L’affaire Cambridge Analytica è stata l’occasione per la perdita (ufficiale) di innocenza da parte di internet. Sorpresa, la rete non è neutrale; non è uno strumento vuoto, i social non sono indifferenti a ciò che accade dentro e fuori di loro, anzi, lo creano e lo plasmano. Come lavorano i social? E che conseguenze ha questo loro lavoro?
La merce dei social
Il primo equivoco è che la merce dei social siano le nostre informazioni. Vero, ma solo in parte. La prima ricchezza dei social è il nostro tempo. Le nostre informazioni sono certo preziose, ma strumentali a venderci ciò che la piattaforma ci sottopone: come per le pubblicità televisive, non è solo se vediamo una pubblicità, ma quante volte e in quale contesto la vediamo. Per raccogliere e usare le nostre informazioni, Facebook ha interesse ad averci connessi il più a lungo possibile sulla propria piattaforma. Che definire piattaforma è ormai riduttivo. Nell’audizione al Senato, il senatore Graham del South Carolina ha domandato a Zuckerberg: avete un reale concorrente sul mercato? Mark ci ha girato attorno, ma la pura verità è che non esiste una risposta. Ci sono siti, app e servizi che competono con alcune delle proposte di Facebook, ma nessuno gli è pari complessivamente. Insomma, è come se fossero l’unica società a produrre automobili in un mercato nel quale le altre industrie producono solo specchietti, motori, ruote e non assemblano nulla.
L’obiettivo di Facebook sembra quello di creare una rete dentro la rete. Gli algoritmi attuali favoriscono nettamente i contenuti interni rispetto a quelli esterni, il che significa che è incoraggiata la visualizzazione di un video caricato direttamente su Facebook rispetto a quella di un link a un video caricato ad esempio su YouTube, dunque all’esterno del social. Lo stesso per ciò che riguarda le news: rende di più un post realizzato dalla pagina Facebook di una testata giornalistica che il link all’articolo sul sito di quella testata giornalistica. Tutto questo giustificato dalla volontà da parte di Facebook di garantire uno standard minimo quanto alla qualità dei contenuti (Zuckerberg ha ripetuto fino alla nausea che metterà decine di migliaia di persone a lavorarci) e alla loro fruibilità. Ma tradotto in soldoni significa solo che Facebook non vuole che voi dobbiate lasciare Facebook per fare tutte le cose che volete fare su internet.
Riassumendo. Il tempo che trascorrete su internet è prezioso per chi vuole vendervi servizi e pubblicità; in più meglio vi si conosce, più facile è individuare quello che vi interessa. Facebook non si limita a raccogliere informazioni, ma punta ad essere il luogo dove deve venire chi vi vuole incontrare e conoscere in rete.
Identità virtuali
Gli effetti dei social e di Facebook in particolare sono tanto evidenti quanto complessi. Cominciamo con la considerazione di un dirigente di Facebook, Chris Cox, che pochi giorni fa ha presentato il nuovo progetto di Facebook (facedate?), ovvero un’applicazione dentro l’applicazione che funzionerà in linea di massima, come Tinder. Spiegando le origini di questo progetto, Cox dice:
dating was always a natural fit for Facebook thanks to its ubiquity, data and trusted platform for identity
Ecco Facebook spiegata in due righe ed ecco perché per vent’anni quasi nessuno ha capito quasi niente di internet. Correggiamo questo errore facendo due passi indietro.
Pierre Lévy scriveva vent’anni fa che la virtualità non è irrealtà, ma problematizzazione del reale. La virtualità, diciamo noi oggi, non è un’alternativa alla realtà, ma la sua stratificazione in livelli sovrapposti. Il virtuale mescola diversi piani e livelli di realtà in una maniera prima impossibile dal punto di vista fisico e tecnologico. È virtuale un libro, una lettera, un quadro, la nostra immaginazione: siamo qui e ora e siamo anche altrove e in un altro tempo, tutto contemporaneamente. Questo succede da che l’uomo ha capacità di astrarre. L’ultima rivoluzione tecnologica ha accelerato e ingigantito il processo. L’equivoco alla nascita di internet fu che sarebbe stato un luogo altro dal reale. Agli albori della rete informatica sociale le chat room, i forum, i servizi di messaggistica erano incubatori dell’utopia del “poter essere chi si vuole”, come in una sorta di complesso gioco di ruolo. I più idealisti vedevano in questa una grande possibilità per liberarsi di pregiudizi, stereotipi, filtri. I più pragmatici una possibilità per sperimentare giochi di ruolo sociali-erotico-sessuali.
Ma la non è così che la mente umana ragiona. Per quanto interessante possa essere la sperimentazione del perturbante rapporto con uno sconosciuto all’interno di contesti circoscritti e ludici, più il tempo trascorso su internet aumenta più le persone hanno bisogno di sapere con chi hanno a che fare. Non è un caso che Facebook sia cresciuto esponenzialmente assieme alla diffusione degli smartphone. Ecco il potere di Facebook: essere una trusted platform for identity. Sui social il massimo stigma sociale è quello di essere un fake, ovvero il profilo di una persona che non esiste o che non corrisponde alla propria identità reale. Molto più perdonabile, anzi incoraggiato, il fingersi più felici, più belli, più ricchi, ma sé. L’utopia libertaria di massa di internet si è risolta così non nell’essere qualcun altro, ma nell’essere la versione considerata migliore possibile di sé stessi. Le nostre identità virtuali siamo noi stessi, truccati.
Riassumendo. Facebook è un luogo sociale e come tutti i luoghi sociali la sua funzione psico-sociologica è fornire e garantire un’identità. Un profilo Facebook con pochi amici è sospetto tanto quanto uno che ne ha apparentemente troppi. La grammatica del social ci è già chiarissima, anche se non consapevolmente, perché è la stessa della quotidianità pre-internet, solo trasferita in un’infrastruttura differente.
Radical Facebook
In quanto luogo sociale, Facebook è senza dubbio politico. Mettiamoci il cuore in pace. Come una piazza, una riunione di condominio, un parlamento. Ciò che differenzia queste strutture sono le procedure e il controllo. Le procedure partecipative su Facebook teoricamente non esisterebbero; ma all’atto pratico esistono. Siccome come abbiamo visto ciò che interessa a Facebook è il nostro tempo, Facebook ce lo paga con relazioni e identità. Con chi abbiamo più facilmente d’accordo? Con chi ha identità vicina alla nostra, con chi ha qualcosa in comune con noi. Facebook raccoglie le nostre informazioni, le processa, e fa apparire nella nostra newsfeed contenuti che ritiene vicini al nostro pensiero. Questo è anche il controllo che Facebook esercita su di noi e sul mondo ed è il punto in cui il social si distingue più decisamente rispetto al mondo fisico. Questo è il punto politico di Facebook.
Nella vita fisica non entriamo in contatto solo con persone selezionate in base alle loro idee; i luoghi che scegliamo di frequentare ci rispecchiano, ma non sono costruiti su di noi individualmente. Se siamo milanisti (in bocca al lupo) bisticceremo col collega interista dopo il derby, se siamo di sinistra (altrettanto in bocca al lupo) all’aperitivo discuteremo con l’amico cinque stelle, e via dicendo. Sui social, no. In un mondo sempre più atomizzato saranno sempre più le esperienze e le relazioni che nascono direttamente online, dunque secondo gli algoritmi di Facebook. I quali riempiranno la nostra newsfeed di post/video/pubblicità milanisti e di sinistra.
È la cosiddetta filter bubble e fa una cosa piuttosto chiara: radicalizza. Ci fa vivere in un mondo in cui tutti la pensano più o meno come noi. Questo ci toglie i dubbi e ci rafforza nelle nostre convinzioni. Di più, ci toglie la capacità di avere a che fare con opinioni diverse, che in quanto tali vengono subito percepite come aggressive/ostili. Questa filter bubble può essere “bucata” solo da situazioni e dichiarazioni eclatanti. Vi sta venendo in mente qualcuno?
La guerra civile dei media
Cambridge Analytica può aver rubato i dati, ma era tutto apparecchiato perché succedesse. I media liberal-prog, ovvero i media dell’establishment tradizionale, non sono preoccupati dal dato politico, ma da quello economico: i social e le news online gli stanno fregando i clienti e gli inserzionisti. Là dove i media tradizionali erano politicamente schierati – ovvero, quasi tutto l’Occidente – chi era mediaticamente escluso è stato costretto a trovare nuovi canali media; e l’ha fatto. Guardate anche in Italia come esista una correlazione quasi automatica tra appartenenza diciamo ideologica e accesso ai diversi media. Non votavamo destra contro sinistra contro grillini, ma media tradizionali contro nuovi media. Così, non è che i social siano populisti, ma è che i populisti sono dovuti andare sui social perché sui giornali e sulle televisioni non li facevano parlare. Hanno dovuto capire prima e più alla svelta come funzionavano e come si potevano sfruttare. Le fake news sono le comunissime bufale ed esistono da prima dell’invenzione della stampa. Cambridge Analytica che ruba le vostre informazioni è come il PR che vende la propria mailing list a una discoteca o a un locale. Ciò che è davvero all’origine dello scandalo è la direzione economica, più che politica, che la cosa sta prendendo.
Ma la svolta politica è già passata. La resa delle istituzioni è evidente proprio dalle audizioni di Zuckerberg. Per quanto si siano scenograficamente impegnati a circondare il piccolo e isolato Mark dagli alti scranni dei senatori, il punto è che il Senato dello stato più potente del pianeta si è seduto allo stesso tavolo con un’azienda privata che potrebbe distruggere la carriera politica di ognuno dei suoi membri. Perché non è più (solo) un’azienda privata. I nuovi super-mediatori globali sono post-istituzioni o meglio le nuove, vere, istituzioni. Le vecchie dovevano accorgersene quando potevano farci qualcosa. Ora il genio è già stato liberato; Zuckerberg che ai senatori dice che potrebbe pensare di autoregolarsi e autolimitarsi è l’equivalente informatico delle costituzioni octroyee dell’Ottocento europeo. Ma questa è un’altra storia.
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