Ricordo di Robert Klein
di QUOD LIBET, UNA VOCE (Giorgio Agamben)
Cari Federici, lettere postume sono cosa odiosissima nel genere epistolare, lo so bene, ma questa è una lettera d’affari – scritta con affetto, però. Mi spiace moltissimo di creare quest’imbarazzo, ma motivi per scendere dal treno ne ho molti e stringenti, il tutto era di trovare il momento quando si poteva farlo col minimo di drammi e questo è adesso. Avrei voluto lasciare le cure e gli affari a persone meno gentili e meno amiche, ma non si può. Non vale la pena di disturbare i carabinieri per cercarmi, quando Lei legge queste istruzioni (mi spiace) tutto è già deciso da giorni. Sono andato sui colli per non lasciare il corpus delicti nella bella stanza di Abbondanza, e per non dare noia a innocenti alberghieri. Prego la Sgra. Meller di occuparsi dello sgombero dei miei affari, con la partecipazione della concierge. Tutti i mss., dattiloscritti o no, sono da buttar fuori; forse lasciando le fotografie e le schede bibliografiche per lo studio sui Tarocchi, e anche le carte segnate redigées utilisables, se Chastel ne vuole per uno studente incaricato di occuparsi un giorno di quel tema. Le sono tanto grato, scrivendo. Ma non è bene parlarne. Suo Klein.
Questa lettera è stata inviata da Robert Klein ai suoi amici Renzo e Graziella Federici poco prima di suicidarsi sui colli di Settignano il 22 aprile 1967. La lettera non c’interessa qui come documento biografico, ma perché in essa trovano compiutamente espressione il pensiero e il carattere di questo studioso geniale, che non soltanto ha rivoluzionato per molti aspetti la storia dell’arte del Rinascimento, ma, col saggio Spirito peregrino, ha gettato una nuova luce sulla poesia di Dante e dei poeti d’amore e, con lo studio su L’eclisse dell’opera d’arte, ha profeticamente descritto il destino dell’arte cosiddetta contemporanea. Non è per questo che qui intendiamo ricordarlo. Ci riferiamo piuttosto alle sue riflessioni sull’etica, svolte nei saggi che chiudono l’ultima sezione della raccolta postuma La forma e l’intellegibile (1970) e soprattutto nell’ampio, incompiuto e tuttora inedito Essai sur la responsabilité.
La tesi centrale del saggio è che l’Io si genera attraverso un’assunzione di responsabilità che solo l’Io può compiere. Il soggetto responsabile si costituisce, cioè, attraverso l’atto di cui è il presupposto (o, come scrive Klein, è supposé par cela-même qu’il doit expliquer). Corollario di questo teorema è dunque che l’etica (e, in un certo senso, la stessa filosofia, visto che per Klein la coscienza ha la forma di un’assunzione di responsabilità) è impossibile. Simone Weil ha scritto una volta che la sola soluzione adeguata di un problema è quella che ne contempla l’impossibilità. In modo simile, Klein concepisce l’etica come il tentativo coerente e irrinunciabile di vivere un’impossibilità, di ostinarsi ironicamente a essere ogni volta ciò che può solo diventare.
Non stupisce allora che, come tanto il tono che la scrupolosa attenzione ai particolari della lettera suggeriscono, il suicidio, in quanto coincide con la sottrazione dell’Io, potesse apparirgli come l’assunzione di responsabilità più compiuta e risolta. Ciò non ha ovviamente nulla a che fare con le ragioni che lo hanno spinto a togliersi la vita, ma implica soltanto che ai suoi occhi l’atto che stava per compiere era in qualche modo un’estrema assunzione di responsabilità.
FONTE: https://www.quodlibet.it/giorgio-agamben-ricordo-di-robert-klein
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