Sinistra e Unione europea. Aspettando Godot
di SINISTRA IN RETE (Giovanna Cracco)
Ogni volta che una persona di sinistra afferma che l’Unione europea così com’è non va bene, ma la soluzione non è uscirne, la si deve cambiare dall’interno – rendendola più democratica, una coesione di popoli e di ideali, sociale e politica e non solo economica e monetaria, l’Europa del welfare e degli investimenti produttivi e non del Fiscal Compact e dell’austerity – una domanda assale chi scrive. In una brutale sintesi: ci è o ci fa? Il riferimento, si intende, è a esponenti politici, studiosi, intellettuali, giornalisti, persone insomma per le quali approfondire la realtà, leggere documenti, interrogarsi è dovere del mestiere che hanno scelto; cittadini impegnati in altre occupazioni non hanno tempo, fonti e canali per farlo, e dunque non possono che fare propri e replicare il pensiero e l’analisi che vengono loro offerti dall’informazione e dalla politica di sinistra – a scanso di equivoci, non si iscrive qui il Partito democratico all’area di sinistra, e nemmeno i fuoriusciti di Liberi e Uguali; e neanche il gruppo L’Espresso, quotidiano Repubblica in testa.
Non si sa cosa preferire. Se la persona ci è, due sono le possibilità.
La propaganda, martellante e pervasiva da oltre vent’anni, ha fatto a tal punto presa che l’ideologia europeista – un sacco vuoto riempito di grandi valori al fine di disarmare la critica con una narrazione potente e universale: pace, progresso, libertà… – è stata assorbita acriticamente anche da chi avrebbe dovuto possedere la chiave di lettura politica e gli strumenti culturali per andare oltre l’etica ufficiale; dunque, prima possibilità, la natura dell’Unione europea non è stata d’emblée approfondita – nel percorso storico, politico, economico, contenuto dei Trattati e poteri delle istituzioni create – e ciò significa che la persona non ha assolto al dovere imposto dal proprio ruolo professionale. Seconda possibilità: la natura della Ue è stata approfondita, ma il pregiudizio favorevole ha offuscato la capacità di analisi.
Se la persona ci fa, siamo davanti a una sola posizione: il rifiuto consapevole di portare avanti una battaglia politica e culturale perché penalizzante nel breve termine. L’europeismo è stato associato all’internazionalismo – non si sa su quali basi teoriche, a dir la verità, se non una superficiale semplificazione del concetto stesso di internazionalismo – e la rivendicazione di una sovranità statale equiparata al nazionalismo di destra, se non addirittura di matrice fascista. In questa narrazione divenuta dominante a sinistra, spiegare la ragioni per cui questa è l’Unione europea e un cambiamento nella sua natura non potrà mai avvenire – proponendo appunto l’analisi del suo percorso storico, politico, economico, contenuto dei Trattati e poteri delle istituzioni create (1) – e dunque non c’è altra scelta che attrezzarsi per uscirne, è un processo culturale prima che politico e quindi lento e complesso, una posizione che sarebbe criticata e nell’immediato accusata di tradire il pensiero di sinistra, e di conseguenza soggetta a perdere consensi per strada: elettori o lettori.
Non per puntare il dito, ma perché non ci si vuole nemmeno nascondere dietro quel dito, ci è o ci fa è una domanda che chi scrive si pone ogni volta che legge Il Manifesto (2) e che si è posto davanti al programma elettorale di Potere al Popolo (PaP) e alle dichiarazioni rilasciate dalla rappresentante Viola Carofalo: “Dobbiamo lavorare su due livelli: un Plan A e un Plan B. Non siamo contrari all’Europa in senso nazionalista, ma l’Unione Europea così com’è non va bene. È da riformare perché con la gabbia dell’austerity e coi vincoli del pareggio di bilancio, in questi anni, ci hanno imposto soltanto smantellamento dello stato sociale, tagli a servizi, sanità, scuola, pensioni e compressione dei diritti sul lavoro. La risposta non sta nell’inseguire le destre né nell’abbracciare il concetto di sovranità nazionale – sono e resto internazionalista – ma nella costruzione di un’Europa che dia diritti e opportunità alle classi popolari. Questo è il piano A. Ma se si scoprisse che questi trattati non sono riformabili dall’interno, o che non ci siano i rapporti di forza per farlo, guardiamo con interesse a un piano B. Non moriremo per l’Europa, siamo disposti anche a rompere con essa. Non ci interessa la sovranità nazionale, quella è un feticcio, ma un’unione con gli altri Paesi del Sud Europa, in difficoltà come l’Italia, coinvolgendo anche gli Stati del Nord Africa. Un’Europa del Mediterraneo – popolare e solidale – contro la locomotiva tedesca” (3).
Ora: le politiche imposte dall’Unione europea, quella che chiamiamo austerity ma non solo, anche il divieto di politica industriale, la libera circolazione dei capitali (leggi delocalizzazioni) ecc. sono incorporate nei Trattati, non il frutto di una visione politica che gli Stati forti impongono agli Stati deboli – la Grecia e le mani legate di Tsipras, a cui è mancata la volontà di lasciare unilateralmente l’Eurozona (voltando così le spalle al voto popolare espresso nel referendum) devono pur essere serviti almeno a comprendere cosa sono ontologicamente i Trattati Ue, altrimenti siamo al giorno della marmotta. L’ideologia liberista è alla base della creazione della Ceca, la Comunità europea del Carbone e dell’Acciaio, primo passo verso l’Unione e istituita nel 1951, e la teoria ordoliberale di stampo tedesco vi si è innestata, con la sua impostazione dogmatica di ‘regole fisse’ economiche e monetarie, euro e Bce, contenute nel Trattato di Maastricht del 1992. Non è possibile riformare tale struttura cambiando singoli articoli o parti dei Trattati: vanno interamente riscritti, il che significa farne prima carta straccia.
Rapporti di forza per poterlo fare: un bagno di realtà è necessario. L’articolo 48 del Trattato sull’Unione europea (TUE) fissa le procedure di revisione di tutti i Trattati: senza entrare in tecnicismi (4), le modifiche devono essere approvate all’unanimità dal Consiglio europeo (capi di Stato e di governo dei Paesi Ue) e ratificate da tutti i Parlamenti nazionali. Quindi, a meno di ipotizzare – e qui non siamo nel mondo dei sogni ma nell’iperuranio metafisico – la salita al governo contemporaneamente in tutti i 28 Stati Ue di partiti di sinistra, i rapporti di forza per riscrivere i Trattati non ci sono.
Punto.
Il Manifesto ci è o ci fa? Difficile dirlo. Di certo ha un’enorme responsabilità nella costruzione della narrazione del ‘cambiamento interno’ dominante a sinistra, perché da sempre è stato un punto di riferimento per l’area cosiddetta movimentista o antagonista.
Potere al Popolo ci è o ci fa? Se la natura tecnica dell’Unione europea non è stata approfondita, è una mancanza grave per chi chiede un voto. Perché accanto a realtà che da anni analizzano il piano politico della Ue – i Trattati – non mancano nemmeno figure, ben note al mondo della sinistra, che portano avanti la puntuale disamina dell’aspetto strettamente economico, arrivando a dimostrare e a concludere che l’unica via per poter attuare politiche anche solo socialdemocratiche è uscire dalla moneta unica. Una a citarle tutte, l’economista Sergio Cesaratto, che anche in un recente articolo intitolato E mo chi voto?, pubblicato il 3 febbraio sul suo blog e ripreso da diverse testate online italiane e straniere, dopo aver mostrato – per l’ennesima volta – le ragioni economiche per cui “privati della sovranità monetaria la democrazia è monca”, si ritrovava a dover concludere: “La sinistra si presenta con programmi economici inadeguati e non è un caso che l’intellighenzia economica di sinistra non sia stata coinvolta nella predisposizione dei progetti politici né di Liberi e Uguali né di Potere al Popolo” (5).
Tuttavia, c’è un ma. Va riconosciuto a Potere al Popolo l’esistenza di un Piano A e di un Piano B – anche se il programma elettorale è ben più vago delle affermazioni della Carofalo, e non vi è citato alcun Piano B: contiene solo un generico “rompere l’Unione europea dei Trattati” e un “costruire un’altra Europa” con i popoli della sponda sud del Mediterraneo, unite alla proposta di una maggiore democrazia di natura referendaria. Probabile che la disponibilità a uscire dall’Europa, non messa per iscritto ma affermata nelle interviste, la si debba alla presenza della realtà Eurostop all’interno di PaP, che però non è riuscita a spostare l’asse della formazione politica sulla sua posizione. Ciò significa tuttavia che PaP è incappato nelle analisi bandite dal pensiero dominante di sinistra. Questo, unito al mantra del rifiuto della sovranità nazionale e dell’internazionalismo, e alla contemporanea proposta di un’unione con gli altri Paesi dell’area mediterranea – e anche qui, una riflessione seria sui rapporti di forza necessari per attuarla non sarebbe male – dà l’impressione di essere davanti all’incapacità, o alla mancanza di volontà, di sostenere una posizione politica scomoda perché attualmente minoritaria. Peccato, perché sarebbe stata una buona occasione per aprire una discussione che già paga un ritardo più che ventennale a sinistra, di cui vediamo le conseguenze nell’impoverimento delle condizioni di vita e nella trasformazione della società, compreso il suo spostamento a destra; ragione per cui oggi il piano su cui muoversi è culturale, avviando un dibattito, e non elettorale, all’inseguimento di un 3% per entrare con un piedino in Parlamento (e poi fare cosa, visti gli attuali rapporti di forza?). E invece PaP, con la visibilità che ha avuto, ha gravemente contribuito a rafforzare l’errata narrazione della riformabilità dell’Unione europea anziché iniziarne il percorso di smantellamento. Secca citare Bersani, ma sembra che siam qui a pettinare le bambole.
Purtroppo anche la sinistra presente al Parlamento europeo, quindi in una posizione privilegiata per la comprensione perché a stretto contatto con la realtà dei Trattati, non è da meno. E proprio per questo, qui la domanda ha inevitabilmente una risposta: ci fa.
The future of the Eurozone è uno studio commissionato dall’eurodeputato del Sinn Féin, Matt Carthy, e scritto dal consigliere Emma Clancy, della GUE/NGL (Sinistra Unitaria Europea/ Sinistra Verde Nordica: Izquierda Unida, Podemos, Linke, Syriza, L’Altra Europa con Tsipras ecc.) (6). È un documento importante.
Finalmente le politiche imposte dalla Ue agli Stati, soprattutto dopo la crisi del 2007 e con quella successiva dei debiti sovrani del 2010, sono studiate non in quanto scelte contingenti rivelatesi sbagliate – tipico approccio della narrazione del ‘cambiamento interno’ – ma nella loro natura strutturale, architettura degli stessi Trattati. Viene analizzata, entrando nel merito della teoria economica, l’ideologia ordoliberale e spiegato perché il problema sono l’euro e la Bce così come Maastricht li ha costruiti: cosa comporta, in termini di politiche economiche e quindi sociali, la perdita di sovranità monetaria per un Paese, e l’esistenza di una banca centrale autonoma dalla politica e avente come unico obiettivo la stabilità dei prezzi attraverso il controllo dell’inflazione – e non anche la piena occupazione, come la Fed statunitense e in generale le banche centrali. Una condizione che abbinata all’ossessione ordoliberale del pareggio di bilancio svuota di qualsivoglia potere il governo eletto.
Se ne consiglia la lettura integrale, ma vale la pena riportare un paio di passaggi:
“I Paesi all’interno di un’area di valuta comune non possono effettuare svalutazioni competitive per aumentare le proprie esportazioni, ma possono attuare politiche interne per realizzare una ‘svalutazione interna’, abbassando il tasso di cambio reale nei confronti dei Paesi vicini. Il principale modo per farlo è comprimere i salari: questo fa abbassare i prezzi. La Germania ha attuato consapevolmente questa politica per diversi decenni, a spese dei lavoratori tedeschi, milioni dei quali lavorano ma vivono in povertà […] la competitività delle esportazioni tedesche [è aumentata] e si è ridotta quella degli altri Paesi dell’Eurozona. L’attenzione della Ue alle riforme strutturali, in particolare la riforma del mercato del lavoro, al fine di conseguire una maggiore ‘flessibilità’, è stata una caratteristica costante dell’agenda europea da Maastricht in poi. È stato un elemento importante della Strategia per l’occupazione del 1994 e dell’Agenda di Lisbona 2010 adottata nel 2000, che aveva originariamente lo scopo di rendere la Ue ‘la più competitiva e dinamica economia’ entro il 2010; vi erano inclusi un pilastro economico, un pilastro sociale e un pilastro ambientale. Nel 2005, l’Agenda di Lisbona è stata rivista dal Consiglio europeo e dalla Commissione: il verdetto è stato che l’Agenda non riusciva a raggiungere il suo obiettivo, e così si è deciso di abbandonare i pilastri sociali e ambientali e concentrarsi su quello economico. Nel 2010 l’Agenda è stata rilanciata con un nuovo piano decennale, la Strategia Europa 2020 […]. Il ‘progresso’ degli Stati membri nell’attuazione delle riforme strutturali che facilitano il movimento al ribasso dei salari è strettamente monitorato attraverso il processo del semestre europeo […] Le élite dell’eurozona credono (o sostengono di credere) che solo se le ‘rigidità salariali’ negli Stati membri vengono superate, tanto la disoccupazione quanto gli squilibri commerciali scompariranno; solo se la popolazione di un Paese viene costretta a lavorare a bassi salari, si avrà la piena occupazione; la conseguente stagnazione della domanda interna farà diminuire i prezzi, e il tasso di cambio reale del Paese, prima disallineato e troppo alto, riacquisterà l’equilibrio, con conseguente aumento dell’esportazione. L’austerità imposta dalla Troika non era progettata solo per riguadagnare la ‘fiducia’ del mercato nei titoli di Stato dei governi periferici, ma anche per facilitare le svalutazioni interne negli Stati membri mediante una forma di terapia d’urto. Ovviamente, questo aggiustamento facilita non solo la riduzione degli squilibri commerciali ma anche un netto aumento della quantità di ricchezza trasferita dal lavoro al capitale”.
E ancora:
“Le decisioni prese dalla Bce in risposta alla crisi sono state estremamente importanti sul piano politico […] I due atti più sorprendentemente politici sono stati la minaccia della Bce di tagliare la liquidità di emergenza allo Stato irlandese se non accettava di richiedere un piano di salvataggio, e la sua decisione di tagliare la liquidità di emergenza alle banche greche a metà del 2015, minacciando Syriza che la Grecia sarebbe stata costretta a uscire dall’Eurozona se non si sottometteva alle condizioni della Troika, che erano state clamorosamente respinte dagli elettori greci in un referendum. La possibilità di trattenere il credito ai governi eletti conferisce alla Bce (istituzione non eletta, n.d.a.) l’enorme potere di imporre le scelte politiche ai Paesi. […] Una costruzione, quella della Bce, che riflette la volontà di ‘depoliticizzare’ la politica economica esternalizzandola a tecnocrati apparentemente indipendenti (e questa è l’impostazione ordoliberale, n.d.a.), al fine di indebolire la resistenza a decisioni che sono fortemente politiche e che hanno profonde conseguenze redistributive per la società”.
Esiti di tale puntuale analisi e soluzioni proposte? Le solite.
“Cambiare le regole […] contrastare l’espansione dell’Eurozona […] votare per rifiutare l’incorporazione del Fiscal Compact nel trattato sul funzionamento della Ue […] spingere per rivedere il Patto di stabilità e crescita […] respingere le proposte di altri trasferimenti di poteri di sorveglianza sulla politica fiscale degli Stati membri […] espandere il mandato della Bce che deve riguardare non solo l’inflazione ma anche l’occupazione e la crescita”.
Tutte cose, come abbiamo visto, inattuabili, a meno di un’onda rossa che travolga l’insieme dei Paesi europei.
Unica novità, non di poco conto – perché è indubbio che uscire dall’euro non è una passeggiata, per di più senza l’esistenza, com’è attualmente, di regole condivise per metterlo in atto, significa muoversi al buio – la proposta di promuovere la creazione di una “opzione di un’uscita negoziata dalla zona euro che sia legale e praticabile per gli Stati membri che scelgono di farlo a causa della loro situazione economica”. Peccato che subito dopo si riveli la natura difensiva e attendista della proposta: “Per i Paesi che vogliono rimanere all’interno dell’Eurozona devono essere sviluppate protezioni e garanzie, perché non possono essere ricattati o cacciati fuori dalla moneta comune contro la loro volontà durante una crisi”. E sul solco della solita narrazione, il documento conclude affermando che “i Trattati devono essere immediatamente modificati, e se i Trattati non possono essere cambiati, allora coloro che vogliono un cambiamento fondamentale dovranno necessariamente ricorrere ad altre opzioni”. Quel se è una presa in giro scritto da chi, come già sottolineato, per la sua posizione interna alle istituzioni europee non può non sapere che la modifica è praticabile solo con una unanimità politica interna al Consiglio europeo, che mai ci sarà. E anche le ultime parole appaiono paradossali, dopo 70 pagine nelle quali si è mostrato perché l’Unione europea è questa e non può essere diversa: “Soprattutto, l’ideologia dell’austerity, sbagliata e fallita che ha plasmato l’architettura e le politiche della zona euro e della Ue, deve essere messa in discussione, perché durante questa crisi politica esiste un’opportunità per convincere le persone che è possibile agire per costruire un’Europa migliore e sociale”. Quando la sinistra smetterà di inscenare Samuel Beckett sulla pelle dei popoli europei?
Anche oggi Mr. Godot non verrà.
Well? Shall we go?
Yes, let’s go.
They do not move.
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