Frammenti: circa piccole polemiche sulle lettere di Marx (1870)
di ALESSANDRO VISALLI
Siamo nel 1870, quasi al punto culminante di quello che Engels, nella prefazione del 1892 a “La situazione della classe operaia in Inghilterra”, chiama: “il poderoso sviluppo della produzione nel ventennio tra il 1850 ed il 1870, e con le impressionanti cifre dell’esportazione e dell’importazione, della ricchezza che si accumula nelle mani dei capitalisti e della forza-lavoro umana che si concentra in città gigantesche” (ivi, p.45). Mentre la forza-lavoro umana (termine tecnico che non indica le persone in quanto tali, con l’intera loro personalità e qualità, ma le persone reificate come contenitori di lavoro astratto, quantificabile e fatto merce scambiabile) si concentra nella macchina produttiva per eccellenza, le grandi città industriali (cfr, Lefebvre, 1968 e seg.), la classe operaia ottiene temporanei miglioramenti “anche per la grande massa” (Engels subito dopo distingue tra l’aristocrazia operaia e gli operai di base), ma “poi ogni miglioramento veniva continuamente ricondotto al vecchio livello per l’afflusso della gran massa di riserva dei disoccupati, per la incessante espulsione di operai da parte del nuovo macchinario e per la immigrazione dei lavoratori agricoli, anch’essi ora e sempre più soppiantati dalle macchine”.
Seguirà la crisi del 1876 e gli anni di “depressione soffocante”, con “una saturazione cronica di tutti i mercati per tutti gli affari”.
Ancora qualche cenno sulla situazione storica: intorno agli anni sessanta del 1800 in Inghilterra tre quarti dei 24 milioni di abitanti facevano parte di quella che Baxter chiama “la classe dei lavoratori manuali”. Di questi solo il 15% poteva essere considerata ben pagata e facente parte della “aristocrazia del lavoro” (con salari dal doppio a quattro volte quelli di base). Il sindacalismo era molto poco sviluppato e si espanse solo dopo il 1871, arrivando a mezzo milione di iscritti alle Trade Unions. Per fare qualche paragone, i servitori domestici al 1871 era circa un milione e duecentomila e la classe media componeva qualcosa come settecentomila unità, in agricoltura erano impiegati più o meno un milione e mezzo di persone. I salari reali erano restati stagnanti dal 1850 al 1860, ma poi salirono del 40% fino al 1870, quindi subirono un lieve rallentamento.
Allora, siamo nel 1870, Marx scrive a Laura e Paul Lafargue, che sono a Parigi, il 5 marzo, e poi scrive a Sigfried Meyer e August Vogt il 9 aprile. Ma prima aveva scritto a Ludwig Kungelmann, ad Hannover, il 29 novembre 1869. Leggeremo insieme queste tre lettere.
Ancora due parole prima: Karl Marx (Treviri, 1818, Londra, 1883) era un uomo. Visse con grande intensità e passione il suo tempo, farne un profeta, o peggio un dio, e leggerlo con lo stesso spirito con il quale i credenti leggono i testi sacri, qualunque essi siano Bibbia, Corano o altri, è il più grande torto che gli potremmo fare. Lui non ce lo perdonerebbe, e riderebbe di noi.
Questo uomo, mentre soffre per continui ascessi, scrive sulla questione irlandese, che da decenni accompagnava lo sviluppo industriale inglese e che si ripresentava in quegli anni in cui, durante quella che si suole chiamare la seconda rivoluzione industriale i tre fattori di pressione sui salari dei lavoratori, di cui parla Engels venti anni dopo, sono tutti presenti: l’afflusso della gran massa di riserva dei disoccupati, l’incessante espulsione di operai da parte del nuovo macchinario e l’immigrazione dei lavoratori agricoli (anche dall’Irlanda).
Scriverà quindi Marx a Kulgelmann che si è “vieppiù convinto che qui in Inghilterra [la classe operaia] non potrà mai fare qualche cosa di decisivo, fintanto che non separerà la sua politica riguardo all’Irlanda nel modo più categorico, dalla politica delle classi dominanti, fino a quando non farà causa comune con gli Irlandesi”. Una frase notevole, che avrebbe un significato se non fosse immediatamente seguita dall’obiettivo di questa “causa comune”: “ma prenderà perfino l’iniziativa per lo scioglimento dell’Unione fondata nel 1801 e per la sua sostituzione con un libero rapporto federale”.
Questa politica antimperialista (contro precisamente l’imperialismo inglese verso l’Irlanda) “deve essere fatta non come cosa sorta da simpatia per l’Irlanda”, non per motivi etici o umanitari, “ma come una rivendicazione fondata sull’interesse del proletariato inglese”. Si tratta dell’interesse a indebolire il capitale inglese, che sfrutta l’Irlanda direttamente, e di ridurre la concorrenza, da questo diretta, verso le proprie rivendicazioni salariali.
Il modo di ragionare di Marx (probabilmente l’unica cosa che possiamo prendere ad esempio, dato che la situazione è del tutto diversa oggi) non prevede, quindi, che l’alleanza tra classe lavoratrice inglese e irlandese si compia sulla base di un astratto cosmopolitismo, o di un sentimentale afflato, ma per l’interesse proprio ben inteso. Per l’interesse, cioè, della classe lavoratrice inglese. E cosa deve essere fatto? Essenzialmente creare indipendenza, liberarsi dell’imperialismo. Liberandosi di questo prendere nelle proprie mani il proprio destino e fermare il continuo deflusso, prodotto per gli interessi del capitale, della popolazione agraria ancora abbondante in Irlanda verso le manifatture inglesi. Il deflusso, infatti cesserà se cessa lo sfruttamento che ne è causa.
La lettera continua: “altrimenti il popolo inglese rimane a guinzaglio delle classi dominanti perché con queste esso deve fare causa comune di fronte all’Irlanda. Ogni suo movimento nella stessa Inghilterra rimane paralizzato dal dissidio con gli irlandesi che nell’Inghilterra stessa formano una parte assai considerevole della classe operaia”.
Succede, cioè, qualcosa che può avere una qualche somiglianza con ciò che sta accadendo in Europa ed in Italia, ne abbiamo appena parlato: la potenziale divergenza di interesse tra la frazione nazionale del capitale (piccolo e medio), prevalentemente rappresentato dalla Lega, e le classi lavoratrici periferiche, prevalentemente rappresentate dal M5* (dato che hanno abbandonato la rappresentanza delle sinistre) è canalizzata in una abile azione distrattiva sull’immigrazione. L’immigrazione è usata quindi per tenere a guinzaglio.
Ma nel fare questo discorso Marx (come Engels), però, mai, in nessun momento nega che ci sia un problema, non rifiuta di vederlo. Alla fine si risolvono nella direzione data perché lo ristrutturano inserendolo in due contesti prioritari: la lotta di classe per la rivoluzione e la lotta all’imperialismo.
In primis la lotta per l’emancipazione, nelle condizioni date, in cui il grande capitale (ancora in parte terriero) ha radici nella colonia irlandese. Sotto questo profilo lottare contro di esso significa tagliare queste radici. Dunque bisogna tagliarle, ma questo deve essere fatto direttamente dagli irlandesi, sul posto, in Irlanda: “appena la cosa sarà data in mano al popolo irlandese stesso, appena questa sarà diventato il proprio legislatore e governante, appena diventa autonomo, perché in Irlanda non si tratta solo di una questione semplicemente economica, bensì allo stesso tempo di una questione nazionale, poiché là i landlords non sono come in Inghilterra i dignitari e i rappresentanti tradizionali, ma sono invece gli oppressori della nazionalità, mortalmente odiati” (corsivo nell’originale).
Dunque potremmo considerare sotto questo profilo il suggerimento di spostare la lotta, e la battaglia ideologica, sul piano antimperialista, chiarendo in che modo è lo sfruttamento del capitale forte dei paesi più sviluppati che determina le condizioni che ci troviamo di fronte. Avevo chiamato questo lato del problema “economia politica dell’emigrazione” e denunciato l’anno scorso sia “l’estrazione di risorse”, sia “Il ruolo del credito”, e richiamato la posizione, davvero molto simile a questa di Marx, dell’economista Samir Amin nella conferenza “La sovranità popolare unico antidoto all’offensiva del capitale”.
Quattro mesi dopo comunque lo stesso Marx scrive il 5 marzo una lettera a Laura e Paul Lafargue, che sono a Parigi (opere, vol. XLIII, p. 709) nella quale dà conto di una circolare scritta sulla situazione irlandese. Anche qui afferma di non essersi lasciato guidare “soltanto da sentimenti umanitari” (che pure ci sono), ma anche da “altre ragioni”. L’obiettivo è infatti di “accelerare la catastrofe dell’Inghilterra ufficiale”, ovvero farla precipitare, via radicalizzazione delle tensioni, verso la rivoluzione.
Come si fa? Lo sguardo di Marx è geopolitico: “a questo scopo bisogna colpire in Irlanda. È questo il suo [dell’impero britannico] punto più debole. Se l’Irlanda va perduta, l’ ‘Empire’ britannico è finito, e la lotta di classe in Inghilterra, fino ad ora sonnacchiosa e lenta, assumerà forme violente”.
Questa osservazione di Marx può essere resa più chiara dalla lettura del testo di Engels: guardando dal punto in cui quell’impero è entrato in crisi, ed il suo monopolio industriale si è interrotto, l’anziano amico di Marx chiarisce che era quello sfruttamento, quello delle colonie, che consentiva di distribuire qualche piccolo vantaggio e sopire la lotta di classe. Scrive: “la verità è questa: finché è durato il monopolio industriale dell’Inghilterra la classe operaia inglese ha partecipato in qualche misura ai vantaggi di questo monopolio. Questi vantaggi furono ripartiti nel suo interno in modo assai disuguale: la minoranza privilegiata ne intascò la parte maggiore, ma anche la gran massa ebbe almeno di quanto in quanto e per poco la sua parte. E questo è il motivo per cui dopo la scomparsa dell’owenismo in Inghilterra non vi è più stato socialismo” (Engels, prefazione del 1885). Traducendo all’oggi questa osservazione si può riconoscere che una parte della classe media inferiore (una categorie che non esisteva nell’Inghilterra vittoriana e che è il prodotto degli anni di espansione del dopoguerra) si giova in effetti dell’importazione di risorse umane (ovvero di forza-lavoro umana) in posizione subalterna e di debolezza contrattuale, in quanto ne può sfruttare i servizi (come domestici, come tuttofare, come operai o impiegati disponibili). È la posizione imperiale che ancora in parte coltiviamo che ci consente questo sfruttamento.
In questo contesto veniamo ora a leggere la lettera a Sigfried Meyer e August Vogt del 9 aprile 1870.
Marx ribadisce preliminarmente che il nodo della questione è sempre l’indipendenza dell’Irlanda, e continua, descrivendo la circolare già citata:
“Dopo essermi occupato per anni della questione irlandese, sono giunto al risultato che il colpo decisivo contro le classi dominanti in Inghilterra (ed esso sarà decisivo per il movimento operaio in tutto il mondo) può essere sferrato non in Inghilterra, bensì soltanto in Irlanda.
Il 1° gennaio 1870 il Consiglio generale ha emanato una circolare segreta, da me redatta in francese – (per il contraccolpo sull’Inghilterra sono importanti soltanto i giornali francesi, non quelli tedeschi) – sul rapporto tra la lotta nazionale irlandese e l’emancipazione della classe operaia e quindi sulla posizione che l’Internazionale deve assumere nei riguardi della questione irlandese”.
Ecco i termini della questione:
“Riassumo qui brevemente per voi i punti decisivi. L’Irlanda è il baluardo dell’aristocrazia fondiaria inglese. Lo sfruttamento di questo paese non è soltanto una delle fonti principali della sua ricchezza materiale. Esso è anche la sua massima autorità morale. Di fatto essi rappresentano il dominio dell’Inghilterra sull’Irlanda. L’Irlanda, perciò è il grande mezzo mediante il quale l’aristocrazia inglese conserva il suo dominio anche in Inghilterra.
D’altro canto: se domani l’esercito e la polizia inglese si ritirano dall’Irlanda, voi avrete immediatamente una rivoluzione agraria in Irlanda. La caduta dell’aristocrazia inglese in Irlanda condiziona, a sua volta, e ha come conseguenza necessaria la sua caduta in Inghilterra. Ciò soddisfarrebbe la condizione preliminare per la rivoluzione proletaria in Inghilterra. Poiché in Irlanda, sino ad oggi, la questione agraria è stata la forma esclusiva della questione sociale, poiché essa è una questione di pura sopravvivenza, una questione di vita o di morte, per l’immensa maggioranza del popolo irlandese, poiché, al tempo stesso, essa è inscindibile dalla questione nazionale, l’annientamento dell’aristocrazia fondiaria inglese in Irlanda è un’operazione infinitamente più facile che non in Inghilterra. Tutto ciò a prescindere dal carattere, più passionale e rivoluzionario degli irlandesi, rispetto agli inglesi”.
Ma prosegue denunciando in modo più specifico le condizioni di sfruttamento del capitale inglese organizza nella sua colonia irlandese. Fornitore di prodotti di base a basso prezzo (come accade con le monoculture e gli sfruttamenti minerari in Africa oggi), e costante spopolamento da quella parte eccedentaria della popolazione che potrebbe creare instabilità politica in loco.
“Per quanto riguarda la borghesia inglese questa ha in primo luogo in comune con l’aristocrazia inglese l’interesse a trasformare l’Irlanda in pura e semplice terra da pascolo che fornisce carne e lana ai prezzi più bassi possibili per il mercato inglese. Essa ha lo stesso interesse a ridurre la popolazione irlandese al minimo mediante esproprio e emigrazione forzata; in modo che il capitale inglese (capitale d’affittanza) possa funzionare in questo paese con sicurezza. Essa ha i medesimi interessi a spopolare le terre d’Irlanda, che aveva a spopolare i distretti agricoli di Inghilterra e Scozia”.
Poi c’è un semplice trasferimento di ricchezza, ovvero una sua estrazione attraverso i titoli di proprietà.
“Le 6.000-10.000 sterline dei proprietari assenteisti e delle altre rendite irlandesi che oggi affluiscono ogni anno a Londra, sono pure da mettere in conto”.
Il terzo meccanismo è il “più notevole”: l’estensione del modo di produzione intensivo e monoculturale, che espelle i lavoratori impegnati in attività di sussistenza precapitalistiche, messo in contatto con la vicina Inghilterra nella quale ormai pochi costituiscono la riserva agricola, serve a comprimere i salari, funge da rinforzo a quell’”esercito di riserva” costituito in primo luogo dai disoccupati e sottoccupati e poi dagli agricoltori:
“Ma la borghesia inglese ha interessi ancora più notevoli nell’attuale economia irlandese. Attraverso la continua e crescente concentrazione dei contratti di affitto l’Irlanda fornisce il suo sovrappiú al mercato del lavoro inglese e in tal modo comprime i salari nonché la posizione materiale e morale della classe operaia inglese”.
Ciò non impedisce a Marx di affermare contemporaneamente che questa competizione, che c’è e che ha appena descritto, viene funzionalizzata dal capitale due volte. Una volta per aumentare i profitti abbassando i salari rispetto alla produttività, una seconda disciplinando i lavoratori stessi e deviando la loro giusta rabbia.
“E ora la cosa piú importante! In tutti i centri industriali e commerciali dell’Inghilterra vi è adesso una classe operaia divisa in due campi ostili, proletari inglesi e proletari irlandesi. L’operaio comune inglese odia l’operaio irlandese come un concorrente che comprime il tenore di vita. Egli si sente di fronte a quest’ultimo come parte della nazione dominante e proprio per questo si trasforma in strumento dei suoi aristocratici e capitalisti contro l’Irlanda, consolidando in tal modo il loro dominio su se stesso. L’operaio inglese nutre pregiudizi religiosi, sociali e nazionali verso quello irlandese. Egli si comporta all’incirca come i bianchi poveri verso i negri negli Stati un tempo schiavisti dell’unione americana. L’irlandese lo ripaga con gli interessi della stessa moneta. Egli vede nell’operaio inglese il corresponsabile e lo strumento idiota del dominio inglese sull’Irlanda”.
Uno scontro che non significa sia infondato sulle circostanze di fatto (le ha appena ricordate sopra), ma che è sfruttato dall’esterno.
“Questo antagonismo viene alimentato artificialmente e accresciuto dalla stampa, dal pulpito, dai giornali umoristici, insomma con tutti i mezzi a disposizione delle classi dominanti. Questo antagonismo è il segreto dell’impotenza della classe operaia inglese, a dispetto della sua organizzazione. Esso è il segreto della conservazione del potere da parte della classe capitalistica. E quest’ultima lo sa benissimo”.
Di qui torna su considerazioni geopolitiche connesse con la rivoluzione mondiale:
“Il malanno non finisce qui. Esso si riproduce al di là dell’oceano. L’antagonismo tra inglesi e irlandesi è il fondamento nascosto del conflitto tra Stati Uniti e Inghilterra. Esso rende impossibile ogni seria e sincera collaborazione tra le classi operaie dei due paesi. Esso permette ai governi dei due paesi, ogni volta che lo ritengano opportuno, di togliere mordente al conflitto sociale sia aizzandoli l’uno contro l’altro, sia, in caso di necessità, mediante la guerra tra i due paesi”.
E conclude.
“L’Inghilterra, in quanto metropoli del capitale, in quanto potenza fino ad oggi dominante il mercato mondiale, è per il momento il paese più importante per la rivoluzione operaia, oltre a ciò essa è l’unico paese, nel quale le condizioni materiali di tale rivoluzione si siano sviluppate fino ad un certo grado di maturità. Perciò l’obiettivo più importante dell’Internazionale è di accelerare la rivoluzione sociale in Inghilterra. L’unico mezzo per accelerarla è rendere indipendente l’Irlanda. Di qui ne deriva per l'”Internazionale” il compito di mettere sempre in primo piano il conflitto tra Inghilterra e Irlanda, di prendere sempre posizione aperta a favore dell’Irlanda. Il compito specifico del Consiglio centrale a Londra, è di risvegliare nella classe operaia inglese la consapevolezza che l’emancipazione nazionale dell’Irlanda non è per essa una questione di astratta giustizia o di sentimenti umanitari bensì la prima condizione per la loro stessa emancipazione sociale”.
Insomma, Marx individua un conflitto di fatto, un meccanismo di sfruttamento nella colonia che si rovescia in un meccanismo di contenimento dei salari e insieme in un meccanismo di deviazione della relativa rabbia nel centro imperiale. Li denuncia anche in relazione ai loro effetti sulla scala mondiale. Ma definisce come orizzonte strategico, dopo aver a lungo meditato, la lotta antimperialista per garantire l’autonomia e l’indipendenza effettiva alla colonia, in modo che non sia più spogliata ed utilizzata per la compressione e il disciplinamento della classe operaia inglese.
Una grande lezione di pensiero complesso, che non nega gli effetti ma guarda oltre di essi e punta alle radici dei problemi, e contemporaneamente di pensiero materialista. Non moralista.
Lo sguardo deve essere così largo e in qualche misura anche così freddo: bisogna mobilitare le risorse di solidarietà per difendere i percorsi di autonomia politica, ovvero di autonomizzazione dalle forme del capitale contemporaneo (in parte diverse da quelle dell’epoca di Marx, che pure scriveva sulla soglia di una fase di mondializzazione e finanziarizzazione ed al termine di una forma imperiale, ovvero entro l’avvio di una transizione) per evitare che uomini e risorse siano inserite in modo subalterno in esso. Bisogna anche unirsi, allearsi, ma riconoscendo il reale, e l’enorme fatica che bisogna fare in esso.
Come scrive Amin, l’agenda del nostro tempo (anche in relazione alla questione dell’immigrazione che è solo un tassello di quella generale) deve passare per la “decostruzione” di ciò che è stato costruito per essere adatto solo al modello di funzionamento neoliberale del capitale (tra queste alcune strutture dell’Unione Europea e alcune propaggini africane di questa, come anche l’ideologia ‘no border’ e le ‘libertà di circolazione’) e per la “disconnessione” dal sistema di competizione selvaggio della mondializzazione. Per farlo, ora come allora, bisogna porre la questione della “sovranità”.
La questione di chi è il sovrano.
Fonte:https://tempofertile.blogspot.com/2018/06/frammenti-circa-piccole-polemiche-sulle.html
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