L’Italia nel mirino di Goldman Sachs: così lo spread prepara il conto
di GLI OCCHI DELLA GUERRA (di Andrea Muratore)
Il tema della sostenibilità del debito pubblico italiano è tornata d’attualità nelle ultime settimane, a causa del deciso incremento dello spread e dei premi al rischio associati ai titoli del Tesoro di più lungo termine, primi fra tutti i Btp decennali su cui è calcolato il celebre indicatore. Sul tema, tuttavia, una certa pubblicistica mainstream porta avanti da tempo un’analisi, sotto diversi punti di vista, confusionaria, in certi casi addirittura faziosa: in primo luogo, è giusto ricordare che il problema dell’economia italiana, nell’ultimo trentennio, non è stata l’accumulazione di debito per sé, ma la mole crescente di interessi pagati sulle quote preesistenti, come ricorda Wall Street Italia.
Infatti, come segnalato da Italia Oggi, “l’Italia è in avanzo primario da 27 anni”, e anche la prima, discussa manovra economica del governo Conte non fa eccezione nel mantenere un saldo delle partite correnti positivo, facendo sì che il tanto vituperato deficit pari al 2,4% del Pil non sia altro che il frutto degli interessi pagati da Roma sugli oltre 2.300 miliardi di euro di debito.
Debito pubblico e interessi: la natura degli investitori spiega il legame
Il problema degli interessi porta alla questione, al tempo stesso economica e politica, del legame tra il debito di un Paese e la natura dei soggetti che ne detengono le quote maggioritarie. Chiaramente, un debito detenuto in proporzioni maggiori da investitori di grandi dimensioni capaci di condizionare con il loro operato l’andamento dei titoli in una misura a dir poco macroscopica risulta più vulnerabile a choc sistemici, attacchi speculativi e azioni non controllabili dall’esecutivo nazionale, portando a fluttuazioni nell’accumulazione degli interessi che, è doveroso ribadirlo, risulta la causa primaria dell’avvitamento a spirale del debito.
Il caso del Giappone è emblematico. Tokyo ha un debito pubblico pari a 8 mila miliardi di euro (253% del Pil), ma, come ricorda Risparmiamocelo, “circa il 90% del debito pubblico giapponese è detenuto da soggetti residenti: banca centrale (43%); banche (19%) assicurazioni e fondi pensione (20%) e dal Fondo pensionistico nazionale (8%), risparmiatori (1%)”. In Italia, invece, “sono gli investitori non-residenti in Italia a possedere la fetta più consistente del nostro debito pubblico. Oggi gli investitori stranieri possiedono il 35% (738 miliardi di euro) del debito italiano. Le banche detengono il 26% del debito pubblico italiano mentre altre istituzioni finanziarie, come assicurazioni e fondi, ne hanno in mano il 18%”.
A questo dato bisogna aggiungere la mancanza di un potere di controllo da parte della politica economica sul rifinanziamento del debito, fattore fondamentale per lo Stato nipponico nel momento in cui il Primo ministro Abe punta su una manovra economica pluriennale spiccatamente espansiva. E questo nonostante la Banca d’Italia abbia accresciuto, di recente, la sua esposizione.
Il quantitative easing spinge la Banca d’Italia
Prima dell’avvio della politica espansiva della Bce (quantitative easing), nel 2015, scrive l’Agi, “la Banca d’Italia deteneva 169,4 miliardi di titoli pubblici del nostro Paese, cifra corrispondente al 7,80% del totale del debito; la fetta di debito sottoscritta dall’istituto di Via Nazionale, nell’ambito del piano di acquisti avviato dalla Banca centrale europea, è salita a 353,7 miliardi a fine 2017 e la fetta raddoppiata al 15,45%; l’incremento è di 184,3 miliardi (+108,81%)”.
La Banca d’Italia ha ridotto la maggioranza relativa di titoli detenuti dai grandi investitori internazionali, ma senza eroderla sostanzialmente. Ogni esecutivo presente e futuro dovrà dunque trovarsi di fronte alla necessità di scendere a patti o fare i conti con i desiderata dei detentori residenti fuori dal Paese: l’azione di rottura del fondo di Alan Howard al termine della crisi di governo primaverile segnala la necessità di dare un nome, un volto e una fisionomia ai gruppi che, di fatto, condizionano con la loro stessa pressione l’evoluzione finanziaria del Paese.
I tre Paesi più esposti nel debito pubblico italiano: Francia, Germania, Spagna
Un’analisi pubblicata nell’estate del 2016 dal quotidiano tedesco Die Welt, escludendo le banche centrali (Bce e Bankitalia), individuava come primo investitore estero nel nostro debito la Francia. “Banche e assicurazioni d’Oltralpe”, si legge su Panorama, “detengono oltre 250 miliardi di euro in titoli di Stato italiani, più del triplo degli istituti tedeschi (la Germania è il secondo investitore nel debito pubblico italiano) che hanno investito 83,2 miliardi di euro nei titoli governativi italiani”.
Seguono la Spagna, con 44,6 miliardi di euro, e gli Stati Uniti, con 42,5, di cui 10 detenuti dalla sola BlackRock. Il fondo patrimoniale segue le tedesche Detusche Banck (11,7 miliardi) e Allianz (24,8 miliardi) e la francese Axa (22,5 miliardi) in questa speciale classifica. Di recente, anche Jp Morgan, esprimendo al contempo fiducia per gli indicatori economici italiani, è apparsa interessata ad espandere la sua presenza nel debito di Roma.
Lo spettro del rating
Nella sera di venerdì 19 ottobre l’agenzia di rating Moody’s ha tagliato il rating dell’Italia a Baa3 da Baa2 con outlook stabile, aprendo la strada a un potenziale rischio di fuga di capitali dal sistema Paese nel caso in cui anche le altre maggiori agenzie, sul lungo periodo, fossero indotte a portare avanti ulteriori bocciature. Per statuto, infatti, diversi fondi pensionistici o di investimento possono detenere solo asset garantiti con rating sicuri, aprendo un legame a doppio filo con agenzie il cui operato è scarsamente trasparente, per usare un eufemismo.
Ad esempio, segnala Formiche, “il solo indice Russell Ftse World Government Bond ha in pancia 800 miliardi di dollari di obbligazioni, di cui 60 miliardi di Btp (52 miliardi di euro). Se il rating italiano finisse per esempio sotto il livello di investment grade (due tagli da oggi), l’indice, per regolamento interno, venderebbe in automatico”. Goldman Sachs, invece, stima che l’Italia rischia una vendita massiccia da parte dei fondi, di almeno 100 miliardi di euro, in caso di doppio downgrade.
In questi casi, si cammina su un crinale delicato tra l’analisi economica e il conflitto di interessi: il fatto che BlackRock, esposta con 10 miliardi di euro di titoli sul mercato pubblico italiano, risulti azionista di primaria grandezza tanto nel gruppo Moody’s quando in Standard & Poor’s, l’altra principale agenzia statunitense, e che Capital Group, controllante dell’azionista di riferimento di quest’ultima, McGraw-Hill, possegga oltre il 5% di Unicredit e Banco Bpm, invita a tenere alto il livello di guardia.
La missione cinese di Tria: Pechino sbarca nel debito pubblico italiano?
Nei prossimi anni, un ruolo crescente potrebbe essere giocato dalla Cina. Il Ministro dell’Economia Giovanni Tria ha portato avanti una serie di iniziative importanti per coinvolgere maggiormente Pechino nel mercato italiano, recandosi in Cina sul finire dell’estate e concludendo con il numero due della Cic, China Investment Corporation, Tu Guangshao, il più grande fondo sovrano del mondo, un preaccordo per la costituzione di un fondo comune italo-cinese destinato ad aumentare gli investimenti sui reciproci mercati dopo un vertice bilaterale a Milano nella giornata del 17 ottobre.
La Cina potrebbe essere il nuovo partner del debito pubblico italiano, e questo contribuirebbe da un lato a diversificare gli interessi in gioco nel contesto dei titoli emessi dal Tesoro. Ma ciò non risolverebbe affatto il più grande problema che limita l’azione di qualsiasi esecutivo nazionale: affidare la copertura dalle emissioni a soggetti senza base nel nostro Paese significa perdere, passo dopo passo, porzioni di controllo sui futuri sviluppi del debito e sull’evoluzione degli interessi, principale afflizione del Paese negli ultimi decenni. Solo un aumento della quota di debito pubblico in mano a investitori e cittadini italiani consentirà di rompere questo circolo vizioso.
FONTE: http://www.occhidellaguerra.it/litalia-nel-mirino-goldman-sachs-cosi-lo-spread-prepara-conto/
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