Il primato della politica
di GIAMPIERO MARANO (FSI Varese)
Tradizionalmente l’autorità politica ha svolto, fra le altre, la funzione di tenere a freno le pulsioni distruttive interne alla comunità: non a caso il disordine è sempre stato concepito come un effetto dell’ingiustizia e del malgoverno. Virgilio propone un’immagine icastica di questa forza, “trattenitrice” in senso teologico-politico, nel I libro dell’Eneide, quando Giove profetizza a Venere l’avvento di Augusto e la fine delle guerre civili: allora le porte del tempio di Giano, tenute aperte in occasione dei conflitti, verranno sprangate con sbarre di ferro, mentre il “Furore empio” sarà legato con cento nodi di bronzo.
Per Dante l’imperatore, vero e proprio curator orbis, ha il compito di placare le tempeste della cupidigia (radice ultima, chioseremmo oggi, della competizione e della deregulation), un’inclinazione bestiale che impedisce agli uomini di vivere liberi e in pace. L’Italia, il “giardin de lo ‘mperio” trascurato dal sovrano tedesco, è una nave senza nocchiero in balia della tempesta: dilaniata da feroci rivalità fra concittadini, delle quali approfittano i tiranni e gli zotici, viene anche paragonata da Dante a un cavallo senza freno, una belva recalcitrante a sproni e briglie che necessita di essere domata.
Nelle tradizioni orientali la visione di fondo rimane la stessa: l’”Impero di mezzo” cinese esprime questa realtà di fermezza e stabilità con la costruzione della Grande Muraglia, analoga alla cinta muraria della città sumera di Uruk, indistruttibile e splendente come il rame, edificata dal re-sapiente Gilgamesh. La funzione trattenitrice del potere è vitale ma non fine a se stessa, come del resto l’autorità politica tout court: tale concetto è perfettamente simboleggiato dal mito induista, nel quale il dio della guerra protegge il dio della sapienza suo fratello, e ribadito dal pensiero cristiano medievale, che subordina tutte le attività umane al fine supremo della contemplazione.
Se è vero che il potere deve garantire la pace e l’ordine, cioè la temporalis felicitas necessaria essenzialmente alla fioritura del sapere, il primato della politica culmina, di fatto, nel proprio auto-superamento: siamo agli antipodi del culto del Capo, del Partito e dello Stato tipico delle dittature novecentesche, manifestazioni tragiche di “ritorno del rimosso” in un’epoca nella quale lo sviluppo immane del capitalismo mina alla radice le fondamenta della sovranità nazionale.
Poiché la politica dà legge e forma a ciò che è instabile e tende all’atomizzazione individualistica, la globalizzazione ne costituisce la negazione più evidente. I fautori della globalizzazione, anche se schierati su fronti apparentemente diversi (molti sono fanatici dell’economia di mercato, altri militano nella sinistra radicale), la considerano il compimento della storia oppure sostengono, come Toni Negri, che essa offre “enormi possibilità creative e di liberazione”.
Ma per centinaia di milioni di esseri umani il primato dell’economia, ben lontano dal prefigurare il paradiso in terra, si traduce in un caos infernale: il “nuovo disordine mondiale” di cui parla Bauman è fonte di insicurezza quotidiana, precarizzazione dei rapporti lavorativi e delle relazioni sociali, crescenti disuguaglianze nella distribuzione del reddito e della ricchezza, emarginazione di chi non riesce a sostenere la lotta per la vita, flussi migratori massicci.
La forma istituzionalizzata con la quale si manifesta in Europa il primato dell’economia sulla politica è data dall’Unione Europea. L’UE, infatti, non è né uno Stato né una federazione di Stati ma un “ambiente” (che si vorrebbe asettico) controllato dal potere bancario della BCE e da quello politico della Germania con l’obiettivo di garantire l’egemonia assoluta dei mercati finanziari e delle grandi lobby industriali attraverso la libera circolazione di beni, persone, servizi e capitali. La dittatura della finanza e delle multinazionali non può che comportare l’austerità perpetua e la crisi della democrazia, dal momento che i parlamenti nazionali contano sempre meno e quello europeo ha una funzione poco più che consultiva.
La storia italiana più recente esemplifica le conseguenze della fine del primato della politica: degrado civile e culturale, tagli esorbitanti alla spesa pubblica, aumento della disoccupazione, crisi devastante della piccola e media impresa, aumento della povertà e dell’emigrazione giovanile.
Non sarà mai possibile riformare l’impero del capitalismo globalizzato in senso sociale, egualitario e progressista (“il balzo in avanti democratico” di cui parlava Hollande a proposito dell’Unione Europea). Da una parte, infatti, non esiste una società civile mondiale (partiti, radio e tv, associazioni di cittadini, editori) che possa guidare questo cambio di passo; dall’altra, le differenze tra le singole nazioni – in termini di storia, cultura, interessi economici e geopolitici – sono e continueranno a essere troppo numerose e troppo grandi.
Nella giungla della globalizzazione l’Italia è un paese perdente, il cui declino è aggravato dalla sudditanza, anche psicologica, nei confronti dei modelli culturali nord-atlantici. Una via di salvezza potrà profilarsi soltanto quando la politica avrà riconquistato l’egemonia che le spetta: quando lo Stato avrà riottenuto la sovranità monetaria e militare, così importanti già per Machiavelli, e ripristinato integralmente la disciplina costituzionale dei rapporti economici (alla quale è dedicato il titolo III della prima parte della Costituzione del 1948), venuta meno nella “Seconda Repubblica”.
[pubblicato anche su “Critica italiana”, 22.1.2018]
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