Caos Italia, ovvero la rivolta del ceto medio
di SINISTRAINRETE (Michele Castaldo)
Con pazienza cerchiamo di spiegare le cause e i possibili sbocchi dell’attuale caos. Lo facciamo partendo dall’interrogativo che si poneva Boccia, presidente della Confindustria, all’Assemblea annuale di quella potente associazione: «possiamo hic et nunc vincere la sfida della competitività con i nostri partner/concorrenti […] con un blocco sociale sul quale poggia la stessa idea della modernità italiana. Il guaio è che», recita il salernitano don Vincenzo, «questa constitiency dell’impresa e del lavoro, nonostante valga almeno 15-16 milioni di voti, si scopre fragile». Come a dire: perché quello che può essere non è? E’ la classica domanda dell’impotenza dell’individuo che non vuol capire le ragioni vere, cioè le cause dei fenomeni e cerca di rincorrere i propri desideri.
Ora, i 15-16 milioni di voti del bacino cui Boccia fa riferimento è rappresentato da un ipotetico blocco sociale comprendente grosso modo la grande borghesia industriale e tutto il ceto medio. Ma, si domanda la Confindustria, cosa sta succedendo, perché quell’unità che dovrebbe essere del tutto naturale evapora piuttosto che condensarsi e addirittura si presenta in blocchi contrapposti? Perché avanza il populismo di un ceto medio ribelle che mette a rischio le residue forze del nostro capitalismo nazionale? La grande industria ed i poteri forti, cioè le banche, i finanzieri interni e internazionali, quei famosi “mercati”, i pescecani della speculazione finanziaria che vanno in giro a prestar soldi vivendo di usura, non accettano di essere messi a rischio dalle rivendicazioni democratiche di settori cresciuti all’ombra di uno sviluppo dell’accumulazione di una fase che ormai abbiamo definitivamente alle spalle.
Ecco il punto in questione. Come disciplinare il ribellismo di un figlio disilluso, allevato nel benessere del periodo delle vacche grasse, e che a un certo punto sputa nel piatto dove ha mangiato? Insomma, dicono lor signori: gli operai sono del tutto passivi e il ceto medio si attiva contro di noi. Ecco come si presenta la questione: l’assenza di un collante di tenuta per una fase che non promette nulla di buono.
Di Maio-Salvini, i due volti della disperazione.
Non ingannino le espressioni roboanti di Salvini o le sorridenti certezze di Di Maio. Questi rappresentano il volto della disperazione e dell’impotenza tanto quanto quello di Boccia e della Confindustria. Non a caso durante tutta la campagna elettorale Lega e M5S hanno tentato continuamente di entrare nelle grazie della grande industria, ma sono stati sempre tenuti debitamente a distanza, perché la coperta è corta e “quando l’acqua è poca la papera non galleggia”.
Qual è la questione? L’Europa ed i suoi vincoli, i cui costi la grande industria ed i pescecani della finanza cercano di scaricare sulle masse lavoratrici e sul ceto medio, stimolando, al momento, due reazioni contrastanti: passività da parte operaia e ribellismo “populista”, contenuto nell’ambito democratico, cioè attraverso il voto elettorale. L’Europa non è un’entità astratta e metafisica, ma un insieme di nazioni e di rapporti con mille contraddizioni tutte ruotanti sul connubio debito-credito, vero cardine del sistema capitalistico di questa fase, perché tutto il modo di produzione capitalistico si regge sulla speranza di produrre e vendere, per questo ci si indebita. Le banche stesse, non ci si illuda, vivono in funzione di questa speranza. Ma, un conto era indebitarsi negli anni immediatamente successivi alla seconda guerra mondiale con una straordinaria prospettiva per l’accumulazione e l’espansione dei consumi, tutt’altra cosa è indebitarsi oggi. E le banche, per sopravvivere, devono calibrare bene dove recuperare fondi, come vincere la concorrenza fra loro, dove e come prestare i soldi. I soldi non sono una carta o un metallo qualsiasi, ma rappresentano il modo concentrato di un valore precedentemente prodotto e proiettato alla produzione di un nuovo valore. Sicché lo scontro che si manifesta come protesta sui vincoli imposti dall’Europa, in realtà è sulla natura della scommessa per il prossimo futuro, e su come la crisi economica mondiale si scaricherà sulle diverse nazioni e, all’interno di queste, sulle diverse classi sociali. Altrimenti detto: la concorrenza delle merci è destinata ad aumentare sempre di più provocando maggiore competitività fra le nazioni e conflitti all’interno di queste. Sicché una nazione per poter sostenere la concorrenza delle sue merci deve sostenere i propri capitalisti a tenere bassi i costi di produzione e agevolarli nelle esportazioni; e questo vuol dire ridurre continuamente le tasse a loro carico. La richiesta della riduzione delle tasse da parte dei capitalisti è la meccanica conseguenza dell’aumentata concorrenza interna e internazionale. Se si riducono le tasse si riducono le entrate per l’erario, di conseguenza si riducono le possibilità di spesa dello Stato. Dunque la scommessa è sulla continua riproduzione di valore. Dal momento che uno Stato, in questa fase storica in modo particolare, non disponendo di un magazzino di valore precedentemente accumulato da poter distribuire munificamente, deve necessariamente far ricorso al debito: farsi prestare i soldi dai “cittadini”, pagare gli interessi per far fronte alla spesa sociale complessiva. La scommessa consiste nella riproduzione continua di valore e l’ingresso continuo di tributi nelle casse dell’erario. Per ottenere i prestiti bisogna essere credibili, fornire le garanzie ai “mercati”, cioè agli investitori. E gli investitori a loro volta per poter investire hanno bisogno di paesi che devono richiedere prestiti e fornire serie garanzie di restituirli.
Il rapporto debito-credito non è, come dicono taluni “ingenui”, un puro fatto contabile, per cui basterebbe renderlo nullo e buona notte. No, il debito è la speranza e la scommessa che tiene in vita una nazione nel moto-modo di produzione capitalistico.
Cerchiamo perciò di scendere più nel dettaglio nel tentativo di fornire una chiave di lettura sulla natura dello scontro che in Italia si appalesa come populismo contro establishment, altrimenti detto: ceto medio e masse di nuova disoccupazione contro la grande industria, le banche, gli apparati della burocrazia statale e l’insieme delle gerarchie politiche, militari e religiose.
Il contratto di governo di Lega-M5S è ispirato a poche e chiare idee-forza tanto unitarie nel loro contenuto quanto contraddittorie nella loro prospettiva, ma di rottura sia rispetto all’establishment, sia rispetto alla vecchia classe operaia. Sono i contenuti di un contratto presenti negli ultimi anni a diffusione popolare nella società che si sono condensati nella campagna elettorale prima e nei risultati elettorali dopo.
A) L’abolizione della legge Fornero metterebbe insieme due necessità: svecchiamento degli addetti nelle aziende (del nord in modo particolare) e assunzioni a condizioni peggiorative di giovani lavoratori. Un punto di incontro politico che metterebbe insieme – se applicato – Salvini e Di Maio. Dunque un costo – quello della riduzione dell’età pensionabile – da scaricare sulle casse dello Stato. Una contraddizione palese verso l’establishment.
B) Un’altra “straordinaria” rivendicazione unificante del duo Salvini-Di Maio è l’aiuto alla piccola e media impresa, che asseconderebbe le necessità sia della piccola impresa, sia delle giovani generazioni alla ricerca del primo impiego. Siamo così alla seconda “straordinaria” contraddizione verso l’establishment, perché quando c’è crisi le banche non possono finanziare tutti, ma sono indotte a selezionare il credito.
C) Una terza rivendicazione unificante di Lega e M5S è la questione degli immigrati, un vero rompicapo, una summa di contraddizioni, che solo chi è digiuno di materialismo può non capire. Il capitalismo italiano (ed europeo) ha bisogno come l’aria per respirare degli immigrati, più ne arrivano meno costeranno negli impianti produttivi, mentre Lega e M5S interpretano due sentimenti convergenti ma opposti: la Lega perché nel nord del paese (in modo particolare del nord-est) dove l’economia composta da piccole e medie imprese in questa fase tira, c’è la piena occupazione grazie all’esportazione verso la Russia dei prodotti del made in Italy; ma i signorotti temono i disordini che un eccesso di immigrati possano rovinare la civile convivenza di una comunità che vuole vivere tranquilla del proprio lavoro, e difendersi contro i male intenzionati. Un sentimento che Salvini interpreta coscientemente. Il M5S, sulla questione degli immigrati, vive una palese contraddizione, essi servono anche alla piccola e media impresa, dunque sono necessari; ma sono un concorrente sleale per i disoccupati italiani in modo particolare in Italia meridionale. Qual è il terreno politico unificante con la Lega? La parola d’ordine: Prima gli italiani! Ecco un altro piatto forte del contratto. Ecco perché il capo della Confindustria si lamenta per «la mancanza di una destra borghese e repubblicana», anche perché i paesi europei usano lo sbarco degli immigrati sulle nostre coste come valvola di sfogo per le sterminate masse di impoveriti africani, in assenza della quale aumenterebbero le tensioni sociali in tutti quei paesi non facilmente gestibili da interventi esterni. Una preoccupazione questa ben presente fra i consiglieri dei poteri forti.
Sia detto a chiare lettere: Salvini rappresenta la mentalità gretta del bottegaio di provincia che si vuole armare per difendersi dall’assedio dei disperati, mentre il M5S vorrebbe evitare lo sbarco degli immigrati a) per l’alto costo dei “salvataggi” e destinare le risorse di queste operazioni a sostegno della piccola e media impresa, b) per ridurre la concorrenza nei confronti dei disoccupati italiani, c) per ridurre al minimo le tensioni per la presenza degli immigrati.
Dunque meno tasse allo Stato – Flat Tax o come ancora la vorrebbero chiamare – e più risorse alla piccola impresa. Ecco un altro dei terreni convergenti dei due movimenti.
La chiusura dell’Ilva e lo stop alla Tav per Lega e M5S, cioè le grandi opere, rappresentano la volontà di intere aree geografiche di salvaguardare ambiente e territorio, e destinare le risorse /verso/ alla piccola e media impresa. Si spiega in questo modo la volontà di un Michele Emiliano, governatore della regione Puglia, di confrontarsi con il M5S.
Quanto al reddito di cittadinanza esso va affievolendosi sempre di più per diventare un sussidio di disoccupazione maggiorato.
Sulla politica estera, capriole e giravolte a parte, i due movimenti erano e sono abbastanza omogenei: il nemico era ed è l’Europa ed i suoi vincoli, ovvero l’incapacità di competere con chi – come la Germania – è riuscita anche nella crisi a mantenere in ordine i suoi conti e sviluppare un import-export con la Russia senza fare rumore. Salvini si scopre “internazionalista” e “terzomondista” chiedendo di togliere le sanzioni alla Russia non perché è comunista, ma perché le piccole e medie aziende del nord est hanno difficoltà a esportare in quel paese. A tal fine, per poter godere di maggiore autonomia, udite udite, schiera Paolo Savona (alla faccia del nuovo), navigatissimo negli ambienti confindustriali e finanziari interni e internazionali (altro che lotta contro l’establishment!) che propone, il famoso piano B, cioè l’uscita dall’euro, possibilmente di notte. Ora se il signor Savona è un vero e proprio filibustiere, in Confindustria proprio fessi non sono, e alla presidenza della Repubblica Mattarella è certamente contornato da consiglieri altrettanto navigati. Si è prodotto così uno scontro reale, un vero e proprio braccio di ferro tra l’insieme dell’establishment e gli esponenti del Contratto per il nuovo governo e l’ha spuntata all’immediato – ovviamente – chi detiene ancora il vero potere economico ben saldo nelle mani: la grande industria e le banche italiane ed europee, esattamente quei poteri forti contro cui si battono le classi medie rappresentate da Lega e M5S. Ma la realtà è dinamica e dialettica, non appena M5S e Lega, dopo aver gridato allo scandalo, perché sarebbe stata calpestata la democrazia, minacciano di scendere in piazza il 2 giugno alla festa della Repubblica, l’establishment è costretto a venire a patti con i contrattisi e questi a fare un passo di lato e spostare il professor Savona ad altro dicastero, quello dei rapporti con l’Europa, tie’! Pace – armata – fatta: fedeltà alla Repubblica e ai vincoli europei, un governo infoltito di ministri “tecnici” ovvero rigorosamente legati all’establishment. Così Di Maio dopo aver tuonato che “ormai è inutile votare” diventa guardiano della “rivoluzione” della nuova italianità.
Che si tratti di uno scontro duro, anzi durissimo tra settori dell’imprenditoria italiana è fuori di ogni ragionevole dubbio e i risultati elettorali del 4 marzo 2018 lo avevano già ampiamente dimostrato. Che esso possa essere ricondotto nel naturale alveo dei canali democratici è pura miopia. Che il ceto medio possa dare l’assalto ai poteri forti attraverso l’uso democratico della scheda elettorale è pia illusione. Già la Confindustria ha dimostrato che alla guerra si risponde con la guerra e un eventuale partito di “vera destra repubblicana” – anelato da Boccia – passa necessariamente attraverso il disciplinamento del ceto medio che in una fase di vera crisi capitalistica come quella attuale è destinato a impoverirsi ed avere perciò meno voce in capitolo.
Salvini si chiedeva «noi in piazza? molti ce lo stanno chiedendo» e c’è chi evoca scenari da anni venti, di marcia su Roma, di nuovo fascismo e così via. Non esageriamo, la storia non si ripete mai allo stesso modo, mai nello stesso fiume scorre la stessa acqua. Il fascismo coagulò il malcontento di più settori sociali con al centro i reduci di guerra che rivendicavano una giusta ricompensa per l’impegno profuso nella guerra. Ma – questo il punto qualificante della nostra analisi – era un movimento che nasceva in una fase che prometteva uno straordinario sviluppo economico, dunque sociale e politico, fondato sulla forza dell’espansionismo imperialista dell’Italia. E’ del tutto chiaro che a fronte di chi predicava l’Internazionalismo proletario nei confronti di masse affamate ebbe buon gioco chi proponeva l’azione della forza di un’Italia in crescita per le colonie e la prospettiva di grandi opere infrastrutturali e la bonifica di zone paludose, come la pianura Pontina. Uno spirito certamente egoistico, che prevalse nei confronti di una proposta solidaristica e di classe, con la quale la Confindustria andò a nozze. E’ quel tipo di collante che oggi manca!
Oggi i paesi europei per poter partecipare all’aumentata concorrenza internazionale avrebbero come unica possibilità la creazione di una forza militare unitaria per ritagliarsi lo spazio per nuove imprese coloniali piuttosto che procedere in ordine sparso. E questo richiederebbe una montagna di risorse economiche da investire, da parte degli Stati, che dovrebbero ulteriormente raschiare il barile anche nei confronti del ceto medio, proprio mentre la crisi economica tende ad aggravarsi piuttosto che avviarsi verso una soluzione. Questa è la realtà. E il quadro desolante per un Salvini è quello del bottegaio che si chiude in casa armato perché impaurito dalla presenza degli immigrati a differenza degli anni venti quando le squadre fasciste cantavano Faccetta nera inneggiando ai fasti della potenza italica in nord Africa. Una differenza che i vari pollai dei talk show e la stampa tutta non capiscono.
Chi sono oggi quelli che – parlando della Lega – chiedono di scendere in piazza contro lo schiaffo dei poteri forti? Lo dice Salvini: «sindaci, avvocati, medici e piccoli imprenditori», ma lui stesso frena, «ci devo pensare, voglio ragionarci a mente fredda». A Napoli direbbero “s’ammesura ‘a palla ‘o fesso”. Per questi settori lo Stato ed i poteri forti non possono concedere nulla. In piazza si va per fame, che non è proprio la condizione degli elettori della Lega. Si tratta perciò di settori che non possono schierarsi fino in fondo con i poteri forti – il famoso partito di destra repubblicana – e contemporaneamente non possono essere coerenti fino in fondo nello scontro con quei poteri. E la Confindustria ne è ben consapevole.
Molto diversa la questione per il M5S che a differenza della Lega ha raccolto nel centro-sud d’Italia il voto di masse di lavoratori precari, disoccupati, pensionati e operai di settori in crisi, oltre quelli di piccoli imprenditori, artigiani e professionisti. Un materiale certamente più incandescente di quello leghista. Dunque quello che poteva essere unificato come volontà elettorale e confluire in un contratto governativo è destinato a separarsi sul piano della mobilitazione di piazza. Siamo se non proprio alla resa dei conti, ad essa ben indirizzati: il M5S, che fino ad oggi si è sempre dichiarato controllore della pace sociale e contro le intemperanze di piazza, oggi arriva al punto di affermare che «non serve più andare votare», e sollecita la mobilitazione di piazza: per la democrazia, contro i poteri forti e i colpi di mano della presidenza della Repubblica. Un cambio di posizione dovuto alla pressione di massa, che ad un certo punto diviene incontenibile. Tranquillizzata, la piazza si alimenta di illusioni: «ora è fatta, ora i fatti!» dice la piazza.
Nel precedente articolo – Dopo il 4 marzo – ho sostenuto che il M5S è un movimento composito che tiene unite necessità e bisogni anche contrapposti e per queste ragioni è destinato scomporsi. Non è escluso che di fronte alla necessità di chiamare alla mobilitazione di piazza sorgano le prime vere difficoltà, le prime linee di fuga oppure si continua nell’illusione di poter vincere da soli o anche con la Lega. Di sicuro niente è più come prima, il moto-modo di produzione è arrivato ad un punto in cui anche in paese imperialista come l’Italia, dunque non la piccola Grecia. Tutte le classi prodotte sin qui dal modo di produzione capitalistico si scatenano una contro l’altra in una bolgia infernale con la possibilità storica di un effetto domino dagli esiti imprevedibili. E’ l’antisistema che avanza.
Confindustria e poteri forti come pensano di arginare la dirompenza del ceto medio? Una domanda molto complicata quando ci sono le casse vuote, il debito aumentato e un mercato sempre meno ricettivo di merci. Il diavoletto Renzi ci ha provato a costruire un partito di tipo corporativo che tenesse insieme industriali e operai, ma ha dovuto procedere allo smantellamento di tutti i diritti dei lavoratori, un processo cominciato ben prima di lui. Ecco spiegata la liquefazione del Partito Democratico. E chi cercava di criticare le scelte di Renzi – vero tentativo di centralizzare politicamente gli interessi dell’economia italiana – non è stato credibile agli occhi di operai, disoccupati e pensionati ed è stato relegato in un angolo a brontolare sui se e sui ma. In verità i prodromi del 4 marzo erano ben scritti nella sconfitta del referendum del 4 dicembre 2016 dove insorsero tutte le periferie economiche e geografiche contro il tentativo di dare stabilità politica a un paese in crisi irreversibile. Chi ha indicato in Renzi il nemico giurato dei disastri italiani non ha capito che lui rappresentava la foglia di fico di chi alle sue spalle tramava, perché boccheggiante, per la crisi. Sconfitto Renzi, tolta la foglia di fico, è uscito allo scoperto il mostro a più teste.
Tutti i giochetti di palazzo, le menzogne, le convocazioni, i tentativi, le nomine e le smentite sono l’espressione di reali difficoltà di un capitalismo in crisi che si manifesta nel paese sesta potenza economica del mondo. Non è cosa di poco conto.
Ma gli operai perché sono fermi e passivi, perché non si mobilitano, perché non costituiscono un proprio partito? Drammatica la risposta: gli operai si comportano nei confronti del capitale e dei capitalisti come i girasoli nei confronti del sole, dipendono da essi, sono ad essi complementari. Chi oggi dovesse chiedere agli operai di costituirsi in partito farebbe un buco nell’acqua.
Pessimismo? Tutto il contrario, perché le masse di disoccupati, di immigrati e di operai saranno costrette ad agire ben oltre i loro pensieri, ben al di là delle proprie idee. Basta conoscere la piega che va prendendo questa crisi per capire. Non ci sarà bisogno che un Di Maio di turno chiederà di manifestare per far valere la “volontà del popolo elettore”. Anche in questo inizio di terzo millennio? Si, anche agli inizi del terzo millennio nonostante le luci della ribalta delle nostre ricche metropoli. Questa crisi di governo ha segnato solo un altro passaggio verso un caos maggiore. Quanto alle grandi opere, come l’Ilva e la Tav, possono essere messe in discussione e chiuse solo da uno straordinario movimento di massa vera forza d’urto per abbattere le barriere di un capitalismo vorace. Un tale movimento è agli antipodi di quello del voto sulle schede elettorali. Dunque le rivendicazioni di questa natura sono destinate a diventare lettera morta.
Detto in estrema sintesi: contro la forza delle leggi impersonali dell’economia capitalistica è illusorio e fuorviante pensare di cambiarne la rotta con una direzione politica diversa. Si impone un’unica condizione: la forza dei movimenti di massa. Tutto il resto sono insipienti chiacchiere.
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