I ‘Gilet gialli’ sono il simbolo del fallimento della politica di austerità in Europa
di BUSINESS INSIDER ITALIA (Edoardo Toffoletto)
Un dimostrante tra i lacrinogeni durante le proteste dei ‘Gilets jaunes’ a Parigi. Theo Legendre/AFP/Getty Images
Il 28 ottobre al Forum del Partito Democratico, Massimo Cacciari chiarisce senza equivoci: “il popolo non esiste”. Già dagli anni ’70, ci dice Cacciari, v’erano studiosi e intellettuali che cercavano di indicare quanto era necessaria una ristrutturazione dei corpi intermedi e della rappresentanza politica per far fronte alle trasformazioni epocali dell’automazione industriale, mero preludio e punta dell’iceberg degli effetti che produrrà la rivoluzione informatica a partire essenzialmente dagli anni 2000 con la “data economy” e le piattaforme e social network quali Amazon, Facebook e Twitter. Eppure, da almeno un trentennio, continua Cacciari, null’altro si è fatto che ciarlare di “società liquida”, attaccandosi a facili sociologismi, senza interrogare le nuove tensioni e “faglie” su cui la società si andava trasformando: cos’è questa liquidità se non il popolo stesso?, domanda retoricamente ancora Cacciari, “possibile che queste faglie e queste divisioni siano state comprese da Trump e non da noi”?
E di questo popolo liquido, di queste moltitudini destrutturate, vediamo, ormai da mesi, se non anni, l’irrompere sulla scena politica europea senza eccezioni: dal Regno Unito all’Italia, e dalla Francia, passando per l’austera Germania fino alla Polonia.
Per semplificare, si è designato questo fenomeno come “populismo”. Sempre Cacciari invita a riflettere che la stessa incapacità dei partiti tradizionali di registrare i cambiamenti, ha permesso alle figure carismatiche – secondo la definizione weberiana – di porsi sul teatro politico rivendicando la capacità di esprimere immediatamente la volontà del popolo, cioè senza mediazione e simbolizzazione istituzionale, ciò che entra in piena contraddizione con il principio di ogni democrazia rappresentativa.
Per mancanza ormai decennale di strutture e corpi intermedi che permettano la formazione politica degli interessi, i leader carismatici e i loro militanti si immaginano capaci di una comunicazione e trasmissione immediata tra eletti ed elettori come se fossero dotati dell’ “intelletto degli angeli” – i soli, ci ricorda Cacciari, a poter comunicare immediatamente.
Il carattere destrutturato e anonimo di questi movimenti fa sì che essi vengono salutati da tutti i fronti, in modo incoerente, come espressione delle proprie posizioni a partire da un tweet di Trump, che vede nei “gilets jaunes” francesi la prova che gli accordi di Parigi sul clima non piacciono a nessuno, fino a Beppe Grillo, che, come riporta in queste pagine Giuliano Balestrieri, “in un’intervista al Fatto Quotidiano ha benedetto la rivolta dei lavoratori francesi”.
La francia di Macron in balia dei gilet gialli: un simbolo delle moltitudini
Si tratta di approfondire le ragioni delle assonanze messe in luce da Balestrieri tra il movimento dei gilet gialli e le richieste dei 5Stelle, che esprimono più il basso fondamentale di esigenze trasversali delle moltitudini in tutta Europa, che una specifica e determinata somiglianza programmatica tra i gilet gialli e i grillini.
In effetti, mentre i 5Stelle si sono costruiti attraverso il carisma di Grillo, che è stato capace di far convergere il disagio dei più disparati interessi e gruppi sociali e quindi di permetterne la simbolizzazione istituzionale, i gilet gialli sono l’espressione del tradizionale e plurisecolare (almeno dalla Grande Rivoluzione del 1789) carattere insurrezionale del disagio moltitudinario francese. Il carattere dei gilet gialli consiste precisamente nel non avere leader, per questo ci si richiama qui alla nozione di “moltitudine” coniata a suo tempo da Toni Negri, per descrivere il soggetto politico nella sua dimensione costituente.
Infatti, mentre i grillini hanno un carattere pseudo-moltitudinario, e non riflettono che decisioni e proposte programmatiche decise dal vertice dell’organizzazione, i gilet gialli non richiedono che un’assemblea costituente dei cittadini, che permetta di instaurare un processo legislativo e governativo, includendo le questioni fiscali, che sia il risultato di un lavoro sinergico tra dimensione statale e nazionale e l’iniziativa locale e regionale. Un’idea questa, che era già immaginata nel ’66 dal generale de Gaulle all’inaugurazione della fiera di Lille, per permettere di organizzare lo sviluppo economico integrando l’iniziativa locale-regionale nella pianificazione statale. A questo fine, Charles de Gaulle immaginava di costituire un’assemblea degli interessi socio-economici (un’assemblea dei cittadini) che ne rappresentasse gli interessi dalle realtà locali fino ai grandi gruppi industriali, da far interagire con l’Assemblea Nazionale per la produzione legislativa.
Per questo diventa grottesco ridurre la molteplicità delle istanze di un movimento, come quello dei gilet gialli, ad un unico possibile aspetto della sua compagine. Come osserva Federico Iarlori su Linkiesta, prima di poter parlare dei gilet gialli è necessario “sfatare” almeno tre pregiudizi: sono stati accusati dai media mainstream come violenti, fascisti ed anti-ecologisti.
- Per quanto riguarda la “violenza”, essa non è che un aspetto fisiologico delle manifestazioni, è sufficiente avere un minimo di consapevolezza storico-politica per non storcere il naso davanti agli atti di vandalismo avvenuti. Come commenta Iarlori, questi atti “sono dipesi dall’infiltrazione dei cosiddetti ‘casseurs’ (delinquenti), che non sono creature mitologiche, ma sono anche essi i prodotti di decenni di malgoverno e di costante aumento delle disuguaglianze sociali”. Sono i loro “volti coperti a finire in prima pagina al posto di quelli scoperti e ben visibili” di studenti, pensionati e operai, continua Iarlori. Eppure, se Emmanuel Macron nella sua allocuzione alla nazione dall’Eliseo di lunedì 10 dicembre 2018, definiva il movimento dei gilet gialli come un “misto di rivendicazioni legittime e violenze inammissibili”, v’è da interrogarsi se senza l’aspetto spettacolare di violenza e vandalismo Macron si sarebbe sentito veramente costretto a ritrattare, almeno simbolicamente, su alcune sue proposte di riforma e in particolare sulla spinosa tassa sul carburante e sull’aumento del salario minimo. Sono stati gli aspetti vandalici della manifestazione ad indurre negozianti, soprattutto di grandi catene dai supermercati al lusso di massa (da Monoprix a Yves Rocher), e i ristoratori a chiudere i battenti durante questi ultimi quattro sabati. E questo, secondo quanto riporta The Wall Street Journal, avrebbe indotto una riduzione dell’ultima stima di crescita fatta dalla Banca di Francia: nell’ultimo quarto del 2018, si stimava una crescita dello 0,4% rispetta al quarto precedente, ora l’ultima stima è del solo 0,2% – colpiti risultano i trasporti, la ristorazione e le automobili.
- I gilets gialli sono fascisti? Ancora Iarlori osserva quanto ci dovrebbe stupire se non ve ne fossero all’interno della loro compagine, dopotutto la Le Pen alle presidenziali “ha preso quasi otto milioni di voti”, quindi è inevitabile che vi siano derive di estrema destra all’interno del movimento. Ciò non permette tuttavia di schiacciarlo sulla compagine “fascista”.
- Infine, l’anti-ecologismo? Sempre Iarlori afferma “la maggior parte dei ‘gilets gialli’ non è neanche ecologista, nel senso che loro dell’ecologia se ne fregano altamente, terrorizzati dall’idea di non riuscire ad arrivare a fine mese”. Un pensiero ecologico esige la capacità di abitare il tempo in termini diacronici e percepire il proprio presente proiettandolo sul lunghissimo termine: sui prossimi decenni, se non secoli. Se non si arriva a fine mese, il proprio orizzonte temporale si misura in settimane o al massimo di mese in mese.
Al di là dei volti coperti o scoperti, ciò che salta all’occhio è il giallo fluorescente dei gilet di soccorso, ormai simbolo del movimento. Il 5 dicembre Libération rilascia un’intervista allo storico Michel Pastoureau, che ha dedicato i suoi studi e ricerche sulle metamorfosi dei significati simbolici dei colori e ora si sta cimentando proprio sul colore “giallo”. Pastoureau osserva quanto assente sia il giallo sulla scena politica, in genere sono i colori primi o secondi a dominare: il blu per i conservatori, il rosso per communisti e rivoluzionari, il bianco per monarchici, il nero per gli anarchici o ancora il verde per gli ecologisti. Con l’avvento del primato dell’oro, che si prende gli aspetti positivi di gioia, bellezza e ricchezza, ci ricorda lo storico, il giallo viene relegato a tutta una semantica negativa: dall’invecchiamento autunnale alla “menzogna, ipocrisia e tradimento”. L’unico partito che ha questo colore come simbolo è la FDP (Il Partito liberal-democratico tedesco di Lindner), che come l’archetipo del suo colore vuole è sempre passato da alleanze col centro-sinistra al centro-destra – incarnando il cinismo della tattica politica. Si noti peraltro anche la centralità del colore giallo nel simbolo dei 5Stelle, le cui simboliche stelle sono gialle. Gialla è anche la scritta “Salvini. Premier” sul simbolo della Lega.
Pastoureau riassume: “Il giallo è il colore dei traditori, ma anche dei traditi” – traditori, forse i partiti, tradite le fiumane di gente che indossano il gilet giallo, che rimarca il carattere moltitudinario, anonimo e ambivalente dei loro raggruppamenti. I media si sono concentrati su Parigi come grande teatro di scontro tra 89.000 uomini della gendarmeria e oltre 120.000 manifestanti che irroravano i grandi boulevards parigini e i famosi Champs Élysées, ma le proteste disseminano non solo l’Esagono, e le sue principali città, ma anche le sue arterie ferroviarie e autostradali, fino ai possedimenti d’oltre-mare.
La questione ecologica è strettamente legata alla questione fiscale. Il generale anti-ecologismo del movimento va letto a monte attraverso la questione della fiscalità. La rivolta si dirige essenzialmente contro la spiegazione ecologista per l’aumento della tassa sul carburante, che dovrebbe finanziare la fantomatica “transizione ecologica” quando, come precisa inequivocabilmente Iarlori, “nel 2019 lo Stato prevede di prelevare 37,7 miliardi di euro di tasse sui carburanti, cioè quattro miliardi in più rispetto al 2018. Ma la somma diretta al dossier speciale dedicato alla ‘transizione ecologica’ resta incredibilmente la stessa dello scorso anno, cioè 7,2 miliardi, ovvero il 19% della somma totale”.
Su l’Humanité un antropologo del CNRS, Benoit Hazard, chiarisce che la questione ecologica e la posta in palio di una tale tassa su carburante, e l’onda di proteste che ha causato, consistono nella sfida di concepire interamente un altro modello di produzione, di organizzazione sociale e politica che permetta di “produrre energia sana e durabile”. Le proteste sono il sintomo che la popolazione è stata soggetta a tanti strumenti tecnici e fiscali come mezzi verso la “transizione ecologica” senza che gli fosse proposta anche un’immagine di società e un modello alternativo di produzione ai quali si vorrebbe tendere.
Su Foreign Policy, James Traub ricorda che Macron è giunto al potere essenzialmente come antidoto alla Le Pen e sottolinea quanto il suo arrivo alla presidenza sia semplicemente l’espressione del voto dei francesi che hanno scelto la “repubblica”, in luogo di derive sconosciute, il che non implica un’adesione piena al programma di Macron. “I francesi lo considerano come un elitario”, scrive Traub, “che porta avanti politiche che favoriscono le élite a spese di una compressa classe media. Essi ripudiano sia i suoi modi, sia le sue prospettive, che stipulano che la Francia debba incoraggiare gli investimenti nel diminuire i regolamenti e il peso fiscale sulle imprese e sui ricchi”. Nonostante ciò, secondo Traub, Macron non cadrà di fronte alle insistenze dei manifestanti. Eppure, il presidente sembra riconoscere che “le misure economiche” lo hanno reso impopolare, però predice anche che esse dovrebbero mostrare i loro effetti positivi nei prossimi 18/24 mesi. Nel caso non dovessero, allora Macron “è condannato”, afferma Traub.
Nonostante la grande cantonata nel definire come l’“irrisolvibile contraddizione francese” il fatto di volere al contempo meno tasse e servizi sociali migliori, l’opinionista Gideon Rachman evidenzia sul Financial Times le conseguenze geopolitiche del movimento dei gilet gialli.
Su Le Monde Diplomatique di dicembre 2018, Alexis Spire ci rammenta che la “collera contro le tasse”, da cui muove il movimento dei gilets gialli, nasce proprio a causa della mancata visibilità degli effetti positivi del pagamento delle tasse negli strati più poveri, e più decentrati, della popolazione. “Dal 2005 al 2017”, scrive Spire, “i governi hanno soppresso più di 35.000 posti di lavoro nell’insieme dell’amministrazione delle finanze pubbliche, e soprattutto tra il personale agli sportelli”, con una riduzione inoltre degli orari d’apertura degli enti pubblici nelle zone rurali. Ciò comporta per i meno integrati nella rivoluzione informatica, una percezione non soltanto simbolica, ma anche reale, di un allontanamento siderale dello stato dalla propria vita quotidiana.
Tale sfiducia verso l’utilità delle tasse per il contribuente aumenta esponenzialmente dallo scalpore mediatico sollevato attorno ai vari “Panama Papers”, “Paradise Papers” e “Swiss-Leaks”, grazie a cui le moltitudini si rendono conto quanto il principio di imposizione fiscale non si conforma al sommo principio costituzionale dell’uguaglianza: specie con l’ossimoro incarnato dallo “scandalo Jérôme Cahuzac”, il ministro incaricato da Hollande di lottare contro l’evasione che aveva messo da parte 600.000 € in Svizzera. Non sono tanto i 600.000 € di Cahuzac quanto la raggiunta consapevolezza che il grande capitale viaggia liberamente da paese a paese esentasse a sollevare l’insurrezione contro le imposte e reclamare (coerentemente) migliori servizi sociali.
Rachman mette in luce che tutto il progetto di Macron di un ritorno della grandeur francese in seno ad una grande Europa come trampolino per porre la Francia tra i protagonisti della geopolitica globale poggiava sul tacito patto che se fosse riuscito a riformare la Francia, la Germania avrebbe acconsentito a riformare l’architettura europea. Il dilagare dei gilet gialli e la loro delusione di fronte all’allocuzione presidenziale di lunedì infrangano in partenza ogni mania di grandezza dell’enarca Macron.
Tra l’Italia e il collasso della merkel: dall’ipocrisia dello spread al sommovimento dei sindacati tedeschi
Si è parlato molto dell’abisso davanti al quale si trova la Germania, e del naufragio inevitabile della Merkel. Come commenta Simone Bonzano su il Caffè et l’Opinione, sarebbe meglio tuttavia riconoscere che “le notizie sulla fine politica di Angela Merkel sono sempre state alquanto esagerate”. Ciononostante, rimane il suo inevitabile collasso. Bonzano ci fornisce gli elementi del suo astuto piano per passare il testimone e non destare alcun “caos politico” per assicurare alla Germania “il governo e la continuità in politica estera”, che si concretizza in un sapiente equilibrio: da una parte, la promozione di un ultra-conservatore, Manfred Weber della CSU (l’Unione Cristiano-Sociale), per essere candidato Presidente della Commissione Europea dei Popolari Europei; dall’altra la nomina, poco più di un anno fa, alla Segreteria della CDU (l’Unione Cristiano-Democratica) della sua beniamina: Annegret Kamp-Karrenbauer (detta AKK), la quale se si rivela più conservatrice sui diritti civili (es. verso la comunità Lgbtiq) e sulla questione migratoria, rimane da un punto di vista economico più aperta verso i liberali e i progressisti ponendosi “alla sinistra dello spettro”.
Questo, seppur sapiente, precario equilibrio che riunisce gli elementi per rilanciare il progetto europeo nella AKK, con un bilanciamento conservatore, attraverso Weber, in materia di diritti civili e di asilo, per accogliere, arginando le istanze espresse dalla AfD, fa sì che la nuova parabola della politica tedesca può aprire ad abbandonare “proprio il fiore all’occhiello dell’amministrazione Merkel: le politiche sui migranti”. Attraverso Weber, a livello europeo si arriva a dialogare con “l’austriaco Sebastian Kurz, astro nascente del conservatorismo UE”, al fine di depotenziare Visegrad. Sulla carta risulta una festa per la “lega anseatica” (Benelux, Olanda, Scandinavia, Irlanda e Baltici), incentrata sulla Germania, e promotrice, attraverso gli spauracchi del fiscal compact e dello spread, delle politiche ordo-liberali deflattive che ne garantiscono il dominio geo-economico.
I recenti scontri tra l’Italia e l’Ue a proposito del debito sovrano, del deficit e dello spread in crescita dei tassi dei titoli italiani rispetto ai tassi tedeschi, non sono che l’ennesima testimonianza, commenta Helen Thompson su Foreign Affairs, dell’incapacità delle istituzioni europee di accogliere nei loro processi decisionali non soltanto i pesi e contrappesi della democrazia, ma soprattutto i suoi tempi e costi. Lo Spiegel sembra sostenere che l’arrivo di AKK alla CDU ha “messo una fine definitiva alla CDU, come noi la conosciamo” e questa trasfigurazione il periodico tedesco la sancisce affermando che “finalmente (la CDU) è arrivata al presente”: lo stile politico della Merkel, si dice, ha fatto il suo tempo, benché tramonterà non prima della fine del suo mandato, cioè non prima del 2021.
Queste anticipazioni di un possibile cambiamento, sono ancora elementi di un comportamento della Germania che ci potrebbe stupire, come scriveva a metà novembre Giulio Sapelli. Ma tali cambiamenti sono già in atto: di fronte alla profonda crisi della Deutsche Bank, gravida di derivati e titoli deteriorati, si mormora da mesi di una possibile fusione con la Commerzbank, della quale lo stato partecipa ancora con ingenti capitali. Sul Financial Times si commenta tuttavia che “combinarsi con un tale debole rivale in un mercato domestico disfunzionale non risolverebbe niente”. Si conclude, insomma, che la Deutsche Bank con il suo bilancio da “1.400 miliardi di euro” “un tempo il campione nazionale è già diventato piuttosto un imbarazzo nazionale. Non deve essere permesso che questa crisi sonnambuli in una collasso sistemico”.
Non stupisce quindi che Marco Zanni commenti su twitter:
Così è tempo forse di smascherare l’ipocrisia dello spread basato sui tassi d’interesse dei titoli di stato, poiché è soltanto un parametro tra i tanti possibili, come spiega Sapelli in un’intervista radiofonica, la sui scientificità non è assolutamente dimostrata: perché non basare lo spread, per esempio, tra i volumi di investimenti tra un paese e l’altro? Perché proprio quello sui tassi di interesse dei titoli di stato dovrebbe essere il metro di paragone per giudicare la qualità di un sistema economico?
In effetti, se si passa alla questione degli investimenti si apre un abisso in Germania, per quanto si possa avere la percezione diversa se si legge la Germania attraverso la sua capitale, Berlino, in cui si concentrano la maggior parte dei cantieri e migliorie infrastrutturali.
Eurointelligence pone l’attenzione su un breve sciopero di sole 4 ore dei ferrovieri durante la rush-hour del lunedì 10 dicembre mattina: esso ha “prodotto una delle peggiori esperienze di congestione del traffico nella memoria recente. I treni pendolari erano severamente in ritardo. Treni nazionali sono stati cancellati. Le stazioni ferroviarie erano incapaci di tenere i passeggeri informati. Le persone hanno provato a usare le loro macchina, producendo una congestione del traffico di almeno 400 km”. Un sindacato dei ferrovieri “era molto contento del grande impatto dello sciopero, considerando la sua irrisoria durata. L’esperienza potrebbe ora portare l’operatore ferroviario ad accettare le richieste salariali del sindacato”. Tali eventi sono il riflesso di “anni di sotto-investimento” che si ripercuote su tutte le reti di trasporto, inclusi gli aeroporti, ma non solo. Altri sindacati “stanno minacciando ulteriori scioperi da parte dei controllori del traffico aereo per l’anno nuovo”. Pure i sindacati tedeschi sono in pieno sommovimento.
E se è vero che la Francia è il cuore politico dell’Europa e che i gilet gialli sono un’anticipazione dei movimenti europei, come afferma altrove sempre Sapelli, essi sono il chiaro sintomo dell’inizio della crisi dell’Europa ordo-liberale, rivelata anche dall’inevitabile cambio di rotta e nuova politica economica, che saranno necessarie per non far collassare Deutsche Bank – ma i tempi potrebbero ancora essere lunghi. Il 72% dei francesi dice ‘no’ a Macron nei sondaggi, benché non tutti scendano in piazza, le manifestazioni sono la chiara eco di tale maggioranza che si interroga sull’operato e la direzione di governo espressa dal suo presidente: è un’ennesima espressione del “fallimento dell’austerità”.
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