Perché i professori difendono la bocciatura
di LE PAROLE E LE COSE (Francesco Rocchi)
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Premessa
La bocciatura va a costruire un principio di realtà indispensabile ai fini educativi. Quando si toglie il voto di condotta, la bocciatura, e si progetta un’intera nuova pedagogia focalizzata sul ‘personalismo’ a totale scapito di contenuti e nozioni didattiche oggettive, il principio di realtà viene meno, e insieme a quello anche il senso del limite, così da produrre analfabeti che sono contemporaneamente anche psicotici.
Ne consegue che le nuove generazioni cresceranno con l’idea che tutto viene loro concesso mentre, al contrario, li aspetta un mondo del lavoro precario e violento, privo di libertà alcuna tranne quella individuale. Appunto, si tratterà di una libertà del tutto personale che di solito si manifesta nelle questioni sessuali, oppure di consumo, ma che non permetterà più di procurarsi un’assistenza sanitaria gratuita né diritti al lavoro.
Gli studenti delle epoche precedenti avevano un’impostazione organica, ed ebbene si, anche nozionistica, nel senso di una conoscenza disciplinare che li rendeva capaci di criticare la società oltre che di migliorarla. Queste ultime generazioni, viceversa, saranno solo in grado di gestire i loro conflitti nell’ambito del cooperative learning degli ambienti lavorativi delle multinazionali e dei grandi franchising come MacDonald’s. Saranno di carattere fragile e privi sia della sapienza professionale sia di quella umanistica.
Li lasceremo indifesi in nome di una falsa coscienza che si era illusa di garantire maggiori libertà. Il liberalismo è radicale ed è penetrato anche nella pedagogia.
Rimando anche a questo articolo di ADNRKONOS che descrive una tendenza, a nostro avviso, rilevante in un contesto dove la scuola e la figura dei docenti continuano ad essere in questo modo esautorati: http://www.adnkronos.com/fatti/cronaca/2018/04/18/metta-prof-bullizzato_EdNL1RGsTOy0iZWvhDpQJP.html
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Non molto tempo fa la raccomandazione di un gruppo di esperti al Miur di abolire le bocciature, anche solo per una moratoria, è stata accolta con l’usuale levata di scudi massiccia e trasversale. E tra quelli che hanno espresso maggior stupore ci sono stati tanti docenti: ai loro occhi la proposta è stata poco meno di una pugnalata alle spalle.
Eppure ci sono fior di studi, e l’esperienza sul campo, a dimostrare che le bocciature servono a poco o nulla. Perché allora i docenti rimangono così affezionati ad un istituto cui in ogni caso non ricorrono con leggerezza e pur sempre con sincero rammarico?
Rispondere a questa domanda è necessario, se si vuole che un’innovazione così radicale possa diventare realtà. Non si tratta di blandire gli insegnanti, ma di capire cosa del complesso meccanismo scolastico porti i docenti a dire: “No, questo studente nella classe successiva non ce lo voglio”. Si potrebbe anche scoprire, andando un po’ oltre le apparenze, che l’esasperazione dei prof. non è proprio del tutto immotivata.
L’elemento fondamentale per capire la scuola dal lato degli insegnanti è la rigida routine burocratica della vita scolastica quotidiana. E’ questa che dà il tono e la misura a tutto il resto, e non le esigenze didattiche. Essa influenza negativamente un po’ tutto, ma qui ci concentreremo sul ruolo che gioca nel mantenimento della disciplina, nella valutazione e negli scrutini.
Idealmente lo schema di base è abbastanza trasparente: il professore spiega, la classe impara e alla infine, con interrogazioni e compiti, si vede cosa ha fruttato agli studenti lo sforzo di imparare qualcosa. Su questa impalcatura sono state aggiunte mille innovazioni, anche molto importanti, ma l’insieme rimane invariato, soprattutto nella sua conclusione: lo scrutinio che decide la promozione o la bocciatura.
Il difetto di questo processo è che non è elastico: nel momento in cui capita qualcosa al di fuori dello schema, il sistema entra immediatamente in affanno, e con lui il docente che è materialmente in classe.
Perché il lavoro proceda, infatti, il gruppo classe deve muoversi in maniera più o meno coordinata e senza strappi eccessivi, dal momento che un professore, per quanto innovativo e impegnato, può tenere in classe solo una lezione alla volta, non tante quante sono gli studenti. Dovrà tarare le proprie lezioni su un livello “medio” di preparazione anche se, per il principio del pollo di Trilussa, ciò potrebbe non corrispondere al profilo reale di nessuno dei suoi studenti -soprattutto nel primo biennio delle superiori, dove l’eterogeneità degli studenti appena paracadutati dalle medie è massima.
Mentre il professore si barcamena con queste difficoltà, gli studenti non rimangono inerti: ognuno di loro reagisce alle novità e alle difficoltà nella maniera sua propria. E non è una novità per nessuno che gli studenti adolescenti aggiungano alle difficoltà propriamente scolastiche quelle familiari, sociali e relazionali, con effetti spesso gravi sia sulla resa scolastica individuale, sia sull’andamento delle lezioni.
Si capisce che non è una problema astratto o lontano, ma solo chi è stato in classe con adolescenti in carne e ossa può sapere quanto è acuto il senso di frustrazione che viene dal vedere una lezione mandata all’aria da uno studente rumoroso, importuno o impertinente.
La professionalità di un docente gli impone di non essere emotivo e di non reagire come farebbe con un estraneo o un adulto, ma quando i comportamenti sbagliati riguardano numerosi studenti e sono frequentemente ripetuti – come spesso accade nelle classi difficili – l’impatto sul docente rischia di essere pesante.
Per evitare di essere travolto, i docenti devono essere in grado di gestire la classe e di ricondurla non solo all’ordine, ma anche a un buon clima di apprendimento. Ciò ha a che fare con il temperamento di ogni insegnante, ma sarebbe sbagliato pensare che il carisma o le doti di mediazione debbano essere gli unici strumenti in campo. In primo luogo perché ci possono essere docenti preparatissimi ma non molto carismatici (e non è un crimine), in secondo perché quand’anche il docente fosse un Napoleone della didattica, ci sono comunque giornate in cui le battaglie, senza adeguato supporto, si perdono e basta.
Quali sono gli strumenti a disposizione dei docenti? Non molti, e non particolarmente efficaci. Lo strumento principale è la sanzione: la nota, la sospensione o, più blandi ma spesso teatrali, i rimproveri. Un’altra possibilità è data dai compiti a casa punitivi, che però andrebbero banditi: utilizzare gli strumenti di apprendimento come sanzione fanno passare l’idea che l’apprendimento sia di per sé stesso una punizione.
Quali effetti sortiscono questi provvedimenti? Di solito nessuno. Una punizione che non serve a niente, però, non ha potere deterrente. Ecco allora che i regolamenti di istituto costruiscono quasi invariabilmente un ricettario di ulteriori pene, più serie, che vanno applicate quando uno studente prende troppe note o tiene comportamenti particolarmente gravi: le già menzionate sospensioni, il cinque in condotta o l’esclusione dalle gite (che però sono attività didattiche, non premi o balocchi).
In altre parole, la scuola cerca di disciplinare l’escalation sanzionatoria, in modo da riuscire, prima o poi, a intimorire uno studente quanto basta perché modifichi il proprio comportamento. L’arma finale, ovviamente, è la bocciatura.
È un sistema, questo, che ha una sua logica interna, ma ha tutti i difetti tipici delle minacce: se ad esse non si dà seguito, si perde la faccia e chi doveva essere intimorito si ritrova ancora più baldanzoso. E sono numerosi i casi cui alle minacce non si può o non si vuole dare seguito: per evitare un altro caso di abbandono scolastico, per non gettare via quel che un ragazzo può in ogni caso aver fatto di buono, o per dare fiducia a qualche segno di ravvedimento (per quanto si abbia sempre il ragionevole sospetto che questo sia puramente strumentale).
I docenti li vedono i limiti del sistema minatorio-sanzionatorio? Sì, li vedono benissimo. Siccome però non hanno altri strumenti, si tengono stretti questi, nella speranza, per quanto fioca, che il loro lavoro non finisca tutto quanto buttato a mare. Questa è la ragione per cui, quando il ministero interviene dicendo: “Non bocciate!”, un professore si sente tradito e lasciato in braghe di tela.
Il ministero ha un bel dire ai docenti che non devono arrivare allo scontro frontale con gli studenti, ma anche questa osservazione ha un sapore agro: difficilmente un insegnante ha voglia o gusto nel mettersi a litigare con uno studente, e se lo ha fatto è perché non gli rimanevano alternative, pur capendo benissimo che spesso uno studente è vittima di se stesso e di problemi più grandi di lui: immaturità, disagio familiare, background sociale impoverito, difficoltà di inserimento, e così via.
La cosa si può riassumere brevemente in questi termini: se un docente che vuole insegnare e una classe che non vuole imparare vengono chiusi in un aula e legati ben bene con attività e orari rigidamente predeterminati, quel che si otterrà sarà quasi sempre un manicomio in cui la punizione è – o almeno sembra – l’unico velo tra la possibilità di fare qualcosa ed il caos totale. Questo è tanto più vero nelle scuole che la classista società italiana destina alla funzione di ghetto – quali sono oggi alcuni tecnici e professionali.
Abolire la bocciatura e lasciare tutto invariato quindi potrebbe sì essere un miglioramento (perché senza la paura della bocciatura molte tensioni degli studenti sarebbero automaticamente alleviate), ma un docente vivrebbe questa cosa con il terrore di perdere il poco controllo che gli rimane sulle classi più riottose – terrore ampiamente visibile nelle levate di scudi che menzionavamo all’inizio.
Ma non è soltanto questo. Le ragioni più profonde che portano a difendere la bocciatura sono altre ancora. Oggi molte tensioni nascono dall’esito rigidamente binario dello scrutinio (promosso o bocciato, con la dilazione della rimandatura a settembre che cambia ben poco la cosa). Ciò costringe a buttare sui piatti della bilancia materie diversissime tra loro, portando ad annullare i buoni risultati in alcune per colpa di quelli cattivi in altre (è l’effetto della bocciatura), oppure a nascondere le difficoltà in alcune poche materie per non disperdere i buoni livelli raggiunti nelle restanti (sono le famose insufficienze che passano a sei). Questo stato di cose ha due conseguenze fatali.
La prima è che in questo continuo “mercanteggiamento” gli studenti finiscono per tenere comportamenti opportunistici, calcolando quali materie è necessario studiare e quali si possono invece lasciare andare (a dispetto degli sforzi del docente, che con un’ulteriore massiccia dose di frustrazione si trova a dover avallare voti in cui non crede “per decisione di Consiglio”).
La seconda è che se un diploma deve attestare il raggiungimento di certi livelli di istruzione, promuovere chi si è comportato male, non si è impegnato abbastanza o non ha una preparazione sufficiente sembra una vera e propria truffa, alla quale un docente scrupoloso non si vuole prestare. È un’obiezione fortissima, inoppugnabile, profondamente avvertita e vissuta: “Quello non ha fatto nulla tutto l’anno, ha disturbato, risposto male, mandato all’aria il lavoro di tutti, e gli devo dire pure «Bravo, sei promosso», mettendolo sullo stesso piano di chi ha lavorato davvero?”.
Se non si supera questa obiezione, non si va da nessuna parte. Finché esisteranno un premio e una punizione impropri, quali sono promozione e bocciatura, qualsiasi altra considerazione sarà spazzata via da questo semplice ragionamento.
Come si fa, allora? La soluzione più semplice e immediata è quella di abolire non solo la bocciatura, ma anche lo scrutinio collegiale che ha luogo nel Consiglio di classe di giugno. Ogni professore indica il proprio voto, e quello rimane, senza chiacchiere inutili.
A quel punto la “retribuzione” non è più decisa da promozione o bocciatura, ma dal voto finale, che è la somma di tutti i voti senza correttivi impropri (i sei “regalati”): chi ha studiato prende un bel voto, chi non si è dato da fare ne prende uno che ne denuncia il mancato impegno. Tutte le materie contribuiscono, nessuna fa da cenerentola, quel che uno studente semina poi raccoglie.
Se si pensa che ciò dia troppo potere agli insegnanti, basta inserire dei correttivi, nemmeno troppo difficili da implementare. Nel corso del quinquennio si lascerebbe ai docenti la piena libertà di decidere i voti secondo scienza e coscienza (non collegialmente), mentre per l’esame alla fine del quinquennio si istituirebbe una commissione di valutazione interna, costituita da professori della scuola che conoscono la didattica impiegata durante i cinque anni e possono quindi preparare le prove di valutazione per ogni classe. Tali prove sarebbero corrette anonimamente non dal docente di classe, ma dai suoi colleghi, evitando così che possibili aspetti “personali” possano incidere sull’obiettività della valutazione. In questo modo, l’unica cosa a contare davvero sarebbe la reale preparazione di ogni singolo studente. Lo schema è replicabile, se si vuole, alla fine di ogni anno scolastico o anche alla fine di ogni quadrimestre, se si vuole avere un monitoraggio costante.
I professori sarebbero così sgravati dal rito ormai vuoto dello scrutinio collegiale e dai continui mercanteggiamenti per il voto, gli studenti invece da quella sciocca ragioneria delle medie e dei crediti che oggi – non è un’iperbole – li ossessiona. Ancora, senza la paura della bocciatura e delle sue pessime conseguenze verrebbero meno tantissimi dei comportamenti infantili e oppositivi che oggi caratterizzano i nostri studenti. Per i residui comportamenti sbagliati ovviamente bisognerebbe pensare a nuove forme di sanzione, ma neanche questo è un problema. Si potrebbe introdurre la detention tipicamente anglosassone, in virtù della quale chi si comporta male rimane a scuola più a lungo e si dedica ad attività socialmente utili. Dare al voto di condotta lo stesso valore di quello di una materia, come già si fa, troverebbe in questo quadro un significato reale. Ma sarebbe facile immaginare anche altre punizioni senza troppi problemi.
Certo, non basterebbe soltanto questa semplice riforma: nel momento in cui si crea un sistema in cui è solo la preparazione reale a contare davvero, alle scuole viene chiesto di essere davvero efficaci e ai professori davvero pronti, preparati e motivati. Ma non sarebbe una bella sfida?
Fonte:http://www.leparoleelecose.it/?p=31989#more-31989
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