Dal GATT all’USMCA, il fallimento del libero mercato?
di IL MEDITERRANEO (Filippo Sardella)
Altro che GATT e NAFTA. Il nuovo accordo tra Stati Uniti, Messico e Canada prevede di alzare le barriere nei confronti dei prodotti realizzati al di fuori del Nord America al 75%, introduce una sorta di salario minimo di 16 dollari l’ora in modo da far alzare i salari alle fabbriche del Messico. Ma il vero colpo al libero mercato viene sancito dalla “clausola cinese” secondo la quale uno Stato che fa parte dell’Uscma e che intenda negoziare un accordo commerciale con la Cina (ma anche Corea del Nord e Cuba) deve preventivamente avvisare gli altri due partner.
La globalizzazione è il frutto di un processo economico per il quale mercati, produzioni, consumi e anche modi di vivere e di pensare vengono connessi su scala mondiale, grazie ad un continuo flusso di scambi che li rende interdipendenti e tende a unificarli. Questo processo dura da tempo e negli ultimi trent’anni (1980-2010) ha avuto una forte accelerazione in concomitanza con la terza rivoluzione industriale; quindi la globalizzazione si può riassumere come un cambiamento nell’economia di tutto il mondo e riguarda un unico grande mercato che coinvolge tutto il mondo e i suoi abitanti.
La globalizzazione ha segnato l’ordine economico mondiale nell’ultimo quarto di secolo, una storia che ha avuto origine con due trattati; l’atto che crea nel 1993 il Mercato Unico Europeo e il negoziato che nel 1992 (ratificato definitivamente nel 1994) ha dato vita al NAFTA, stipulato tra Stati Uniti, Canada e Messico. Parte da questi due pilastri fondamentali la costruzione di un sistema che in seguito si estenderà fino ad abbracciare la Cina e altre nazioni emergenti.
Mercato Unico Europeo e NAFTA avevano fin da subito in embrione i problemi destinati ad esplodere oggi. Le riforme di mercato degli anni Novanta arrivano al termine di un’offensiva neo-liberista e travolgente: gli anni ottanta con Ronald Reagan e Margaret Thatcher hanno delegittimato l’economia mista, il capitalismo di Stato, la pianificazione e la concertazione sindacale.
Il crollo del Muro di Berlino ha sancito il fallimento finale dei sistemi comunisti, le cui economie erano già affondate in una inefficienza irreparabile. L’implosione dell’URSS e dei suoi satelliti è l’altra faccia di una storia di successo che ha baciato le economie di mercato: ad ovest del muro, l’America e l’Europa occidentale hanno conosciuto decenni di sviluppo e diffusione del benessere, che hanno coinciso con i primi smantellamenti delle barriere doganali.
Dal 1947 al 1995 il GATT e la CEE sono stati i primi esperimenti di libero scambio. Con gli anni ’90 la parola d’ordine diventa: andare più avanti, molto più avanti. Il duo Reagan- Tatcher sposano le teorie di Milton Friedman, premio Nobel per l’economia, capo della “Scuola di Chicago”, che aveva come slogan <<qualsiasi ostacolo che freni il libero mercato va abolito perchè impedisce dinamismo e ricchezza>>. Il pensiero era che senza più barriere e protezionismo ciascun paese poteva essere libero di specializzarsi nelle cose in cui era più bravo, in modo da poter sfruttare i propri vantaggi comparativi.
Questo pensiero è criticato fin da subito, tra i primi critici vi è Jacques Delors, socialista, cattolico e soprattutto era il Presidente della Commissione Europea che godeva dell’appoggio di Francois Mitterand. Delors è al timone quando a Bruxelles viene avviata la costruzione del Mercato Unico, e vede fin da subito la necessità che il suddetto Mercato Unico sia accompagnato da una “carta sociale dei diritti”.
Jacques Delors sostiene la “carta sociale dei diritti” perché intravede fin da subito la trappola che il Mercato Unico rappresenta, ovvero la nascita di una competizione fra paesi di livello economico differente all’interno della futura Unione Europea in una rincorsa al ribasso.
Il Mercato Unico è più di un’area di libero scambio; elimina le barriere occulte all’esportazione di beni e anche di servizi; abolisce ostacoli alla circolazione di tutti i fattori di produzione: dà libertà ai movimenti di capitali e all’emigrazione di manodopera; coordina politiche fiscali, industriali, agricole; crea regole standard in quasi tutti i settori e soprattutto VIETA gli AIUTI DI STATO.
Il NAFTA dal 1° gennaio 1994 è stato un esperimento simile applicato a tutto il Nordamerica: un’area che oggi include 480 milioni di abitanti. Lo firma un presidente democratico, Bill Clinton, con una dichiarazione molto simile a quella pronunciata da Romano Prodi all’alba dell’Euro <<Il NAFTA significa lavoro. Nuovi posti per gli americani affinché siano ben pagati>> Ci furono fin dall’inizio le resistenze dei sindacati.
Clinton aveva conquistato la Casa Bianca perché durante le elezioni del 1992 a rubare voti al presidente uscente Bush Senior era sceso in campo un terzo candidato, un Trump degli anni ’90 “Ross Perot”. Lo slogan più celebre di Perot contro Bush padre, che aveva negoziato il NAFTA, era il seguente <<Quel trattato succhierà fabbriche e occupazione dagli USA al Messico, dal confine messicano sentiremo il rumore di un grande vortice aspiratutto che porterà via i nostri posti di lavoro>> Perot profeticamente, quasi trent’anni fa, puntava il dito sul divario salariale.
Recentemente fra gli argomenti che Trump ha usato nella campagna elettorale del 2016, oltre al muro contro l’immigrazione c’era la promessa di pesanti ritorsioni e multe contro le imprese USA che delocalizzarono (e continuano a delocalizzare) nei paesi a basso salario.
Uno studio indipendente del Congressional Research Service, un quarto di secolo dopo, definisce “disastrosi” i benefici del NAFTA portati all’economia statunitense.
La confederazione sindacale AFL-CIO ha censito oltre 700.000 posti di lavoro trasferiti dagli USA al Messico. Se analizziamo quanto accaduto nella vecchia “RUST BELT”, la cintura della ruggine, ovvero la fascia di quegli stati industriali del Midwest che fecero da base alla potenza industriale USA per 200 anni, notiamo che i posti di lavoro delocalizzati a Sud verso il Messico, a scapito di operai statunitensi salgono a 3 milioni.
Queste sono le ragioni che possono far presagire il fallimento del libero mercato in quelle che del libero mercato hanno fatto proprio la loro ragion d’essere come il GATT e l’Unione Europea nella sua flessione economica.
A dare inizio allo smantellamento del neo-liberismo sfrenato, in occasione dello scorso G20, è stata la firma dell’USMCA, accordo che sostituirà il GATT a dar via ad un processo che ormai sembra irreversibile.
Infatti il nuovo accordo tra Stati Uniti, Messico e Canada prevede di alzare le barriere nei confronti dei prodotti realizzati al di fuori del Nord America, il Nafta prevedeva che il 62,5% del valore delle auto venisse realizzato nei tre Paesi per poter accedere al regime di libero scambio. L’Uscma (United States, Mexico and Canada Agreement) alza la soglia al 75% (gli Stati Uniti chiedevano una quota ancora più alta). L’Usmca introduce poi un nuovo criterio, una sorta di salario minimo implicito: il 40% del valore delle auto e il 45% del valore dei furgoni (ma in questa categoria rientrano anche pickup e Suv) deve essere realizzato in fabbriche che pagano salari di almeno 16 dollari l’ora. Questo parametro incide sugli stipendi pagati in Messico ed è stato fortemente voluto da Washington.
Ma il vero colpo al libero mercato viene sancito dalla “clausola cinese” secondo la quale uno Stato che fa parte dell’Uscma e che intenda negoziare un accordo commerciale con la Cina (ma anche Corea del Nord e Cuba) deve preventivamente avvisare gli altri due partner.
Fonte: https://www.ilmediterraneo.org/14/12/2018/dal-gatt-allusmca-il-fallimento-del-libero-mercato/
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