La Globalizzazione come crisi continua
di TEMPO FERTILE (Alessandro Visalli)
‘Crisi’ è un sostantivo femminile che viene dal latino crisis, e dal greco κρίσις, e significa ‘decisione’, ‘scelta’, in economia indica una fase (in un ciclo) nella quale uno squilibrio fondamentale determina l’incapacità di utilizzare tutti i fattori idonei alla produzione di beni e di servizi che la società esprime. Keynes, in “Un’analisi economica della disoccupazione” [1] ha scritto che “un boom è generato da un eccesso di investimento rispetto al risparmio e una crisi da un eccesso di risparmio rispetto all’investimento”. Se è così è dai primi anni settanta che siamo in crisi; da allora l’insieme dei capitali distolti dall’investimento in beni produttivi, in favore di forme di impiego puramente finanziario è infatti sempre cresciuta. La finanziarizzazione è, del resto, il segno più palese ed evidente del nostro tempo, e lo è da decenni. Per i marxisti ortodossi la crisi è una conseguenza della caduta tendenziale del saggio di profitto, che prevale sui diversi fattori ed escamotage che possono essere messi in opera per alleviarla. Per i keynesiani è l’effetto di una carenza di domanda globale, a sua volta causata dalla ineguaglianza e dalla concentrazione dei redditi sulla parte alta della scala sociale [2].
Più in generale si può dire che, al di là del meccanismo scatenante particolare, l’instabilità del capitalismo, che determina le crisi, è causata dalla presenza di due mercati (merci e moneta)[3] e da una programmazione intrinseca orientata alla mera accumulazione di segni monetari[4].
‘Globalizzazione’, invece, è un termine invalso da alcuni anni a significare il fenomeno di riduzione delle regolazioni nazionali, incremento del commercio internazionale su un piano di maggiore parità, vorticoso movimento di capitali tra le principali città globali mondiali sede di ‘piazze finanziarie’.
La tesi che vorremmo sostenere è che il fenomeno esteriore della globalizzazione è solo l’effetto di una molteplice crisi che non trova soluzione. Questa crisi ha preso direttamente avvio dall’esaurimento della soluzione che alle tensioni scatenate dal capitalismo competitivo primo ottocentesco[5] era stata trovata nel dopoguerra, e da allora procede per trasformazioni continue che coinvolgono tutti gli assetti di potenza modificandosi continuamente[6].
Ci sono un gran numero di interpretazioni del termine e di ricostruzioni della meccanica degli eventi che l’ha scatenata di nuovo[7], dopo il parziale disciplinamento degli spiriti animali più distruttivi creato a Bretton Woods[8]. A partire da quel momento l’equilibrio di crescita all’ombra dell’egemone era proseguito, per una larga serie di fattori[9], per alcuni decenni nel quadro necessario della diarchia USA/Urss, fino a che, al punto culminante di una crisi egemonica dalle molte facce[10], Nixon riaprì il vaso di Pandora della finanza, sganciando la generazione di moneta dall’ancoraggio reale all’oro. Con questa mossa, anche senza avvedersene, confermò la legittimità di ciò che già accadeva da qualche anno con i cosiddetti ‘eurodollari’[11], la generazione di moneta attraverso aperture di credito incrociate dal nulla, la moneta ‘fiat’[12] che era sempre esistita, ma sempre controllata ed inibita dalla moneta legale dello stato. In questo momento l’enorme massa di denaro in movimento, amplificata dall’aumento del costo delle materie prime[13], fa saltare del tutto i fragili equilibri del mondo di prima, già sotto pressione insopportabile da parte delle pressioni dei lavoratori e delle lotte sociali del ventennio precedente[14]. La spinta a ridisciplinare i desideri di controllo del proprio destino e di partecipazione alla produzione di ricchezza delle classi subalterne, fattasi incompatibile con i profitti, avvia quindi una gigantesca stagione di deregolazione nella quale l’Europa (Inghilterra, Francia, poi Germania, e infine Italia) è in prima fila. Deregolazione della finanza, quindi del lavoro e infine delle merci. La deregolazione procede simmetricamente alla perdita di peso delle organizzazioni del lavoro e insieme al sorgere ed applicarsi di tecnologie che consentono organizzazioni a rete orizzontale, apparentemente meno gerarchiche e standardizzazioni su una scala che, insieme al movimento dei capitali, fa diventare possibile costruire reti logistiche lunghissime ma non per questo inefficienti. E’ la stagione degli investimenti diretti all’estero che spezzano le reni al potere dei sindacati e costringono il lavoro ad accettare una riduzione della ripartizione di base della ricchezza di oltre dieci punti[15].
Al termine di una lunga agonia interviene a questo punto il fattore cruciale di accelerazione: la dissoluzione pacifica dell’impero sovietico. La parte est viene assorbita in pochi convulsi mesi dall’Europa, ritornata improvvisamente ad egemonia tedesca (mentre i francesi, come loro solito, si illudono di dominarla), e tutti i movimenti socialisti occidentali ripiegano in disordine. Si forma l’Unione Europea[16] sotto questo segno, la ‘fine della storia’[17] ed il trionfo del modello anglosassone di capitalismo (anche se nelle stanze di dietro gli abili tedeschi inseriscono copiose dosi di Ordoliberalismo). Viene blindata in questo modo un’area di mercato competitivo nel quale non può trovare posto la redistribuzione e i meccanismi di compromesso sociale e politico del capitalismo latino[18].
Insomma, sotto il benevolo controllo americano, ed all’ombra delle numerosissime basi militari, sembra a molti che la storia complessa del novecento sia davvero finita e resti solo la promessa di arricchirsi da raccogliere però individuo per individuo, l’uno contro l’altro. Una società dei consumi, felice di competere nella quale il migliore potrà sempre trovare la propria strada. Una società che si incardina su un potentissimo e pervasivo dispositivo nascosto che fa leva su bisogni e desideri dei singoli, chiedendogli di pensarsi come potenza in atto non come produttori, e quindi collettivamente[19], ma come consumatori e capaci di piacere e desiderio individuale. Questapromessa di vita e di energia individuale produce un immaginario irresistibile che però ha un rovescio: il dominio e lo sfruttamento di coloro la quale potenza resta in attesa, spesso per sempre, e che devono essere sfruttati perché quella di pochi passi ‘in atto’. Dimenticando la linea di ombra[20], la società generata dalla competizione senza freni, fatta sistema, della mondializzazione neoliberale finisce quindi per costruire una narrazione avvincente, accompagnata dallo spettacolo multiforme della tecnica, che prevale sulle trascendenze alternative e concorrenti: sulla teologia politico-economica del marxismo, nelle sue diverse forme, e sulla teologia politico-sociale del cristianesimo.
Al passaggio di millennio, però, viene compiuto quel che la storia si incaricherà di indicare come un errore incomprensibile, una hyubris guidata dall’orientamento a corto termine che la finanza ed il sistema delle imprese giganti che ha preso il centro della scena ha connaturato: nell’Uruguay Round viene ammessa la Cina, con un trattamento di favore, e sono abbattute quasi tutte le barriere. Da allora tutte le produzioni a basso, e via via maggiore, valore aggiunto si spostano in oriente, i prezzi delle merci precipitano ma insieme e per lo stesso meccanismo, come due lati di una medaglia, lo fa anche il potere di acquisto delle classi basse e via via superiori.
Si apre un vuoto nel centro dell’occidente, al quale i paesi tradizionalmente volti all’esportazione (Germania e Giappone in primis) rispondono allargando ancora i loro squilibri commerciali che comunque erano usciti dall’equilibrio precedente già dalla caduta di Brandt[21]. In un lungo concatenamento di effetti e cause intrecciati come una catena di acciaio il vuoto si propaga, e rende necessario un sempre più affannoso inseguimento con nuove espansioni di valore fittizio fatte gocciolare a compensare l’incapacità di troppi di ottenere ciò che il sogno del consumo (che legittima l’esistente) promette[22]. Si arriva quindi alla parossistica coltivazione di ‘bolle’ l’ultima delle quali è quella immobiliare, e si arriva, con l’inesorabile meccanismo descritto da Minsky al crac del 2007[23].
Da allora seguono dieci anni di ristrutturazione e di tentativi continui di far continuare il business che si è rotto, scaricandone i costi su chiunque altro. Ma insieme, da allora, si comincia a vedere le forze relative della Cina e la ripresa della Russia promettere ormai che non potrà più riprendere il vecchio gioco di dominio solitario e quindi la globalizzazione ‘felice’ degli anni novanta [24].
Guardando dal punto di osservazione delle società occidentali, intorno a questi fenomeni che tendiamo a riassumere nel termine ‘globalizzazione’ ha in sostanza preso forma un nuovo compromesso sociale a rapporti di forza invertiti, rispetto a quello del “welfare state” novecentesco. Nel contesto di un’impostazione economica essenzialmente deflattiva, si è creata la condizione (di potere normativa e tecnologica) per un enorme allargamento della base produttiva, con il coinvolgimento di centinaia di milioni di nuovi lavoratori, che ha prodotto effetti molteplici sia sulla distribuzione sociale sia sui costi dei beni industriali e quindi sul consumo. A partire dagli anni settanta, e via via più velocemente, sono calati i prezzi relativi dei beni industriali di massa e questo, malgrado l’erosione del reddito della parte attiva della popolazione, ha creato a lungo sia una sensazione crescente di ricchezza diffusa sia il fenomeno sociale e culturale del “consumismo”. Dunque le condizioni per la creazione di un consenso su nuove basi: sul consumo anziché sul lavoro.
Ma questo continuo accelerare della instabilità, disperatamente tamponata, nello sforzo di sacrificare altri e conservare la propria potenza, con ricette opposte nei principali centri del capitale occidentale[25] si è presento sulla scena approfondendo ininterrottamente per dieci anni il vuoto nel quale l’occidente tra precipitando. Insieme alla spirale di perdita di capacità di acquisto, sovrapproduzione, tensione deflattiva, erosione dei margini di profittabilità, ricerca di soluzioni a breve termine comprimendo i costi, caduta della produttività, rinvio degli investimenti, e via dicendo, inizia però alla fine a venire meno il consenso sul quale il neoliberismo aveva vinto la sua battaglia contro le promesse di salvezza alternative: la crescita della felicità attraverso il consumo.
La globalizzazione è stata, insomma, un continuo inseguire la crisi per stare un passo avanti, ma ormai questa ci ha raggiunti.
Sarà necessario che la storia, che sembrava finita, riprenda il suo cammino e la soluzione tampone trovata per strada per rimediare all’esaurimento dell’equilibrio sociale keynesiano venga superata.
Ormai ha scavato tutta la terra che era accumulata sotto i propri piedi[26].
[1] – John Maynard Keynes, “Un’analisi economica della disoccupazione”, intervento alla Harris Foundation, 1931, in Come uscire dalla Crisi, Laterza,1983, p.44.
[2] – Il meccanismo di trascinamento è che le classi alte hanno una propensione al consumo inferiore. Dunque se la stessa somma è distribuita in alto, la quota risparmiata è maggiore e le somme tesaurizzate tendono a non circolare abbastanza. A sua volta, la riduzione dei consumi inibisce gli investimenti produttivi, per assenza di domanda dei beni da produrre, e quindi tende ad aumentare gli impieghi meramente speculativi.
[3] – Si veda Amato e Fantacci, “Fine della finanza”, Donzelli, 2009.
[4] – Anziché di ricchezza reale, qualunque cosa la società possa intendere con questo termine. In altre parole, il capitalismo è autoprogrammato per generare valore solo per chi è incluso nel suo circuito autoreferente. Il meccanismo di trasformazione della natura in ‘merce’, e del suo consumo attraverso il realizzo del suo ‘valore’, attraverso il quale si determina il ‘capitale’ è orientato non al consumo, ovvero alla creazione di ‘ricchezza’, ma all’accumulazione di altro ‘capitale’. Il ‘capitale’ è quella forma del valore che per esistere deve accrescersi costantemente senza altro scopo che la propria esistenza. Ciò genera un ‘sistema automatico’ che non è affatto dotato di volontà, e non è un macrosoggetto (essendo, anzi, il luogo della concorrenza), ma è portatore di una logica immanente. Bisogna prestare attenzione ad un elemento importante: non è affatto la finanza ad essere la parte ‘cattiva’ e l’industria quella ‘buona’, la crescita di questa, anche se ha andamento ‘tumorale’, è causata dalla carenza di sbocchi della prima. La congestione dei capitali da valorizzare nell’economia reale è il motore iniziale. E quindi la necessità intrinseca, direi definitoria, del capitale di valorizzarsi a qualsiasi costo, necessità che cammina sulle gambe di tutti gli operatori, in qualunque posizione siano nel sistema.
[5] – E che furono oggetto delle analisi di Marx e di Engels, mentre la soluzione lo fu delle analisi di Polanyi sul piano sociale Cfr. Karl Polanyi, “La grande trasformazione”, 1944.
[6] – Dunque la globalizzazione va vista anche come effetto e fenomeno connesso con la “grande partita” in corso per l’egemonia nel mondo, nella transizione tra logiche “territorialiste” e “capitaliste” (Arrighi).
[7] – La globalizzazione non è un fenomeno esclusivo del tardo ventesimo secolo, e non è neppure una irresistibile e tendenza della storia, che apprende la strada dell’armonia universale, è molto più un movimento ciclico determinato dal gioco del potere. Si tratta, come è avvenuto a scale diverse con i grandi imperi del passato proto-capitalista e in epoca moderna con la fase imperiale del dominio inglese (dopo la sconfitta di Napoleone via via consolidatosi nella sostanza entro il XIX secolo) dell’effetto e della forma che prende la capacità di un modo di produzione egemone, sostenuto dalla forza anche militare e comunque economica, di costringere ogni altro alla compatibilità. Momenti di predominio che, per loro natura, non possono durare in eterno, le condizioni che lo rendono possibile tramontano, e i sistemi alternativi, resi subalterni e costretti ad aprirsi, per questo, apprendono, alzando il livello del confronto.
[8] – Cfr, per una descrizione parziale dei problemi che dovettero essere affrontati nella Conferenza di Bretton Woods, condotta sotto stretto controllo americano e con l’agenda seminascosta di consolidarne il dominio morbido sul mondo che la guerra rendeva evidente, davanti alla necessità di ridisegnare gli assetti del mondo e garantire la rimozione delle cause della tragica doppia guerra civile europea (identificati negli squilibri di capitale e nelle guerre commerciali derivanti) si veda … Keynes
[9] – Il relativo dominio industriale e quindi commerciale degli USA, nel campo occidentale, e quello dell’Urss, nel relativo campo, determina le condizioni per un capitalismo a competizione temperata e sufficientemente minacciato dall’esempio sovietico da non poter forzare la mano alle forze sociali organizzate del lavoro. In un quadro di aspra conflittualità il capitale si trova inibito dalla sua principale fonte di forza, la mobilità (arrestata dagli accordi presi), e d’altra parte a partire dagli anni cinquanta si trova ad essere ancorato al dollaro, un dinamico squilibrio si istituisce tra la tendenza della competizione intercapitalistica, sia entro sia tra sistemi di regolazione intrecciati, ad erodere il saggio di profitto e le controforze determinate dal capitale pubblico, che fornisce beni sottratti alla logica di mercato, sia dalla intensificazione della produttività per via tecnologica e sociale, sia, infine, dalla espansione dei consumi e quindi dei mercati. Fino a che questo meccanismo resta in ascesa se ne giovano sia i lavoratori, che vedono crescere il proprio reddito disponibile e i beni pubblici disponibili (reddito indiretto) sia il capitale, che guadagna in estensione quel che perde in intensità dello sfruttamento. Si tratta, sotto molti profili di quel che Minsky (1975) chiama “keynesismo privatizzato” che coltiva gli elementi destabilizzanti nascosti in particolare nell’intrinseca instabilità della moneta finanziaria.
[10] – Con la necessaria sintesi, una crisi competitiva, dato che l’industria americana non aveva più lo schiacciante predominio che aveva determinato l’esito della crisi delle due guerre, ed era sfidata da potenze industriali emergenti di vario rango, tra le quali il Giappone, la Germania, la stessa Italia, e le prime “tigri asiatiche”. Ma anche una crisi militare (con i costi di protezione che esplodono ed i costi delle due guerre semiperse di Corea e Vietnam ad erodere anche il prestigio). Ciò che accade in quegli anni è che il progetto del dopoguerra, creare mercati per l’industria USA, facendo ripartire i consumi del mondo al contempo creando delle aree forti, ma subalterne, anche in prospettiva antisovietica, dei guardiani del faro, nella Germania e nel Giappone, incontra i suoi limiti. Il piano egemonico statunitense prevedeva, per restare in equilibrio, che l’eccedenza commerciale venisse reinvestita nelle aree captive (Europa e Giappone), facendo leva sui paesi d’ordine (Germania e Francia nel caso europeo). Mentre l’industria centroeuropea doveva trovare sbocco in particolare nell’aurea comunitaria, l’industria giapponese vede il sostegno direttamente del mercato americano e delle guerre d’area, come stimolo aggiuntivo. Ma la guerra del Vietnam finisce per costare quasi 300 miliardi di dollari complessivi, e crearono condizioni di inflazione che in cinque anni erosero di due punti il potere di acquisto degli americani e di diciassette i profitti medi delle imprese. Contemporaneamente la “grande società” di Lyndon Johnson presentò il suo conto e il governo federale dovette far lievitare enormemente il debito pubblico. Al 1971 le passività americane erano di 70 miliardi di dollari, a fronte di riserve d’oro di 12. Una enorme quantità di dollari inonda i mercati mondiali e genera pressioni inflazionistiche secondarie in Francia, Inghilterra e via dicendo. Ciò perché le regole del cambio fisso costringono i paesi europei, a loro volta, a fare espansione monetaria. In sostanza gli europei accusano gli Stati Uniti di esportare inflazione per finanziare il loro welfare (ai fini di garantirsi stabilità interna) e la guerra. L’ “esorbitante privilegio” di poter stampare dollari senza apparenti vincoli, mostrava il suo rovescio. Quando gli Stati Uniti passano da paese che esporta eccedenze, a paese che accumula deficit, quel vincolo comincia ad esportare instabilità. Allora, nel 1967 l’Inghilterra viola le regole e deflaziona la sterlina del 14%, costringendo gli USA ad impegnare il 20% delle riserve per mantenere il prezzo del dollaro rispetto all’oro (35 dollari per oncia), nel 1970 Paul Volcker, nominato sottosegretario al Tesoro, propone la soluzione di sospendere la convertibilità. Nel agosto 1970 la Francia e l’Inghilterra chiedono la conversione delle loro riserve in moneta ed il piano di Volcker, in risposta, scatta.
[11] – Vedi: https://tempofertile.blogspot.com/2017/07/massimo-amato-luca-fantacci-fine-della.html
[12] – Vedi: https://tempofertile.blogspot.com/2014/03/banca-di-inghilterra-la-creazione-della.html
[13] – L’enorme aumento del costo delle materia prime, che provoca una serie devastante di effetti a catena, facendo aumentare i costi di produzione, l’inflazione, è un effetto della rottura di Bretton Woods nelle condizioni di grave squilibrio nella quale avviene. L’oro passa da 35 a 455 dollari l’oncia nel 1979, il dollaro perde il 35% del valore rispetto al marco ed il 20% sullo Yen ed il franco, il petrolio, influenzato da un cartello difensivo dei produttori, passa da 3 $ al barile a 30, dopo la guerra del Kippur, e via dicendo (tutte le materie aumentano, bauxite, rame, ferro, argento, …). L’effetto complessivo è che il resto del mondo finisce per finanziare il deficit americano, redistribuendo per via finanziaria le eccedenze nel mercato americano. I flussi di capitale invertono la loro direzione. Ma è necessario, dal punto di vista americano anche contenere la competizione che l’industria estera fa a quella americana, e a tale fine l’incremento dei fattori produttivi (dato che gli USA hanno ingenti risorse di materie prime) sono una buona strada.
[14] – Vedi, ad esempio, https://tempofertile.blogspot.com/2017/05/le-lotte-operaie-alla-fiat-negli-anni.html
[15] – vedi, https://tempofertile.blogspot.com/2015/09/conflitti-distributivi-e-lavoro-passato.html
[16] – Per una lettura del dibattito di ratifica del Trattato di Maastricht, si veda.https://tempofertile.blogspot.com/2014/04/dicembre-1991-novembre-1993-il-trattato.html
[17] – Il riferimento è al famoso libro di Fukuyama, “La fine della storia”.
[18] – Per un confronto con spessore storico tra il capitalismo latino e quello anglosassone, a volte definito, protestante, si veda Luigino Bruni “Il mercato e il dono”.
[19] – Quello lo pensava il marxismo,
[20] – Nella distorsione prospettica per la quale ognuno, equivocando la natura sociale di ogni possibile potere e di ogni possibile piacere e consumo, si pensa vincitore, quando è tanto più probabile non esserlo.
[21] – Cfr. D’Angelillo, “La Germania e la crisi europea”.
[22] – E’ quel che Wolfgang Streeck, in “Tempo guadagnato” chiama, con felice formula, ‘comprare tempo’. Cfr.
[23] – Vedi Hyman Minsky, su “Keynes e l’instabilità del capitalismo”, 1975. Sulla crisi del 2008 si può vedere Raghuran Rajan, “Terremoti finanziari”, da una prospettiva liberale, Joseph Stiglitz, “Il prezzo della disuguaglianza” (o il successivo “Bancarotta”), ma anche Paul Krugman “Il ritorno dell’economia della depressione”, da una prospettiva keynesiana, e autori come Lohoff, (ad esempio in “Crisi”, o “Terremoto”) da un punto di vista marxista.
[24] – Che, naturalmente, ‘felice’ è stata solo per chi riusciva a posizionarsi nei pressi dei flussi di capitali caldi che attraversavano il mondo e sembravano non avere limiti.
[25] – In Usa con un’espansione monetaria imponente e tempestiva, accompagnata da estensioni di protezione e garanzie esclusivamente estese alla parte finanziaria dell’economia (di cui è riconosciuta la centralità sistemica e il potere reale), insieme ad una costante intensificazione dello sfruttamento, in Europa con l’insorgere di una economia duale, con un ‘core’ dedito all’esportazione ed all’accumulo di attivi finanziari, riciclati nei mercati in espansione, ed una periferia costretta ad una brutale austerità per dare priorità al servizio del debito nei confronti del centro. Cfr. Streeck “l’ascesa dello Stato di consolidamento europeo”.
[26] – L’intero equilibrio, e tutte le politiche postkeynesiane, sul piano del consenso sono inconsapevolmente appoggiate sulla pacificazione sociale creata dalle politiche welfariste. L’attuale “Rivolta degli elettori”, come efficacemente scrive Spannaus, e quindi l’intera perdita di stabilità politica dell’occidente, in modo singolarmente simile alla crisi descritta da Polanyi, è invece causata dall’erosione insopportabile per le biografie concrete di troppi della sicurezza esistenziale che era stata prodotta (e delle classi medie che la incarnavano). Le politiche liberiste, concentrate sulla riduzione della ‘minaccia’ della burocratizzazione e dei sistemi di regolazione, sentiti come oppressivi, e quindi operanti per via di deregolazione e disgregazione dei corpi intermedi protettivi della società (inclusa la stessa democrazia rappresentativa, a ben vedere, cfr, ad esempio Peter Mair, “Governare il vuoto”) hanno insomma distrutto la base sociale del loro consenso. Promettendo felicità hanno portato incertezza ed angoscia.
Fonte: https://tempofertile.blogspot.com/2018/09/la-globalizzazione-come-crisi-continua.html
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