Sebbene Steve Bannon stia muovendo i passi in Europa, la sua visione del mondo rimane profondamente americana. Nella forma quanto nei contenuti. Lo stile è quello del motivatore (vestiario casual, eloquenza da mental coach, linguaggio smart), l’ideologia proposta invece si avvicina ad un disegno proiettato nel futuro, fedele alla tradizione millenarista statunitense, più che ad un discorso radicato nella storia. Ed è forse quest’ultimo l’aspetto decisivo per comprendere, in un quadro ampio di meccaniche globali, al di là del business politico legato alla nuova piattaforma The Movementla missione dell’ex chief strategist di Donald Trump nel Vecchio Continente.

Di passaggio a Roma sono stato uno tra i primi giornalisti italiani ricevuti nella terrazza della sua stanza d’albergo per un’intervista. Bannon è seduto, circondato dai suoi collaboratori, estremamente cordiale come mi avevano anticipato alcuni colleghi che lo avevano già visto in privato. Tanto che prima di intervistarlo sarà lui a farmi tutta una serie di domande, probabilmente sorpreso dalla mia giovane età, sui miei studi, il mio lavoro, la mia opinione su determinati argomenti legati ai miei viaggi in Medio Oriente.

Siamo di fronte ad un personaggio intrigante, pragmatico, che ama ascoltarsi e ascoltare il suo interlocutore. Nulla appare definitivo nel suo sistema di convinzioni anche se la visione del mondo non lascia intendere molti dubbi. Almeno per ora. Prende immediatamente un foglietto e una penna per disegnare tre poli collegati fra loro. Poi scrive i loro nomi: Cina, Iran, Turchia. “Vedi questa triangolazione? Dobbiamo difenderci in tutti i modi, insieme ai nostri alleati”.

Un gesto che vale un’intera intervista. Quella di Bannon è una sorta di rivisitazione del clash of civilisation (scontro di civiltà con il mondo islamico) teorizzato da Samuel Huntington mescolato ad un riadattamento della dottrina Brzezinski (costruzione di una “Green Belt” per circondare l’Unione Sovietica). Per mettere in pratica questo disegno sembra ci sia prima di tutto la necessità di riportare la Russia di Putin nel blocco occidentale affinché spezzi i suoi legami con i tre Paesi menzionati sopra, e sostenere Paesi favorevoli al loro contenimento come Israele, Arabia Saudita, Egitto, Afghanistan e Pakistan (da qui il forte e curioso interesse che nutre verso il nuovo presidente Imran Khan, figura carismatica ed estremamente interessante).

L’intera partita geopolitica si gioca ancora una volta in Asia Centrale, nelle terre straordinarie del re del mondo, dove anche l’Europa, in particolare quella mediterranea,vero e proprio terminale della Via della Seta, deve fare la sua parte in una prospettiva americano-centrica. Per farlo occorre depotenziare l’Unione Europea (dunque anche la Germania) e qualsiasi sua velleità d’indipendenza economica. Da qui il forte interessamento di Steve Bannon per tutti quei partiti populisti e anti-establishment che vogliono rovesciare lo status quo dopo decenni trascorsi ai margini della politica continentale. Sedurli non significa soltanto garantire una piattaforma di supporto bensì offrire loro una narrazione con dei simboli, dei miti, delle icone, insieme ad una prospettiva apocalittica intrisa di millenarismo. “Roma, Atene, Gerusalemme”, tre città evocative nella cultura europea vengono associate costantemente alla “civiltà giudaico cristiana dell’Occidente” e tirate fuori da Steve Bannon dagli scaffali della storia antica per essere rilette in chiave post-moderna e usate come il marchio di un patrimonio plurisecolare da difendere ad ogni costo di fronte ad due nemici: il “partito di Davos”, l’élite progressista che è stata sconfitta dal “popolo”, e la “grande Eurasia”, che viene appunto identificata con Turchia, Iran e Cina (senza la Russia).

Contro il primo si è costruito l’asse anglo-americano che ha portato prima alla Brexit e poi all’elezione di Donald Trump alla Casa Bianca fino a consolidarsi anche in Europa trovando terreno fertile, contro ogni pronostico, in ItaliaLa formazione del governo giallo-verde del resto non sarebbe stata possibile se non ci fosse stato in qualche modo il “via libera” d’Oltreoceano. Non a caso è dalla nostra penisola che è partito il tour di Steve Bannon che ora vuole federare più partiti politici in vista delle elezioni europee del 2019. Tuttavia “federare” significa allo stesso tempo “addomesticare” un sentimento plebiscitario continentale diffuso, qual è il voto legittimo dei popoli contro le élites, al punto da trasformarlo in un neoconservatorismo americano alimentato dalla cultura del clash e distante dagli interessi di cooperazione economica, diplomatica e politica con quella stessa “grande Eurasia” che gli Usa vogliono sconfiggere.

La verità è che non c’è più nessuno scontro tra “élite e popolo” bensì stiamo dentro alla “circolazione delle élites” teorizzata da Vilfredo Pareto che vede la sostituzione di uno spirito del tempo dettato dai principi della open society con una magma informe di idee, persone, storie politiche che reagisce spontaneamente ad un flusso di coscienza e di esistenza senza la consapevolezza di capire verso quale direzione stia andando. I salti nel vuoto sono necessari, ma è ancora più importante saper cadere per farsi meno male possibile. Nel futuro saranno due gli aghi della bilancia di questo nuovo disordine mondiale: sul piano globale della geopolitica Vladimir Putin dovrà scegliere se fare pace con l’Occidente o consolidare il suo posizionamento in Oriente, mentre su quello nazionale, il Movimento 5 Stelle non dovrà farsi inglobare al governo da una possibile deriva neocon della Lega, per garantire all’Italia la sua continuità storica, culturale e geografica.