La scuola deve avere una giusta separatezza dalla società
di MASSIMO BONTEMPELLI
Una volta mi recavo ad una conferenza presso una scuola. La signora che mi accompagnava mi spiegava come in quella scuola all’avanguardia si insegnassero materie come Antropologia culturale, Psicoanalisi. Io rimasi un po’ perplesso, chiesi dove trovavano insegnanti per insegnare materie così complesse. Candidamente, questa signora mi spiegò che erano svolte da insegnanti di altre materie, e che comunque quei corsi erano relegati al sabato nelle ultime ore. Chiesi allora perché attivare materie così importanti per svolgerle in maniera così marginale. Perché attirano gente, fu la risposta.
Insomma dal punto di vista economico, se riferita agli oggetti di consumo, la concorrenza ha un senso, perché il cliente sarà spinto ad acquistare quelli che gli funzionano meglio, ma non lo ha nella scuola, perché il cliente della scuola non è spinto a cercare la cultura profonda, la formazione dell’uomo, che magari i genitori non sanno nemmeno cosa siano. Dire che il cliente sceglie la scuola migliore significa in realtà puntare al ribasso. Anche la concorrenza tra insegnanti – spingono in tutti i modi a dividerci, cercano di metterci in contrasto per pochi spiccioli – non è che privilegia il merito.
La dimensione educativa è una dimensione, diciamolo, spirituale, per cui bisognerebbe che l’aspetto economico fosse garantito. Nella scuola andrebbe proprio bene quello che si critica, una sicurezza economica per cui non fosse necessario pensare più ai soldi, rincorrendo, come accade oggi, progetti o pseudo progetti con l’unico scopo di dividersi qualche spicciolo. L’ideale sarebbe un insegnante che, proprio perché ha garantita una base economica, possibilmente più decente di quella attuale, si spende anche gratuitamente.
Lo smantellamento del sistema nazionale della pubblica istruzione ci riporta indietro a prima della rivoluzione francese, quando l’istruzione delle persone dipendeva dalle famiglie. La scuola pubblica, che si fa carico di trasmettere i saperi essenziali di una nazione da una generazione all’altra, non è nata in Italia, come normalmente si crede, con la legge Casati del 1859, ma è, anche in Italia, figlia della Rivoluzione francese.
Nella Convenzione Nazionale, cioè l’Assemblea Costituente della rivoluzione francese, che ha dettato poi le nuove costituzioni della Francia, si discusse moltissimo dei problemi della scuola, intervenivano esperti della scuola come Condorcet, ma anche grossi calibri politici come Robespierre e Brissot. La scuola come noi la conosciamo è nata lì. Anche in Italia, come in tanti altri paesi, la scuola pubblica è nata sull’onda della rivoluzione francese.
Il primo sistema scolastico pubblico italiano è stato quello del Regno d’Italia. Non però del Regno d’Italia creato nel 1861, ma di quello di Eugenio de Beauharnais, che nonostante avesse il vicerè francese e fosse vassallo della Francia, aveva un organo rappresentativo italiano, ministri italiani, ed un esercito con il tricolore e con generali italiani, e che fu cancellato dalla Restaurazione del 1815. In questo Regno d’Italia c’è stata la prima riforma scolastica, prima ancora di Casati, che era più di una riforma, perché non si trattava di riformare la scuola, ma di introdurla.
È la famosa Legge Paradisi-Moscati, che ha introdotto per la prima volta una scuola elementare, una scuola media e una scuola superiore. Questa scuola è nata per formare il cittadino, e nella Convenzione Nazionale queste cose erano dette esplicitamente. Con la rivoluzione francese siamo entrati in un’epoca nuova: se l’individuo non deve più essere suddito di poteri feudali, ecclesiastici, di tradizioni schiaccianti, ma deve essere cittadino, partecipare alla vita politica della propria comunità, determinarla, questo non è assolutamente possibile senza un certo grado di informazione
e di comprensione della realtà sociale, della sua scienza, della sua storia.
La scuola pubblica è nata esplicitamente collegata al diritto di cittadinanza; tant’è vero che nelle relazioni di presentazione di questa legge, che pure sono svolte da personalità di ispirazione conservatrice, si legge che la scuola deve essere pubblica, e non ci deve essere in essa neppure “un grammo” – usano proprio questa espressione – di privato. Tant’è che veniva esclusa l’esistenza stessa di una scuola privata. La scuola è pubblica e nazionale; cioè devono essere stabiliti a livello nazionale programmi ed obiettivi, e questo perché la scuola ha la funzione di rendere possibile la cittadinanza. Questi principi sono stati ripresi mezzo secolo dopo, alla vigilia dell’unità d’Italia.
Nella relazione di Casati per la legge scolastica del 1859 è detto che l’iniziativa privata deve essere assente nella scuola. E Casati non era certo contro l’iniziativa economica privata. Era un liberale e un liberale perfino più conservatore di Cavour. Ma proprio perché si era favorevoli all’iniziativa privata nella vita economica, proprio perché l’uomo nella società si spende come homo oeconomicus, fu scelto di dare una formazione che economica non fosse.
Deve avere, la scuola, una giusta separatezza dalla società. Non separatezza nel senso che non deve occuparsi dei problemi sociali, ma nel senso che non deve essere schiacciata sulla immediatezza sociale. La scuola viene rovinata quando si comincia a dire – e l’esito finale sarà l’abolizione del valore legale del titolo di studio – che non deve fare altro che dare le abilità che servono al sistema economico, all’affermazione sociale. In questa maniera si è di fatto abolita la scuola.
La scuola deve invece insegnare ciò che nell’immediatezza sociale non si può apprendere, e che oggi è più fondamentale che mai. Alla televisione, in una rete locale della mia città vidi un programma di una preside di una scuola della provincia iper-riformatrice berlingueriana, deputata DS oltre che preside, la quale vantava il carattere progressivo ed innovativo della sua scuola, perché avevano organizzato un’attività per cui gli studenti avevano messo in piedi una specie di banca all’interno dell’istituto.
Penso che se si deve imparare la tecnica bancaria, la insegnano meglio le banche. A che cosa serve la scuola? Ci trovi, nella scuola, la tragedia greca, Sofocle, l’Antigone, quelli non li trovi mai nel normale commercio sociale. La scuola deve collocarsi su un altro piano se deve formare l’uomo, il cittadino e non l’homo oeconomicus: quello ci pensa già la società a formarlo. La scuola tradizionale, che non voglio difendere, in quanto era “avvizzita”, bisognava riformarla in direzione opposta, cioè bisognava rinnovare i suoi contenuti culturali in modo da renderli vivi, significanti.
Personalmente, a un certo punto della mia vita mi sono appassionato al greco, perché mi ha permesso di penetrare la sapienza di Eraclito, di Parmenide. Quando ero a scuola lo detestavo: in parte perché me lo insegnavano in maniera arida, perché per gli stessi insegnanti era ridotto a una tecnica. C’era molto da riformare nella scuola tradizionale. Ma perché quella cultura diventasse più viva e acquistasse significati che risuonassero di più nell’animo delle persone, perché non fosse una semplice esercitazione, non certo per abolirla, per insegnare “cose che servono”, che so, l’informatica o l’inglese commerciale, perché in questa maniera, oltre tutto, la scuola sarà sempre condannata ad inseguire cose che altri fanno meglio.
[da M. Bontempelli, La convergenza del centrosinistra e del centrodestra nella distruzione della scuola italiana, editrice petite plaisance 2003]
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