L’Arco e il Muro: crollo di una rappresentazione del mondo
di LUCA RUSSI (FSI Arezzo)
Preambolo: ultimamente sono abbastanza impressionato dalla apparente difficoltà che sembra accomunare molte persone, soprattutto se appartenenti all’area della cosiddetta “sinistra”, ad interpretare quello che sta accadendo. A volte sembra quasi che con qualcuno non si parli più la stessa lingua, come se l’avessimo dimenticata.
Pochi momenti nella Storia sono così affascinanti come quello che segna il passaggio tra la Tarda Antichità e il Medioevo, un’era di profondi sconvolgimenti, politici, sociali e culturali che ha inizio a Roma: è lì che troviamo le avvisaglie che lasciano presagire la fine del vecchio mondo e la nascita di quello nuovo. Tra i segni di questo passaggio epocale, uno dei più celebrati è costituito forse dal famoso Arco di Costantino, fatto costruire nel 315 d.C. dai senatori romani per celebrare la vittoria di Costantino su Massenzio.
Il monumento si presenta in parte rivestito da alcuni bassorilievi che sono coevi (realizzati cioè appositamente per quest’opera in quel giro di anni), e che sono quelli del “nastro” orizzontale che lo attraversa a mezza altezza in cui si narrano le fasi della guerra civile (dalla partenza di Costantino da Milano fino al trionfo celebrato nel Foro Romano); ma poiché con esso viene inaugurata una pratica che avrà lunga fortuna nel Medioevo, e che consisteva nel riutilizzare parti “di spoglio” (vale a dire parti di reimpiego ricavate da altri monumenti più antichi), su di esso sono presenti per l’appunto anche dei pezzi che originariamente celebravano i trionfi di altri imperatori, quali Marco Aurelio, Adriano e Traiano.
Per questa ragione, dal momento che su di esso è possibile apprezzare pienamente la distanza enorme che intercorre tra due linguaggi artistici assolutamente diversi, la sua importanza presso gli storici dell’arte è enorme, e l’arco è stato sempre considerato paradigmatico di una sorta di ideale passaggio del testimone.
Infatti, i pezzi di recupero (più vecchi) si rifanno ad una concezione dell’arte ancora pienamente greco-romana, cioè appartenente al mondo antico, intesa come mimesi (dal greco μίμησις, imitazione), la quale si esprimeva con piena unità di tempo, spazio ed azione, permettendo allo spettatore di abbracciare con un solo sguardo l’intera scena; invece, quelli di epoca costantiniana (più recenti) sono ideati in base ad una maniera completamente diversa di strutturare e concepire lo spazio e le figure in esso contenute, le quali vengono schiacciate entro due piani paralleli, e ridotte a profili che si stagliano contro un fondale piatto, bidimensionale, andando a costituire delle sequenze ritmiche.
Non c’è più l’unità scenica precedente, ma i soggetti si ripetono sotto forma di schemi lineari, giustapponendosi in file sovrapposte, elemento questo che consente di assegnare ad ogni variazione ritmica – come quella costituita dalla figura dell’imperatore, di dimensioni maggiori rispetto alle altre – una valenza ed un risalto particolari. La ragione di questo cambiamento sta in una nuova interpretazione dell’arte, che potremmo definire trascendente.
Essa presuppone un atteggiamento assolutamente diverso nei confronti del soggetto da rappresentare; non più quello con cui l’arte classica esaltava la bellezza fisica, la vitalità, la libertà e perfino la sensualità del corpo umano, che veniva spesso rappresentato nudo, liberamente immerso in uno spazio, ma una rappresentazione già “bizantina”, caratterizzata da schematismo e rigidità, proprio perché il fine era ormai già divenuto un altro: quello di evocare ciò che era “oltre” quel che si presenta davanti ai nostri occhi. Alla base, una diversa concezione dell’uomo: non più soggetto attivo, libero ed autonomo, bensì rigidamente sottoposto a severe regole provenienti dall’alto.
Ci vorranno all’incirca mille anni perché artisti come Brunelleschi o Leon Battista Alberti tornino a codificare le regole geometrico-matematiche che sono alla base della cosiddetta “prospettiva centrale”, e che consentiranno di rappresentare nuovamente l’immagine ad imitazione de “lo ufizio dell’occhio”, secondo le parole di Leonardo da Vinci; e tutto ciò avverrà in seguito all’avvento dell’Umanesimo e del Rinascimento.
È difficile immaginare una cesura altrettanto forte, perché in realtà il cambiamento dei canoni artistici avviene in un certo senso sempre parallelamente a quello culturale e politico: se l’individuo non è più artefice del suo destino, vuol dire anche che non partecipa più attivamente alla vita delle istituzioni politiche e sociali, ma le subisce; non è più civis (cittadino), ma suddito. Dunque, lo Stato è divenuto autoritario, e in effetti le figure rigorosamente bidimensionali, allineate e ripetitive del fregio centrale del famoso Arco, potrebbero far pensare ad una società che – con un termine un po’ fuori contesto – potremmo definire quasi già in via di “massificazione”: una società, cioè, che incomincia a caratterizzarsi come fortemente gerarchizzata e in cui il potere politico assume le sembianze di un “Dio-Sovrano”.
Al di là delle convenzioni, infatti, quel che da studi più recenti appare certo è che l’Impero, già prima del 476 d. C., si presentava rispetto ai secoli precedenti molto meno romanizzato e sempre più caratterizzato da una impronta germanica, soprattutto nell’esercito. Dunque si può ben dire che il Medio Evo inizia in un periodo precedente, anche considerando che un cambiamento – perfino in senso politico-istituzionale – era già avvenuto prima ancora della sua caduta, con le riforme autoritarie di Diocleziano e Costantino.
Il passaggio culturale fu quindi in realtà meno brusco di quanto si ritenesse in passato: solo gradualmente, ad esempio, il latino fu sostituito dalle lingue romanze. Però, tutto considerato, all’esito finale di quel processo i contemporanei si trovarono di fronte ad un mondo che era ormai divenuto assolutamente “altro” rispetto a quello precedente: il gettito fiscale decadde fortemente, la società cittadina andò in crisi, crollarono le infrastrutture civili, vennero a mancare le condizioni di sicurezza per il commercio e la manifattura, alcune produzioni su larga scala come la ceramica scomparvero in intere aree dell’Occidente, e nonostante la cultura intellettuale dei nuovi regni inevitabilmente rimandasse (anche se lontanamente) alle tradizioni intellettuali dei popoli conquistati, in quell’area ormai impoverita e decentrata che era diventata l’Occidente, i monasteri che sorsero un po’ ovunque in Europa divennero non solo centri religiosi, ma anche luoghi di conservazione di una cultura che venne percepita come oramai irrimediabilmente consegnata al passato.
Insomma, arrivò il momento in cui ci si trovò di fronte ad un tipo di società del tutto nuovo, che si fondava su criteri decisamente diversi da quelli della vecchia società romana; una società sostanzialmente molto più “primitiva”, fondata prevalentemente su norme consuetudinarie, in cui molte delle competenze e delle “sapienze” antiche vennero sostanzialmente perdute. Tutto ciò fa pensare quasi ad un terremoto, ad una catastrofe, ad una sorta di vera e propria perdita di identità collettiva.
Ed ecco che arrivo al dunque, perché l’immagine dell’Arco di Costantino, con tutto quel che significa in termini di pura suggestione, mi sembra in un certo senso più che mai evocativa, e perciò utile a gettar luce su un altro passaggio caratterizzato da una forte rottura con il passato, avvenuto molto più recentemente e i cui effetti si stanno dispiegando qui, oggi, nella “Roma del XXI secolo” (cioè in Occidente): mi riferisco al crollo del cosiddetto Muro, quello di Berlino.
Naturalmente qualcuno potrà pensare che il paragone non stia né in cielo né in terra, e che, tanto per incominciare, nel secondo caso non si sia verificata nessuna invasione di guerrieri barbari, nessuna devastazione, nessuna guerra o saccheggio. Sbagliato, perché io a questo punto inviterei quel qualcuno a riflettere sul fatto che, senza la caduta del Muro, con estrema probabilità non ci sarebbe stata neppure nessuna guerra in Iugoslavia, o in Iraq; o anche in Ucraina, tanto per fare un esempio più recente. E comunque, di lì a poco (nel 1991) sarebbe caduta anche la capitale dell'”Impero d’ Oriente”, con tanto di classico saccheggio che però avvenne negli anni successivi, dal momento che il principale bottino della più grande rapina della storia, a Mosca come a Berlino e nel resto del Vecchio Continente, fu costituito dall’enorme affare delle privatizzazioni dei settori strategici di intere nazioni.
In realtà, quindi, anche in questo caso stiamo parlando di un avvenimento così traumatico e di una frattura talmente radicale nelle coscienze che ci fu persino chi, del tutto sconsideratamente, si spinse a parlare di “fine della Storia”, e lo shock che ne scaturì ebbe conseguenze tali che si può ben dire che schiere di politici, di “intellettuali” e di semplici cittadini vennero letteralmente private per intere generazioni della “sapienza” dell’età precedente, ovvero degli strumenti analitici con cui fino a quel momento erano state capaci di leggere quel che avveniva sotto i loro occhi.
Il “Nuovo Medioevo” dell’Occidente, da un punto di vista geografico, inizia questa volta a parti invertite per uno scherzo della Storia, cioè a Berlino anziché a Roma; ma in un certo senso sarà sempre il “pensiero mediterraneo” (per parafrasare una definizione di Albert Camus che venne poi ripresa e sviluppata in tempi molto più recenti dal sociologo italiano Franco Cassano) a cedere il passo a quello nordico, teutonico, “calvinista”. Mi spiego meglio, proprio con le parole di Cassano: la caduta del muro di Berlino “segna la caduta del valore di uguaglianza a favore di quello della libertà, che tende all’esaltazione del libero mercato e al ridimensionamento del welfare” .
Fin qui, nulla di sorprendente. Anche De Benoist parla de “l’affermarsi del monoteismo del libero mercato come Dio unico che dispensa una unica Verità, [e che]è un portato della disintegrazione del sistema sovietico”. Ma Cassano va oltre: per declinare il suo pensiero, con il quale manifesta la convinzione che “il welfare è stata una invenzione in cui libertà ed uguaglianza hanno convissuto per decenni”, si spinge ad immaginare un’ Europa più “umana” (e per la verità forse anche un po’ utopica) che ”smetta di gravitare intorno all’Ovest ed instauri un nuovo rapporto con il Sud”,in cui ”il Mediterraneo è luogo d’incontro fra un tempo non ancora colonizzato dall’economia e un’idea antica di convivenza e socialità”.
Naturalmente nello scrivere ciò, non diversamente da molti altri, non si accorge di cadere nel solito tranello di tutti coloro che si ostinano a pensare che si debba concedere all’”Europa” un’altra chance, non rendendosi conto che in questo modo sarà lui stesso a negarla a quel “Sud” che vorrebbe emancipare dalla sua endemica arretratezza, ma tant’è: noi nel nostro piccolo sappiamo invece oramai molto bene che per ridefinire i modelli economici e politici dominanti è indispensabile fare tutt’altro tipo di operazione: occorrerà cioè abbandonare ogni illusione che vagheggi – sia pure in maniera suggestiva – approcci diversi di natura filosofica o etica, per riappropriarci di quella “antica sapienza” a cui si accennava più su, ovverosia degli strumenti della analisi politica vera e propria senza i quali non siamo manifestamente più in grado di interpretare la realtà, e che sono invece i soli che consentono di elaborare una vera alternativa allo status quo e di reagire alla “barbarie” in atto.
Se poi passiamo dai lavori di intellettuali di “sinistra” politicamente impegnati come Cassano ad un livello “più basso”, o per così dire più “popolare”, quello delle analisi “controcorrente” di più o meno famosi “blogger” che da diversi anni vanno per la maggiore sulla Rete, cambia l’approccio ma non la sostanza: mancando le categorie interpretative con le quali analizzare la situazione politica rimaste sotto alle macerie del Muro, è tutto un fiorire di tesi strampalate che chiamano in causa fantomatici complotti, invisibili mandanti, poteri occulti della finanza, eccetera eccetera; il fatto poi che i think tank non governativi o i gruppi come la Trilateral Commission o il Bilderberg esistano davvero, non aiuta affatto a discernere la realtà dalla fantasia.
Nel migliore dei casi, un economicismo fintamente erudito ma in realtà di seconda mano porta a conferire alla sovranità monetaria (che è solo uno dei poteri di uno Stato, seppure basilare) più importanza di quanto non sarebbe giusto assegnarle, ponendo in secondo piano la Politica vera e propria e finendo per sottovalutare gli altri elementi che concorrono a determinare una autentica e piena sovranità nazionale, sola ed unica conditio sine qua non per il libero dispiegarsi di una vera democrazia, che non può non essere caratterizzata dal perseguimento di obbiettivi di piena giustizia sociale se si vuole che l’ uguaglianza di tutti cittadini di fronte alla legge di cui parlano tutte le Costituzioni del mondo sia davvero autentica, cioè sostanziale.
Davvero ci si trova ad essere sopraffatti da rabbia e profondo sconforto nel vedere che non ci sia più da parte di nessuno la capacità di comprendere alcunché; pochissimi sembrano capire che il problema vero non è costituito solo ed esclusivamente dall'”errore tecnico” dell’Euro (che in fondo esiste da relativamente poco tempo), ma da un intero “sistema”, ovvero da un modello economico e sociale di cui l’Euro – in quanto valuta forte di riferimento sui mercati internazionali – è solo la punta dell’ iceberg.
Questo “sistema” si è (nuovamente) cristallizzato attorno a idee e princìpi che erano nati nella seconda metà dell’ Ottocento, e lo avevamo già sconfitto soppiantandolo con le socialdemocrazie sorte qui in Occidente dopo la tragedia delle due guerre mondiali. È rinato dalle sue ceneri al principio degli Anni Ottanta grazie all’azione di politici come Ronald Reagan e Margareth Thatcher, sulla scorta delle teorie di economisti come quelli della scuola di Chicago; ha risalito piano piano la china, ed è infine tornato a dominare la scena mondiale proprio in seguito al crollo del Muro nell’Ottantanove.
Se non si ha presente tutto questo, l’accanimento con cui qui da noi il mainstream (oramai del tutto organico alle élites dei tecno-burocrati di Bruxelles) difende l’adozione dell’Euro “senza se e senza ma”, cioè in maniera apparentemente irrazionale rispetto ai costi sociali da essa determinati, diventa davvero incomprensibile. Intere categorie di cittadini sono state gettate nella miseria e sono diventate preda della paura e del risentimento verso tutto e tutti. Gli avvenimenti recenti, che hanno portato milioni di persone ad esprimersi contro questo “Nuovo Ordine Mondiale” caratterizzato dal rinnovato strapotere di questa ideologia che nuova non lo è affatto (quel liberalismo che già 100 anni fa aveva determinato un’altra gravissima crisi economica, quella del ’29), dimostrano in maniera sin troppo evidente che la Madre di tutti i problemi è il drammatico vuoto di rappresentanza politica, in Italia e non solo.
Come interpretare altrimenti risultati apparentemente contraddittori fra loro (che rispetto a problemi simili sembrerebbero avere esiti assolutamente diversi avendo come unico comun denominatore solo la sorpresa dei cosiddetti commentatori che non li avevano assolutamente previsti) quali la vittoria del NO in Grecia al referendum-farsa “contro l’austerità” di Tsipras & Varoufakis, quella di Trump negli Usa, la Brexit in Gran Bretagna, e il poderoso uno-due assestato al PD in Italia, costituito dalla doppia sconfitta del referendum costituzionale del Dicembre 2016 e delle ultime politiche, che il 4 Marzo scorso hanno consegnato il governo alle forze “euro-scettiche” e populiste – prima ancora che “sovraniste”! – della Lega e del M5S?
Le risposte a tutto ciò non possono che nascere assieme ad una nuova classe dirigente, che torni ad essere selezionata da partiti autenticamente popolari che sappiano ricorrere nuovamente, nell’analisi e nella prassi, agli strumenti della Politica “pre-crollo del Muro”. Il nodo è quindi quello di una rinnovata rappresentanza politica, che sappia andare oltre le oramai esauste categorie “destra/sinistra” (non più adeguate a rappresentare alcunché, visto che non hanno consentito di comprendere più in base a quali idee e a quali modelli di società siano state praticate da una parte e dall’altra le politiche degli ultimi venti o trent’anni), e questa dovrà ridefinirsi su basi più chiare possibili, sulla scorta della consapevolezza del vero scontro in atto: quello che oppone nuovamente la globalizzazione neo-liberista alla forza degli Stati nazionali, i quali dovranno tornare a praticare politiche autenticamente socialiste e patriottiche, e quindi realmente “sovraniste“.
Queste politiche, però, allo stato attuale, devono essere proposte ai cittadini su un piano immediatamente comprensibile ed estremamente concreto, perché il pericolo maggiore che si pone per chi già oggi intende definirsi sovranista distinguendosi dalle destre nazionaliste e identitarie, è quello di apparire come uno che fa solo vuota retorica; che enuncia cioè princìpi e idee senz’altro nobili ma che risultano però estremamente ed irrimediabilmente lontane dai problemi concreti e pressanti delle classi popolari. Insomma, il rischio è che alla fine qualcuno possa essere indotto a pensare che si tratti solo di belle parole, per lo più sciorinate con l’aria di chi voglia mettersi in cattedra, dando lezioni al popolino ignorante.
Ne consegue che i temi dell’unità nazionale e della sovranità popolare non dovranno mai andare disgiunti dalle questioni sociali vere e proprie, quelle più pressanti: il lavoro, i diritti collettivi, lo stato sociale, ma anche lo stesso delicatissimo tema di un certo grado di protezionismo così come quello ad esso connesso della sacralità dei confini e della necessità di tornare a porre seri vincoli alla libera circolazione di capitali, merci, servizi e persone. Tutti questi temi dovranno essere esplicitamente ricollegati ai primi, non perdendo mai di vista quello che qui in Italia deve tornare a costituire il modello per eccellenza, quello che era stato disegnato dai Padri costituenti, la Costituzione del ’48: in poche parole, un modello politico, sociale ed economico fondato su un rinnovato dirigismo di Stato.
Se non riusciremo a fare questo tipo di operazione avremo perso in partenza, perché le parole d’ordine dell’unità e dell’indipendenza nazionale, da sole, si prestano ad essere egregiamente strumentalizzate dai moderati, che storicamente l’hanno saputo fare sempre molto bene.
Ed ecco che una figura che a buon diritto può essere annoverata tra gli “antichi sapienti”, in forza del pensiero dei quali potremo lasciarci nuovamente alle spalle questi tempi bui, ci viene in aiuto. Gramsci coglie da par suo questo aspetto della necessità di guadagnarsi l’attenzione dei ceti popolari su questi temi, nelle pagine dei Quaderni in cui tratta del Risorgimento. Egli non può fare a meno di notare che in questo senso il primo Partito d’Azione di Mazzini fallì, non riuscendo a diventare mai abbastanza “giacobino”, intendendo con questo termine richiamare l’attenzione non tanto sulla necessità di porsi genericamente in modo “energico” e risoluto, quanto sulla reale capacità di intercettare le esigenze e i bisogni delle classi più deboli, collegandole alla questione dell’indipendenza nazionale.
A differenza di quanto avvenne in Francia quasi un secolo prima, cioè, Mazzini non riuscì ad imporsi sulla borghesia nazionale del suo tempo portandola su posizioni molto più avanzate di quelle che essa stessa avrebbe voluto, e finì per consegnare l’obiettivo dell’unità politico-territoriale del Paese ai “Piemontesi” e a Cavour. I moderati che facevano capo al famoso uomo politico torinese, infatti, seppero utilizzare per i loro scopi il Partito d’Azione proprio in forza del fatto che quest’ultimo non era stato capace di dotarsi di un programma politico vero e proprio sufficientemente radicale ed avanzato, in grado di coniugare le aspirazioni dei contadini – soprattutto nel Sud – con la capacità di legare a sé gli intellettuali, i quali normalmente vengono attratti dalle classi alte dominanti in maniera del tutto naturale, diventandone inevitabilmente organici anche quando per estrazione sociale non ne fanno parte. Insomma, l’egemonia «ci può e ci deve essere […] anche prima della andata al Governo, e non bisogna contare solo sul potere e sulla forza materiale che esso dà per esercitare la direzione o la forza politica».
E sempre con le sue parole: «Perché il P.d’A. […] riuscisse a imprimere al moto del Risorgimento un carattere più marcatamente popolare e democratico […] avrebbe dovuto contrapporre all’azione “empirica” dei moderati (che era empirica solo per modo di dire) un programma organico di governo che abbracciasse le rivendicazioni essenziali delle masse popolari, in primo luogo dei contadini. […] I giacobini [invece] lottarono strenuamente per assicurare il legame tra città e campagna», e furono sconfitti solo quando incontrarono i loro limiti “di classe”, rifiutandosi di venire incontro alle rivendicazioni degli operai, di cui dovettero soffocare le velleità. La lezione da trarre è che questione sociale e questione nazionale dovranno saldarsi indissolubilmente l’una all’altra; dovranno diventare un tutt’uno.
Possiamo per questo paragonare i Quaderni a quei preziosi testi antichi che vennero conservati nelle biblioteche e negli «scriptoria» dei monaci benedettini che li tramandarono alle generazioni future, essendo anch’essi di importanza cruciale per la civiltà del nuovo Rinascimento che contribuiranno a creare?
Per approfondire:
1) Luciano Attizzati, sintesi di storia dell’ arte medievale, Storico.org
2) http://www.marcelloveneziani.com/il-giornalista/trapassato-presente/i-sensi-del-mare/
4) A. Gramsci, Quaderni del carcere, Quaderno I, § 44.
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