Scuola di Francoforte e ricominciare a dire che c’è un aspetto oscuro nell’Illuminismo, nella volontà di portare scienza e diritti ovunque vi è un qualcosa di totalitario che, ad esempio, Simone Weil colse.
Non dico di arrivare a fughe mistiche, ma è ora di prendere atto del diluvio e cominciare a decidere: se vogliamo costruire un’Arca e cosa vogliamo portarci sopra e che le distopie sono il presente.
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