Sul sovranismo democratico
di LE PAROLE E LE COSE (Paolo Costa)
Sovranisti e Macroniani
Osservato dal punto di vista di un filosofo della politica formatosi a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta del Novecento – anni dominati dal dibattito tra liberali e comunitari – il repentino cambio di tenore della discussione nella sinistra italiana causato dall’esito delle ultime elezioni politiche è un fenomeno allo stesso tempo sorprendente (per la sua velocità) e prevedibile (negli esiti). Per andare direttamente al punto, descriverei il nuovo scenario come dominato dalla polarizzazione tra sovranisti e macroniani (o macrosovranisti e micromacroniani, come mi piacerebbe chiamarli, se l’ironia non avesse effetti nefasti sulla qualità del ragionamento, soprattutto oggi, nell’epoca del sadismo blasé incentivato dai social network). Parlando in generale, i sovranisti sono accomunati da un’insofferenza spiccata verso la rappresentazione liberale della relazione tra i diritti come fonte di empowerment individuale e l’anonimo potere coercitivo dello Stato e del Mercato – una rappresentazione che considerano allo stesso tempo sbagliata, moralista e ipocrita – mentre i macroniani vivono tale ostilità verso la teoria e la pratica di un ordinamento sociale imperniato su procedure rigorose e innovazione dall’alto come il prodotto di una critica unilaterale, preconcetta e ingenerosa e, nelle sue punte estreme, come un rigurgito di barbarie che ha reso inopinatamente verosimile la prospettiva di una catastrofe politica ed economica anche in Europa.
Per molti aspetti, il nuovo dualismo ideologico rispecchia quello tra il costruttivismo liberale e il realismo comunitario, ma l’umore che domina la conversazione attuale è molto diverso da quello passato. In che senso? La prima differenza – la più macroscopica – è l’inversione dell’onere della prova. Mentre trent’anni fa gli esponenti della koiné liberale godevano di un vantaggio di posizione che faceva apparire tutti i loro avversari, a dispetto delle differenze, come dei neotradizionalisti, oggi il senso comune liberale è sulla difensiva. Che cosa ha minato alle radici un’egemonia che a un certo punto era apparsa inattaccabile? Per quel che vale, quella che seguirà è la mia interpretazione, pennellata a tinte grosse, del significato storico di questa inversione del campo di influenza intellettuale a cui aggiungerò alla fine qualche riflessione sui buoni motivi per resistere alla svolta sovranista nel nome di una visione della democrazia non meno critica nei confronti dell’eredità (im)politica del liberalismo.
La parabola storica del liberalismo
Fin dalle origini il liberalismo è stato non solo una teoria del governo imperniata sulla salvaguardia delle libertà individuali, ma soprattutto una filosofia della civilité. Parlando di «filosofia della civiltà» mi riferisco essenzialmente all’invenzione e diffusione di un ideale di soggettività potenziata a cui corrispondono, dal lato della teoria, il primato sistematico dell’individuo sulla comunità di appartenenza, una visione procedurale della ragione e una concezione non paternalistica (e, in ultima istanza, non dialettica) del rapporto tra desideri e conoscenza. In un’ottica liberale, detto altrimenti, una concezione esile e volontarista dell’identità personale è la condizione per l’insediamento dell’idea di autoaffermazione come principio di legittimazione dell’ordine sociale e, tacitamente, anche come segnaposto dell’unica destinazione immaginabile del genere umano: la libertà dalle interferenze esterne in un piano di vita scelto dall’individuo in piena autonomia.
Nel liberalismo delle origini, fatte le debite eccezioni (Hobbes e Mandeville, su tutti) il potenziamento della soggettività mantiene una patina di nobiltà perché la libertà autentica dell’individuo si realizza non come capriccio, ma come progetto ragionevole. Si manifesta cioè nella forma seducente di un’autodisciplina spontanea, quasi che esistesse un’armonia prestabilita tra il desiderio umano e la razionalità strumentale, tra il soggetto desiderante e l’individuo deliberante, tra gli impulsi e i mezzi più idonei per il loro soddisfacimento. Le nuove discipline del corpo (per esempio le buone maniere studiate da Norbert Elias) costituiscono infatti una forma di soggettivazione il cui orizzonte ideale è il riconoscimento istintivo del proprio interesse più autentico e una forma di cooperazione basata non sull’altruismo, ma su una forma di egoismo socialmente non distruttivo.
È questa armonia prestabilita che è andata via via erodendosi a mano a mano che la società cooperante dei produttori e lavoratori si è trasformata per gradi in una comunità di consumatori e imprenditori del sé sempre più in balia di forze impersonali deresponsabilizzate sia dal lato del soggetto (vittima di un dedalo di desideri sempre più compulsivi) sia dal lato del mondo (la gabbia di acciaio di cui parlava Max Weber). In un caso da manuale di eterogenesi dei fini, l’effetto generale è stato un indebolimento crescente della soggettività, anziché un suo potenziamento.
È importante notare en passant come questa diminuzione del senso di padronanza del proprio destino è proceduta parallelamente a due processi all’apparenza indipendenti: (1) la progressiva spoliticizzazione delle società affluenti e (2) il declino del potere di attrazione dei moventi ideali, di cui la crisi delle utopie politiche è soltanto il sintomo più eclatante. Osservati dal punto di vista degli individui, questi processi storici complessi ed enigmatici sembrano avere cause sia esogene sia endogene. Tra le cause esterne un ruolo di primo piano spetta evidentemente alle trasformazioni economiche che hanno condotto alla globalizzazione del capitalismo e del suo modello di stabilizzazione dinamica basata su una forma apparentemente inarrestabile di distruzione creatrice. Tra le seconde spiccano, da un lato, la diffusione di una concezione strumentale della politica e di una visione aggregativa dei beni comuni e, dall’altro, la perdita di radicamento nell’esperienza dell’idea che il destino personale dipenda in modo significativo anche dalla capacità di trascendere se stessi mediante l’accesso a un dominio immateriale di contenuti ideali (verità oggettive, norme intersoggettive, beni architettonici, valori intrinseci, ecc.). Con l’assottigliamento di questi contrappesi la soggettività moderna si è come dissolta nell’aria lasciando dietro di sé il suo simulacro nella forma di un bizzarro edonismo stoico che, memore della lezione del barone di Münchausen, spinge i suoi adepti a scommettere sulla propria autorealizzazione anche in un universo saturo di contingenza e caratterizzato da una moltiplicazione esponenziale e disordinata delle opzioni di scelta.
Democrazia e sovranità
È da questa crisi del liberalismo in quanto senso comune della civiltà occidentale moderna che trae gran parte della sua forza persuasiva il realismo politico sovranista ed è sempre essa, di converso, a spingere i macroniani a insistere ancora di più sulla forza civilizzatrice della forma di vita liberale, vissuta ora ansiosamente come ultimo baluardo contro la barbarie. Questa polarizzazione, a sua volta, accentua l’impressione di trovarsi di fronte a un conflitto tra l’élite (composta da coloro che non hanno grosse difficoltà a superare lo scoglio della socializzazione alla civilité) e il popolo (identificato con quanti invece faticano ad adeguarsi con successo al nuovo modello di personalità e sociabilità). È da tale tensione che scaturisce, infine, quel fenomeno politico registrato dalla maggioranza degli osservatori contemporanei e descritto in genere come la disponibilità di una porzione crescente dei cittadini delle democrazie occidentali a rinunciare a una quota significativa di una libertà che viene percepita come disabilitante – «negativa» in senso assiologico – in cambio di una condizione che viene immaginata invece come più sicura o, se vogliamo, di maggiore sovranità.
Il cambiamento appena analizzato concerne quindi il senso generale di una perdita di controllo sul proprio destino che i sovranisti hanno oggi buon gioco a sfruttare proponendo una radicale ripoliticizzazione delle questioni fondamentali dell’esistenza. Nel loro orizzonte, in effetti, il concetto di sovranità funziona retoricamente come un surrogato del senso di empowerment che deriva dalla certezza tacita di poter influire sul proprio destino. A quella che le persone percepiscono come una perdita di sovranità personale i sovranisti rispondono astutamente proponendo un recupero di sovranità politica che, significativamente, situano al livello intermedio dello stato-nazione: la più tipica delle invenzioni politiche moderne.
Già questo dovrebbe però far suonare un campanello d’allarme nelle teste di coloro che non sono insensibili al fascino di un appello alla politicizzazione del disagio esistenziale contemporaneo (e chi scrive appartiene a questo gruppo di persone). La scelta dello stato nazionale come comunità di destino, infatti, non solo non è teoricamente innocente, ma è anche il sintomo di un punto cieco nel discorso sovranista, che ha una rilevanza speciale soprattutto per chi si pone l’obiettivo di declinare tale discorso in un’ottica socialista.
Provo a spiegarmi meglio. Il primo nodo riguarda, per così dire, la diagnosi del tempo. Se il sovranista è infatti uno che sostiene che la soluzione alla crisi del liberalismo risiede in un sostanziale recupero di sovranità da parte degli stati nazionali, la sua preferenza per una comunità che è non meno immaginata delle comunità cosmopolitiche a cui orienta idealmente le proprie scelte il cittadino liberale, è tutt’altro che ovvia. Anzi, proprio questo deficit di giustificazione porta alla luce un dato di realtà troppo spesso trascurato dai critici della globalizzazione: il fatto, cioè, che, retorica della globalizzazione a parte, gli stati non hanno mai smesso di essere i principali attori sulla scena politica internazionale. Sono solo gli stati deboli che hanno perso la capacità di esercitare un controllo reale sul proprio destino. Ma questa non è una novità nella storia umana. Forse una volta la causa principale della perdita di sovranità era la debolezza militare e oggi è la fragilità economica, ma il risultato finale non cambia. Da questo punto di vista, non è un caso che, preso atto della tendenza geopolitica a premiare entità statuali di dimensioni «imperiali» dopo la fine della Seconda guerra mondiale, il fallimento del progetto di unità europea si spieghi meglio con l’incapacità dell’UE di trasformarsi in uno stato sovrano a tutti gli effetti e di entrare in una competizione paritaria con le altre grandi potenze mondiali, che non incolpando un fantomatico progetto globalista. Riletta in quest’ottica, l’insistenza sulla perdita di sovranità finisce così per rivelarsi per quello che è: una petizione di principio. Si riduce, cioè, a un appello accorato a completare o emendare il processo di costruzione di una forma moderna di statualità – compito storico per il quale, notoriamente, non esistono ricette funzionanti.
Il deficit argomentativo del discorso sovranista non si limita, però, alla diagnosi del tempo. Un secondo punto debole è la sottovalutazione della questione politica per eccellenza in età moderna: il problema, cioè, dell’autogoverno democratico. Identificare democrazia e sovranità popolare non è sufficiente infatti per rendere conto del primato della forma di governo democratica in materia di affermazione dei principi di libertà e giustizia. Per certi aspetti, lo si potrebbe persino descrivere come un errore concettuale. Si può infatti ragionevolmente sostenere che, da un punto di vista ideale, il fine della forma di governo democratica non è tanto implementare un’entità misteriosa come la rousseauiana volonté générale, quanto piuttosto svuotare dall’interno l’idea moderna di sovranità, con cui l’ideale dell’autogoverno ha soltanto un legame contingente. L’esercizio dell’autogoverno presuppone infatti l’esistenza di uno stato sovrano robusto solo perché non c’è altro modo di salvaguardare la propria integrità territoriale di fronte ad altri stati che privilegiano la sovranità all’autogoverno (cioè all’ideale repubblicano del non-dominio). Su questa intuizione, d’altro canto, poggiava la singolare miscela kantiana di repubblicanesimo, cosmopolitismo e federalismo.
Compresi in quest’ottica, gli appelli al rafforzamento identitario del demos non si giustificano da sé, quasi che fossero un requisito funzionale dell’autogoverno democratico. Lo sarebbero, se la democrazia coincidesse con l’espressione della volontà popolare. Ma non è così. La vera sfida delle democrazie contemporanee sta piuttosto nell’escogitare contesti di azione comune e spazi di identità collettiva sufficientemente inclusivi da rendere il pluralismo una risorsa politica anziché un fattore di destabilizzazione nella prospettiva dell’estensione degli ambiti di autogoverno. Idealmente, dal punto di vista democratico, una comunità politica funzionante non è esemplificata da uno stato che esercita pienamente la propria sovranità, ma da un popolo che prende forma intorno a una sfera pubblica che opera come teatro della pluralità dei punti di vista dei cittadini in condizioni di sicurezza, stabilità e solidarietà.
Una volta superato il dualismo, e il conseguente stallo, tra sovranisti e macroniani, sarà forse possibile ragionare insieme sulla vera grande questione a cui ci pone di fronte la crisi attuale del liberalismo e che, detto lapidariamente, consiste nella colossale spoliticizzazione della forma di vita occidentale e negli effetti imprevisti che questo fenomeno storico di lunga durata ha avuto sulla struttura della personalità degli attuali cittadini/consumatori/risparmiatori e, conseguentemente, sulla loro possibilità di riacquistare un senso affidabile di controllo sul proprio destino.
Fonte: http://www.leparoleelecose.it/?p=33808
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