La “neolingua migratoria” è un esempio delle farneticazioni politicamente corrette che stanno decomponendo il linguaggio in una sorta di brodame indistinto. In questo campo è sorto un vero e proprio florilegio di significanti vuoti.
Iniziamo subito col termine migrante, apparso nel linguaggio corrente solo da qualche anno: persino i dizionari di neolingua, anche se intrisi di “correttezza politica”, ritengono il termine “migrante” piuttosto vago. Ad esempio, nel Glossary on Migration edito dall’Iom (International organization of migration), troviamo la seguente “non-definizione”: “A livello internazionale non esiste definizione di ‘migrante’ universalmente accettata. Il termine è ritenuto coprire tutti i casi nei quali la decisione di ‘migrare’ è presa liberamente da individui senza che intervengano fattori esterni di coercizione”. Il dizionario neolinguistico della Commissione europea è ancor più vago, in proposito: “Migrante: termine più ampio di immigrante ed emigrante, che si riferisce a una persona che lascia il proprio Paese o regione per stabilirsi in un altro”.
Il lessico delle Nazioni Unite contribuisce non poco ad accrescere la confusione neolinguistica. Secondo questo, il migrante è “un individuo che ha risieduto in un Paese straniero per più di un anno, indipendentemente dalle cause e dai mezzi adoperati per migrare”. Insomma, pur profondendo ogni sforzo possibile, non si riesce proprio a infondere di significato il termine “migrante”, sicché esso assume la funzione di manganello moralistico, atto a gettare sulle spalle dei “privilegiati” autoctoni il fardello della colpa.
Tuttavia non è una colpa “sans (t)rêve et sans merci”: in questo caso viene offerta la possibilità di espiazione. Basta coltivare un’adeguata attitudine all’“accoglienza”, termine imbevuto di sdilinquimento sentimentale, che ha il solo scopo di stigmatizzare coloro che ne sono ritenuti incapaci. La pochezza di questo significante è ben visibile nel fatto che esso viene usato in un dominio descrittivo per il quale non è appropriato: esso attiene sempre alla sfera privata, mentre l’immigrazione concerne la sfera politica e normativa, ovvero all’insieme di regole che una comunità, che si manifesta politicamente, si è data. Quale sarebbe l’alternativa “accogliente” per gestire questo tipo di fenomeni, quando diventa così massiccio? Smettere di controllare i documenti alle frontiere degli aeroporti, in modo che chiunque possa entrare al modico prezzo di un biglietto aereo? Naturalmente nessuno, tra i fautori del’”accoglienza”, è in grado di rispondere a questa semplice domanda.
Il mescolamento lessicale di cui sopra non è solo fonte di confusione ma, secondo l’Unhcr, è finanche pericoloso per coloro che sono davvero bisognosi di protezione. Leggiamo cosa è scritto in proposito: “Nonostante stia diventando sempre più comune vedere i termini ‘rifugiato’ e ‘migrante’ usati in modo intercambiabile nei media e nei dibattiti pubblici, vi è tra i due una differenza fondamentale dal punto di vista legale. Confonderli può avere conseguenze importanti per rifugiati e richiedenti asilo”. Ossia, non si fa affatto un buon servizio a coloro che rifugiati lo sono davvero, ovvero: “Persone che abbandonano i loro luoghi di residenza a causa di gravi pericoli per la loro incolumità”, come recita la convenzione di Ginevra del 1951.
La confusione semantica è ancora più marcata per ciò che riguarda il termine “profugo” che, nella neolingua migratoria, è divenuto una sorta di crasi di “migrante” e “rifugiato”. Ebbene, esso non viene per nulla considerato nei dizionari neolinguistici migratori. Infatti in essi esiste solo la voce “sfollato” (displaced person). Leggiamo dunque la definizione che si trova nel dizionario neolinguistico a cura della Commissione europea, che metteremo successivamente a confronto con quella dell’Iom: “Sfollato: nel contesto dell’Ue, cittadino di un Paese terzo o apolide che ha dovuto abbandonare il suo Paese o regione d’origine o che è stato evacuato, e il cui ritorno in condizioni sicure e stabili risulta impossibile a causa della situazione nel Paese stesso”. L’Iom invece fornisce la seguente definizione: “Uno sfollato (displaced person) è una persona che fugge dal proprio Stato o comunità a causa della paura o di pericoli per motivi diversi da quelli che lo rendono un rifugiato“.
Le due definizioni sono alquanto diverse: quella dell’Iom sottolinea l’eccezionalità della condizione e quindi il suo carattere temporaneo. Quella della Commissione europea, viceversa, sembra alludere a una condizione con carattere di permanenza, quasi che l’intenzione sia quella di promuovere l’assimilazione semantica della situazione di “sfollato” a quella di “rifugiato”. Qui possiamo osservare un’operazione neolinguistica di segno opposto rispetto a quella messa in atto col termine “migrante”. Quest’ultimo è eccessivamente vago e, pertanto può essere incluso in una nube di indeterminazione nella quale sono presenti anche le accezioni di “rifugiato” e “sfollato/profugo”. Il termine “profugo”, invece, grazie all’apparente precisione con la quale viene definito, subisce uno “spostamento semantico” atto renderlo assimilabile a “rifugiato”.
Ma quale potrebbe essere il motivo di questa ambiguità che si trova nel lessico della Commissione europea? Credo che esso sia ravvisabile nella direttiva 2001/55/CE del Consiglio, del 20 luglio 2001. “‘Protezione temporanea‘: la procedura di carattere eccezionale che garantisce, nei casi di afflusso massiccio o di imminente afflusso massiccio di sfollati provenienti da Paesi terzi che non possono rientrare nel loro Paese d’origine, una tutela immediata e temporanea alle persone sfollate”. E con questo si chiude il cerchio. Il giochino neolinguistico serviva a compiere una sorta di omologazione di tutti gli immigrati irregolari (“migranti”) alla condizione di rifugiati, anche se la schiacciante maggioranza di costoro non fugge da alcuna delle situazioni che darebbero diritto a questo status.
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