La più bella del mondo. Perchè amare la lingua italiana
di LE PAROLE E LE COSE (Stefano Jossa)
[Immagine: Italia in miniatura, Firenze
[È uscito da qualche settimana un libro di Stefano Jossa, La più bella del mondo. Perché amare la lingua italiana (Einaudi), che si propone di riflettere su lingua, letteratura e società a partire dall’esperienza quotidiana, dagli usi della lingua in vari contesti e soprattutto dal rapporto tra lingua e creatività. Pubblichiamo, per gentile concessione dell’autore e dell’editore, una pagina dal capitolo 6, intitolato Il peso della tradizione]
«Le chiedo se sarebbe disponibile a supportare la mia candidatura per una borsa di studio». La frase suona come una richiesta di sostegno in ambito accademico, piuttosto formale e cortese: nessuno sospetterebbe che fino a un secolo fa avrebbe significato una richiesta di sostegno fisico, come se il richiedente volesse che lo si aiutasse a non cadere oppure gli si tenesse la mano. In fondo, un’altra metafora del sostegno a un concorso è «dare una spinta» (o «spintarella», ovvero «dare un calcio» o «calcione»), come se l’attività intellettuale non potesse essere espletata senza un preliminare intervento fisico. «Supportare», infatti, voleva dire «reggere, mantenere, sostenere». E’ solo dalla metà del secolo scorso, per un calco dall’inglese to support, che supportare ha cominciato a significare «sostenere moralmente, aiutare, appoggiare»: a partire, sembra, da un titolo su una rivista americana durante la prima campagna elettorale italiana dopo il Fascismo, negli anni Quaranta del Novecento, «Sopportiamo De Gasperi» (nel senso, ovviamente, di «supportiamo»)
Si tratta di uno dei tanti calchi lessicali dall’inglese che si sono affermati in italiano negli ultimi cento anni. Pochissimi tra chi ha meno di quarant’anni si meraviglierebbero oggi a sentire un coetaneo o qualcuno più giovane che, alla domanda «che fai?», rispondesse deciso: «applico». Qualcuno più anziano, o più fiscale, si chiederebbe però subito se chi applica stia applicando qualcosa da qualche parte o se magari gli fosse sfuggita la prima parte della risposta: un «mi» che darebbe senso al tutto, perché «applicarsi» vuol dire «impegnarsi». Resterebbe da scoprire impegnarsi in cosa e a quale scopo, ma almeno la grammatica sarebbe salva. «Applico», invece, è diventata un’azione assoluta, una vera e propria professione da rivendicare stentorei: significa «cercare un lavoro», anzi più precisamente «fare domanda per trovare un lavoro». Viene dall’inglese, to apply (for), ma è stato italianizzato a tal punto da essere percepito come italiano (a differenza dei vari «downloadare» o «surfare», che sono chiaramente anglicismi adattati all’italiano). Fare una domanda di lavoro è ormai, tristemente, un lavoro in sé e per sé, per cui «applico» funziona benissimo come risposta alla domanda «che fai?», equivalente a «insegno», «lavoro in un bar» o «vendo giornali». Chi applica si applica, probabilmente, ed applica pure le sue conoscenze, si spera, ma certamente non punta a trovare un lavoro per il quale è necessario fare una domanda: il lavoro che troverà, se lo troverà, è un lavoro per cui fa un’application. La prevalenza dell’una o l’altra lingua in un determinato settore designa del resto i rapporti di potere tra le diverse culture in quel settore: c’è stato un tempo in cui a penalty si preferiva «rigore» e a corner «calcio d’angolo», perché l’Italia era la mecca del calcio, ma oggi non è più così. Nel mondo del lavoro certamente non è l’italiano la lingua di riferimento.
«Spendere tempo» è infatti ciò che più ci capita: spendiamo tempo a fare un esercizio, a fare la spesa, a preparare una conferenza oppure a cucinare un piatto. Certo in italiano il tempo si dovrebbe «trascorrere» o «passare» più che «spendere», anche se non mancano illustri precedenti letterari fin dall’Ottocento ad attestare la possibilità di «spendere tempo», cioè «trascorrerlo invano, sprecarlo, buttarlo via»; ma «spendere tempo» come trascorrerlo, meglio se utilmente, è ciò che c’impone il capitalismo, che punta alla massimizzazione del tempo per conseguire il miglior risultato col minimo sforzo. Si tratta cioè di to spend time, che è l’espressione su cui si fonda l’italiano «spendere tempo» ai giorni nostri. Non è neppure un calco, perché l’espressione già esisteva in italiano; ma è uno slittamento semantico, per cui sull’italiano «spendere», che vuol dire «pagare», «dare ad altri del denaro», e quindi «utilizzare», si è innestato senza difficoltà l’omofono inglese to spend, che vuol dire, seguito da time, «trascorrere, passare il tempo». La cosa è facilitata dal fatto che to spend (money) significa anche «spendere», col risultato che la parentela, di suono e di significato, fra le due parole legittima e rafforza qualsiasi tipo di sovrapposizione.
L’interferenza con l’inglese non è di per sé indice di impoverimento o imbarbarimento linguistico: è solo indice di subordinazione. La sudditanza culturale si traduce in una disponibilità linguistica, che non fa bene a nessuna delle due lingue, perché perdono la loro identità e si appiattiscono a vicenda. Nelle dinamiche linguistiche come in quelle politiche, si è affermata, infatti, una malintesa idea di medietà come mediocrità, quando sono il confronto e la mediazione tra le diversità a rendere affascinanti i problemi tanto della politica quanto della comunicazione. La lingua è tanto più bella quanto più apre i suoi spazi anziché restringerli: come una corsa nelle praterie anziché una passeggiata in un’aiuola di margherite.
Fonte: http://www.leparoleelecose.it/?p=34292
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