La psicopolizia: come la democrazia reprime il dissenso
di OLTRE LA LINEA (Roberto Siconolfi)
Tra i nuovi modelli repressivi messi a punto dalla struttura di potere vi è la psicopolizia. In un modello formalmente democratico non c’è bisogno di imponenti apparati militari visibili: è il controllo delle menti che fornisce la capacità di reprimere.
Tutto l’apparato mainstream concorre a questo lavoro. Facendo un’analisi di tipo marxiano esso è la sovrastruttura attuale, al posto di ideologia e politica come storicamente intese. Modellando bisogni, inconscio, visioni del mondo e colonizzando l’immaginario (cit. Latouche), le élite presidiano l’individuo nella sua sfera coscienziale, talvolta toccandone i desideri più intimi.
In ultim’analisi si crea quel meccanismo tale per cui il sistema non ha bisogno più del cane da guardia (apparati segreti, leggi speciali, meccanismi autoritari) ma il popolo si reprime da sé, non liberando quello che in cuor suo o nella sua mente reputa vero.
In questo quadro si erge la figura dello psicopoliziotto, termine utilizzato da George Orwell nella sua celebre opera 1984. Egli è un vero e proprio soldato a difesa dell’establishment, talmente pervaso dal controllo mediatico che non accetta l’esistenza stessa di chi non se ne fa influenzare. In pratica abbiamo delle forme mentis non avvezze alla riflessione critica, o che la inseriscono in segmenti di pensiero già impostate da altri per loro.
Su questa base, dunque, si crede studiando Marx si possa essere comunista, leggendo Pound fascista, vicini alla borghesia o ai lavoratori, alla fede o all’ateismo, all’evoluzione o alla creazione, punk o amante del jazz, e da qui tutto il categorizzabile possibile.
In altre parole, il fatto stesso che si possa concepire qualcosa di diverso e trasversale nello studio, nel relazionarsi e nel modo di vedere la realtà dà fastidio. Ricordiamo anche l’attitudine alla pigrizia o all’agorafobia intellettuale (cit. Costanzo Preve).
È molto comodo ragionare sulla base di schemi non corrispondenti al presente e che, tra l’altro, il sistema stesso ha sussunto e fatto propri. Ad esempio, in molti casi ci si definisce marxisti pur essendo funzionali a centri di potere e multinazionali varie (economiche, modaiole, umanitarie, ecc.).
Al tempo stesso, si ha talmente paura di dire la propria che si finisce col concorrere perfettamente al conformismo di pensiero; la suddivisone in categorie fa sentire sé stessi, in realtà identici ad altri, conferisce una sensazione di libertà.
Altro tema fondamentale è l’”amore” per il pensiero unico e per le verità calate dall’alto. La critica a determinati schemi tipici della società contemporanea fa inorridire. Guai a ipotizzare altri scenari geopolitici, a mettere in crisi determinati postulati scientifici – o meglio scientisti–, guai a porsi delle domande su tutta una serie divagazioni definite forzosamente “diritti”: di esempi, ne abbiamo a bizzeffe.
L’uomo conformato ama tanto la struttura di potere e quelle para-libertà che essa concede ai suoi schiavi – quelle sessuali parafrasando Huxley –, da comportarsi come in una sindrome di Stoccolma su vasta scala.
In preda ai peggiori demoni dell’isteria e di certa sovversione pilotata, va fuori dai gangheri davanti ad una qualunque forma di ragionevole principio. Essa infatti rappresenta un modello da distruggere, andando a servire, però, ben altri meccanismi di potere, molto più totalizzanti, che si manifestano dietro la maschera della libertà.
In virtù di ciò, è giusto eliminare la religione a prescindere, anche se può essere canalizzazione delle forze dell’anima; è giusto aderire a qualunque stile di vita disgregante, perché è libertà fare sempre quel che si vuole; è giusto mettere in crisi qualunque autorità, per il gusto di farlo e in base a principi mai ben riflettuti.
Naturale conseguenza è mettere in crisi la figura del padre, equiparare la madre a un’amica, sminuire il valore della comunità, tutto per poi eguagliare, democratizzare, abbattere, livellare ecc. Insomma un lavorio continuo che nel giro di poco tempo porterà l’uomo a confrontarsi “meritatamente” con l’ectoplasma.
Il tipo umano ideale per il ruolo di psicopoliziotto è uno in cui la pervasività di stereotipi, blocchi mentali e sciocchezze varie è a livelli esorbitanti. È da qui che si muovono quei meccanismi, talvolta inconsci talvolta no, che provocano quel ribollire interno per cui se non oggi, domani o dopodomani il pensiero non conforme sarà attaccato o emarginato.
La percentuale di colonizzazione coscienziale è talmente alta e i livelli di debolezza spirituale sono talmente forti, che il conformato preferisce aggredire chi si ribella anziché evolvere sé stesso. Sembra incredibile a dirsi, ma i primi a sviluppare simile atteggiamento sono proprio le persone più vicine (parenti, amici e conoscenti).
Oggi che il mondo del web darebbe la possibilità di essere attaccati ad ampio raggio, i più accaniti ad esercitare forme di controllo sono proprio i conformati. Le ragioni psicologiche di tutto ciò sono diverse e poco indagate.
Tra tutte, il fatto che questi soggetti possono sfogare liberamente i propri rancori, su persone le cui reazioni saranno sempre blande. Magari afflitti dal senso di colpa per contrariarsi con un amico, si cercherà, sbagliando, di riconciliarsi.
Errare humanum est, perseverare autem diabolicum, di conseguenza il consiglio per chi vuole intraprendere un cammino di conoscenza, è – dopo due/tre volte – di lasciar stare questi elementi alle proprie rogne. Il dispendio di tempo ed energie mentali è tale che bloccherebbe il vostro lavoro intellettuale, politico o artistico che sia: in questo i governanti raggiungerebbero il loro risultato.
La psicopolizia agisce anche per un altro motivo: chi pensa con la propria testa e non aderisce a schemi preimpostati è un boccone tosto da mandar giù, proprio perché mostra nuove possibilità. Per lo psicopoliziotto è molto più comodo eseguire le cose dettate da altri. “Eseguire e basta” è la sua vita, mostrargli un’altra via o peggio ancora invitarlo a cambiare è operazione assai pericolosa. Egli non lo vorrà mai e detesterà sempre chiunque la proponga, perché vuole essere lasciato al suo mondo di certezze fasulle, manovrate da altri.
I metodi sono sempre gli stessi, sinonimo di viltà: diffamazione, delazione a presunti organi di controllo (osservatori democratici vari), mezzi informatici quali spam e messaggi privati in qualunque momento del giorno. Tutto giustificato da una presunta superiorità morale, il pretesto per attaccare il dissidente senza esclusione di colpi.
Tacciano di razzismo se si osa contestare anche solo l’operato delle ONG; di omofobia se si critica la fissazione gay odierna e l’aberrazione gender; di autoritarismo se si “giudica” – termine improprio visto che si giudica da sé – quello sfiancarsi di spinelli, droghe e superalcolici, ovvero ciò che costoro definiscono “divertimenti”.
Qualcosa per contrastare tutto ciò si sta palesando proprio grazie a internet: le armi dell’ironia sono infatti per ora abbastanza calzanti per far fronte al fenomeno e i meme in particolare risultano particolarmente efficaci, anche perché data la netta inconsistenza culturale, poche battute liquidano tranquillamente i bersagli.
Sarebbe comunque il caso di non rimanere solo sulla difensiva e creare dei centri che con la tattica del ribaltamento, riescano a coagulare informazioni e a rivolgerle contro gli stessi autori del controllo. In tal modo si aprirebbero scenari nuovi: le battaglie da mettere in atto sono, infatti, tutte basate sulla divulgazione informativa e sul potere mediatico.
Fonte: http://www.oltrelalinea.news/2017/09/10/la-psicopolizia-come-la-democrazia-reprime-il-dissenso/
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