La donna dei miracoli si chiama Rachel Whetstone e, ancorché per noi sia una perfetta sconosciuta, non lo è affatto nei circoli americani che fanno la differenza: quelli dei venture capitalist che finanziano – o affossano – idee e aziende, della politica che di quelle aziende discute, dei giornali che provano a tenere via l’attenzione sulle loro condotte. Whetston è stata infatti capo delle pubbliche relazioni di Uber (e prima ancora di Google) nei giorni infelici della gestione del fondatore Travis Kalanick, segnati da ogni genere di scandalo: si capisce quindi perché Mark Zuckerberg le abbia chiesto di fare uguali sforzi per Facebook, che, stando all’ultima trimestrale, è uscita indenne dal pasticcio Cambridge Analytica ma ha certamente addosso gli occhi di politica e investitori.

Rachel Whetstone, ora a Facebook, quando era Senior vice president di Google. Toru Yamanaka/AFP/GettyImages

La promozione di Whetstone – arruolata dal social network a settembre scorso –  a capo della comunicazione istituzionale fa parte di quello che in Italia chiameremmo un “ribaltone” senza precedenti: pur senza cacciare nessuno, Zuckerberg ha sostanzialmente ridisegnato il profilo del suo impero, riorganizzandone le attività e abbracciando qualche novità che toccherà seguire nei prossimi mesi.

D’altronde, “Aggiustare Facebook” era stato il suo buon proposito di inizio anno: e nel cercare di mantenerlo, oltre alle buone intenzioni avranno anche contribuito le audizioni al Congresso, la pressione della stampa e persino quella degli azionisti, buon ultimo il fondo pensionistico California State Teachers’ Retirement System, che ha definito “dittatoriale” la governance di Facebook, per via dello strapotere del fondatore (non pervenuta invece la pressione dell’opinione pubblica: le prime indagini suggeriscono che il comportamento degli utenti non è affatto cambiato dopo le rivelazione sull’uso dei dati personali).

Aggiustare come? Dalle scelte del numero uno emerge essenzialmente la volontà di dare una linea comune ai vari business, di focalizzarsi sulla privacy e di improntare economie di scala: può far sorridere ma, nonostante in soli 14 anni Zuck sia riuscito a creare una macchina da 40 miliardi di dollari di ricavi e 15, 9 di utili (dati 2017), le acquisizioni di Instagram e WhatsApp hanno negli anni creato sovrapposizioni di funzioni e linee di pensiero contrapposte, rese evidenti dalla scelta di Jan Koum, co fondatore di WhatsApp, di lasciare la famiglia Facebook per divergenze di vedute sulla privacy delle chat. Inutile specificare chi ha avuto l’ultima parola.
Zuck ha insomma messo mano alle caselle che contano, creando tre macro divisioni:

  • una che si occupa di tutte le App (non solo Facebook quindi ma anche Instagram, Messanger, WhatsApp), con l’obiettivo di centralizzare le linee guida;
  • una che si occuperà del futuro, cioè dei progetti legati all’intelligenza artificiale, alla realtà aumentata e – novità dell’ultima ora – alla blockchain;
  • una infine che si occuperà dei servizi legati alle varie attività, come l’advertising ma anche la possibilità di “donare” denaro sulla piattaforma.

Nel giro di poltrone, i nomi non sono nuovi: si tratta di manager già attivi in azienda da tempo, a partire da Chris Cox, molto vicino a Zuckerberg e a capo della prima divisione.

Chris Cox. Lionel Bonaventire/Afp/Getty Images

Soprattutto, ha notato la stampa americana, i nomi di coloro che disegneranno il futuro di una delle aziende più influenti al mondo, accusata di “manipolare” gli stati d’animo e persino le scelte elettorali, appartengono sostanzialmente tutti a maschi bianchi, alla faccia della “diversity” che tanto si celebra in Silicon Valley. D’altronde, sono solo due le donne tra i nove membri del board di Facebook (inclusa Sharyl Sandberg, chief operating officer e vero braccio destro di Zuckerberg), e il 35% complessivamente tra i dipendenti nell’organico, poi, il 3% sono afroamericani e il 5% ispanici: per disegnare il cambiamento, non si parte proprio un melting pot.

I cambiamenti in vista sono però altri, a partire dalla scelta – forse obbligata dalle circostanze e sicuramente in parte dalla direttiva europea GDPR che sta per entrare in vigore – di creare un team che si occupi solo di privacy, mettendo nelle mani degli utenti la possibilità concreta di chiedere al social di non raccogliere i propri dati e di cancellare i pregressi (funzione “Clear History”).

Più rilevante in termini economici, è invece la scelta di mettere David Marcus, già presidente di PayPal, a capo del ristretto gruppo di cervelli che si occuperà di blockchain, la tecnologia alla base dei bitcoin e descritta sempre più come il vero abilitatore di un Internet più trasparente, condiviso e capace di creare valore, anche al di fuori delle transazioni commerciali.

David Marcus. Justin Sullivan/Getty Images

Cosa Facebook intenda fare con la blockchain non è chiaro, né lo ha chiarito in questa occasione: da anni si parla della possibilità che entri nel fintech, sfruttando il numero enorme di utenti e i servizi di messaggistica istantanea già attivi. Finora però non se ne è fatto nulla. E, francamente, per la concentrazione del mercato e lo squilibrio delle informazioni in campo – nessuno conosce tutto di noi come il colosso di Menlo Park – c’è da augurarsi che Zuckerberg non si faccia prendere dalla tentazione.